Lettere dall’assenza #3

di Mariasole Ariot

Caro J,
qui il cielo è una sommossa, l’uovo del mondo si è strappato : nascono gli oggetti che mi hai lasciato.
Ti scrivo ed è ancora buio, filtrano lampi di pulviscolo dalla finestra, la grana del mondo si frammenta e io distendo le righe di una lettera che non arriverà mai.
Abbiamo montato una tenda, raccolto le bacche e i ramoscelli per fuggire nella piena del bosco, hai radunato i corpi e li hai abbracciati ad angolo retto appena prima di partire, gli zaini pesanti, la pesantezza dell’esistenza, gli occhi spalancati in una sinfonia autunnale.

Ricordo ancora i passi, i piccoli avvenimenti delle giornate fredde, la foglia circondata dai sassi, il sasso che portavi al collo – e mentre ti scrivo apro la mano e raccolgo il mutaforma del suo resto, la scheggia rimasta.
Ne ho una piantata sul fianco, me l’hai infilata come s’infilano i ricordi. E’ questa memoria che non rimuove, dove tutto il già detto e già passato si presentifica come un appena nato ogni nuovo giorno, un embrione che continua la sua nascita milioni di volte, si prolunga nei millenni.
Ho visto una lepre correre sul petto, aggirarsi sulla pelle e saltare ai limiti sbordati di questo organo inquieto: quando l’hai mandata? Era ancora festa? Erano ancora i fiori?
La mancanza si fa presenza, non demorde, mi morde le labbra e le piccole viscere. Ho molti anni e non ne ho nessuno, come quando ci siamo scambiati le bocche per parlare la lingua dell’altro.
Nella tua c’era un serpente, i miei denti come chicchi di riso ridevano sulla tua: è forse questo diventarsi?

Ho una culla dentro la bara e un cimitero nella soffitta, lo visito a giorni alterni portando narcisi e piccole pietre scavate dall’oceano (hai visto l’oceano, mi hai vista tuffarmi con la testa degli annegati?) – e mentre le rocce del muro si sfaldano, io mi aggiro votiva per accogliere un liquido stanco che cerca di portare nutrimento all’abitazione del cervello.

Ancora, qui, di fronte allo sguardo c’è la tua immagine annebbiata che fisso per ore dal giorno in cui ti hanno portato a forza nel tombale dei tuoi sacrifici, la camicia di forza contenuta in una pillola bianca, il pungiglione conficcato nella gamba. Non ho pianto, ho solo premuto forte l’indice al centro della fronte, dove stanno le connessioni uno a uno, io a tu, tu e l’altro. Ascolto canti nordici nella lingua del Von, i prati aperti dell’Islanda, le strade che dovevamo calpestare, e con una corda ho legato la tua gabbia alla mia, permango nell’attesa dello snodo, il lento disorientarsi delle cose.

Una chioccia
una scarpa
un mantello
la mantide
le tue braccia
il mio ventre
la tua testa
le mie dita
la tua gente
la mia città
la tua perdita
la mia scomparsa

Vivo ancora senza nome, all’anagrafe dicono: un errore negli spazi. A volte, J, il bianco prevale.
Eppure non mi pesa, libera le dichiarazioni, libera i riconoscimenti dalle paure, apre le porte all’impensato, dove tu spingi con le dita attraversando le maglie della tua reclusione e io mi rannicchio nel fondale per una fine annunciata il giorno degli inizi. Ti hanno preso appena fuori dal bosco, quando appesi alle liane dei tronchi ci siamo gettati nella strada dei passaggi. Era inevitabile: i giorni di luce vengono rinchiusi se non portano le vesti adatte, e noi eravamo nudi nella nostra grande mattina calda. Il segno marchiato a fuoco sulla schiena è rimasto, tu rimani nella bocca e sulla pelle, cerco di grattare la superficie ma la superficie resta. E’ forse la tua maledizione?

Le madri sono nel sacco, ho provveduto io, non aver paura. Le ho attirate come si fa coi roditori quando hanno mangiato troppo: e loro avevano mangiato troppo.

Puntellati nel posto in cui ci siamo detti addio abbiamo optato per la resistenza, una lettera come un capotasto per racchiudere le note successive : siamo nello spazio vuoto degli innati, ci compensiamo mentre io stringo le gambe e tu trattieni gli eccessi.

Poi, a volte, si accende un lumino: urlano le gatte in calore, urlano corvi e grondaie, urlano gli oggetti, urlano le mandrie impazzite del ventre, urlano le mani, urlano i lampi estivi, e mentre tutto grida la parola si distende. Una lingua strappata e depositata nella teca dei passati.
J, quando accade tu non cadi, ti ritrovo nell’angolo remoto per passare la punta delle dita ancora una volta tra la radura della tua testa : hai un parco e un giardino nel petto. Pianto un seme di giacinto e lo innaffio ad ogni ora. Se questo amore morto, se questo amore giallo, se questo sole bianco si fonde con l’opposto, se questo nero è nero.

Puoi sentirmi? Ti attraversa la corrente?

Il tuo grillo parlante sono io, quando decido di restare.

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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