Marca francese: un pensiero per Philippe Jaccottet
di Massimo Raffaeli
Non potevo immaginare che la cancellazione fosse la via dello splendore ma è come l’avessi saputo da sempre. Voglio dire che la prima lettura, indelebile, delle poesie di Philippe Jaccottet (e qui mi riferisco alla versione condotta da Fabio Pusterla su Il Barbagianni. L’Ignorante nel volume pubblicato da Einaudi nel ’92, che ho avuto la fortuna di aver visto nascere) per me è stata un riconoscimento, anzi una vera e propria agnizione. Confesso che allora di Jaccottet conoscevo, se lo conoscevo, a malapena il nome. Eppure leggendolo, ammirandone d’acchito l’equilibrio che non era mai glaciale, lo spessore del segno che non era mai invasivo, sentivo vibrare qualcosa di straordinariamente prossimo e persino familiare, qualcosa che in realtà non mi era affatto noto (cioè un mondo di alberi e acque, di uomini così silenti e schivi da sembrare reticenti e sempre di passaggio, tutto un ecosistema diametrale rispetto alla mia quotidiana esperienza) ma che tuttavia mi parlava e con tenace lentezza, progressivamente, riusciva a vincolarmi. Di che cosa mi parlava, non già chiedendomi complicità (perché nulla è più lontano dal lenocinio retorico della poesia di Jaccottet) ma insinuando qualcosa di più difficile da dire, che sta fra l’incertezza, il dubbio e una quieta, non meno esigente, costernazione? Forse, e oggi credo di saperlo, Jaccottet era la poesia che non ha bisogno d’altro se non della sua stessa voce. Cerco di spiegarmi: non era una poesia che si proclamasse autosufficiente a priori e quasi per decreto dei significanti, perché l’eredità simbolista ne aveva profusa fin troppa, in francese come in italiano; tanto meno era una poesia per così dire puntellata dall’esterno (da una filosofia, da una politica o da una dottrina che la giustificasse), perché pure di quest’altra, dopo un secolo di poetiche à la page, da tempo si era sazi. Invece, la poesia di Jaccottet era quella della voce umana, così satura di esperienza, così spoglia del non necessario, così modulata nel profondo da poter arrivare al lettore nei termini di una semplicità primordiale. Una semplicità basale, perché era ed è la voce di un essere umano, qui-e-ora, che non ha presunzione di vivere e dire ma, al contrario, riconosce la mozione a vivere e a dire nel paradosso che entrambi istituisce: è possibile farlo, vivere e dire, solo in quanto lo si sente inevitabile ed è come aprire gli occhi, respirare e infine accettare la parola che può dire tutto questo. Quel verso di Jaccottet che allora mi batteva in testa, il verso che affermava lo splendore nell’atto stesso della sua cancellazione, non potevo che associarlo, come solo più tardi avrei compreso, ad una poesia del mio maestro, Vita e scritura di Franco Scataglini, dove appunto è detto che la vita e la scrittura sono compagne, consanguinee, «tuta scancellatura/ dopo dulor de sbai», il che significa, alla lettera, una cancellazione dopo il dolore di una vita costellata di errori.
(La poesia di Jaccottet, come ogni grande poesia, basta a sé stessa e consiste, per etimologia, nel disegno testuale che si affida alla lettura muta. Ma chi non ha sentito leggere dal vivo Jaccottet ad alta voce non può intendere fino a che punto essa possa somigliare o aderire a colui che l’ha scritta, vale a dire quanto la prosodia possa essere incarnata nella sua sostanza fonica. Ho ascoltato una volta sola Jaccottet quando venne in Ancona nel luglio del ’95, accompagnato da Pusterla, per una serata di “Poesia in giardino” a un anno appena dalla morte di Scataglini: che di quella serata sia rimasta, nella sua bibliografia, la plaquette/programma di sala dal titolo, veramente stupendo, Edera e calce, è motivo ulteriore di orgoglio, per me. Ebbene, leggendo, Jaccottet quella sera non sosteneva la sua poesia o tanto meno egli la interpretava ma con cadenza equanime, dedotta dai metri più tradizionali, ogni volta piegati e riallineati, si limitava a pronunciarla. I versi erano portati dal respiro, da un moto tanto naturale da riuscire fatale, nonostante chi seguiva col libretto alla mano si avvedesse della loro partitura sovrana, intramata, scoscesa in certi sottintesi ritmici come negli enjambements vertiginosi che il poeta seguiva nello stesso momento in cui li spingeva verso il baricentro della linea ulteriore, in un moto di calma assoluta e, insieme, di profondità cognitiva, di spasmo pulsante sottotraccia, laddove il respiro e il battito cardiaco sono finalmente una cosa sola. In realtà non c’era alcun miracolo della poesia né lo spettacolo di una voce, ma c’era più semplicemente la poesia di Jaccottet nella sua integrità psicofisica).
Ma non ho ancora detto la cosa più importante. No ho ancora risposto, cioè, alla domanda relativa al senso di fraternità o di paradossale familiarità provata fin dal primo contatto con la sua poesia. Ed è invece l’essenziale. Perciò provo a ritornare indietro e, fosse mai possibile, a liberarmi per un attimo della quantità di letture successive e delle ipoteche di una stima assoluta e oramai perfettamente interiorizzata. Cosa davvero mi colpiva della naturalezza temeraria, della sovrana semplicità? Probabilmente (ora direi certamente) il fatto che la parola di Jaccottet mi arrivasse, non so dirlo meglio, da un vero e proprio inframondo che sentivo suo e solo suo. Che quella poesia, in altri termini, parlasse di Natura ma non fosse natura, che si proponesse come storia di un uomo ma non fosse assoggettata alla Storia. Oggi potrei dire, ed è il suo autentico carisma: una poesia passata indenne, libera, attraverso i letali interdetti delle due metafisiche della modernità, Storia e Natura. Pertanto splende del suo lume astrale nel momento in cui simula una cancellazione e pertanto è una poesia dell’uomo (con i suoi boschi, le sue acque ma anche le città attraversate nella folla, nei rumori del giorno pieno), di un uomo che può permettersi di rinunciare alla parola “io” o che nemmeno concepisce l’espressione diretta, invadente e filistea, della prima persona. Eppure in Jaccottet si avverte la profondità verticale dei grandi lirici, si sente che l’ “io” da qualche parte deve pur esistere, che non si tratta insomma di una convenzione tramontata o, meno che mai, di una archeologia dell’essere. Perché c’è un soggetto, un uomo così uomo che può riconoscersi soltanto nel pronome della impersonalità e dunque della condizione più universale, l’anonimato delle persone comuni, coloro i quali, dopo tutto, provano a vivere e a dare un senso alla propria esistenza senza chiedere altro, senza chiedere qualcosa in cambio o un qualche accredito per esserci. Volevo dire che la poesia di Philippe Jaccottet è poesia politica, forse l’unica poesia politica che oggi sia possibile. E che anche come tale essa è degna di essere amata.
[originariamente contenuto in: AA.VV., Philippe Jaccottet. La poesia, le figure, il paesaggio, a cura di Fabio Pusterla, Quaderni di Orfeo, Mendrisio 2013]
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Marca francese è edito da Vydia.
Massimo Raffaeli raccoglie in questo volume il frutto di una ventennale, finissima scrittura sulla letteratura francese, frequentata, come afferma, da “autodidatta”, da un punto di osservazione – e di lettura – dichiaratamente eccentrico, periferico, già in quel riferimento alla “Marca” incastonato nel titolo. Un percorso di restituzione critica allertato, “rabelaisiano”, incardinato qui sulle figure speculari del gigantesco, incendiario Céline e dell’“impassibile testimone” Patrick Modiano, Premio Nobel 2014, passando, tra gli altri, per Rimbaud e Verlaine, Proust e Baudelaire, Zola e Queneau, Gide e Camus, Brasillach e Crevel, fino alla fascinazione per la poesia di Philippe Jaccottet. Un viaggio la cui rotta il lettore potrà disegnare strada facendo, pagina dopo pagina, libro su libro, accompagnandosi alla musica di Serge Gainsbourg, alle immagini di Truffaut e Renoir.