Sogni e favole di Emanuele Trevi
di Marco Renzi
Qualche anno fa, assieme ad alcuni amici, provai a metter su un cineclub, con la speranza di dar spazio a film penalizzati dalla pessima distribuzione nostrana. Già sapevamo, visti i tempi che corrono e la nostra collocazione provinciale, di andare incontro a un fallimento, sebbene alcune persone, quasi tutte intorno alla cinquantina e oltre, apprezzarono l’iniziativa e si fidelizzarono. Superfluo dire che l’esperienza non durò a lungo: si trattava più che altro di riportare in vita, da parte di noi non ancora trentenni, il fantasma di un Novecento vissuto solo con gli occhi dell’infanzia, rapidamente spazzato via dall’iper-connessione di un Terzo millennio che non poteva tener conto di certi residui, di certe romanticherie. Impossibile pretendere che molte persone fossero rimaste attaccate a quel modo di fruire e contemplare le opere d’arte, schiacciate com’erano dalla velocità contemporanea, dal «tutto e subito» imperante del nostro tempo.
Mi ha sorpreso in positivo ritrovare il cineclub nelle prime pagine dell’ultimo libro di Emanuele Trevi, dove lui riflette, tra i tanti temi, sullo scarto tra gli ultimi anni del Novecento e il presente, e lo fa ricorrendo, come già avveniva in Senza verso e Qualcosa di scritto, alla materia autobiografica. Negli anni tra la fine del liceo e l’inizio dell’università, Trevi lavorava in un cineclub dove, al termine di una proiezione di Stalker di Tarkovskij, incontrò Arthur (o Arturo) Patten, fotografo col quale instaurò una profonda amicizia che sarebbe durata fino al 1999, anno della morte di Patten: un legame fondamentale per la sua educazione umana, sentimentale e, alla luce di un testo così, anche letteraria. Le altre due figure che segnano la vita e il lavoro dello scrittore romano, in quest’ibrido tra romanzo, autobiografia e saggio, sono Cesare Garboli e Amelia Rosselli. Filo conduttore di Sogni e favole è invece Metastasio, o meglio ancora il sonetto a cui il titolo s’ispira, e che vale la pena citare per intero.
Sogni, e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole, e sogni orno, e disegno,
in lor, folle ch’io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango e mi sdegno.
Ma forse, allor che non m’inganna l’arte,
più saggio io sono? È l’agitato ingegno
forse allor più tranquillo? O forse parte
da più salda cagion l’amor, lo sdegno?
Ah che non sol quelle, ch’io canto o scrivo,
favole son; ma quanto temo, o spero,
tutto è menzogna, e delirando io vivo!
Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
fa ch’io trovi riposo in sen del vero.
L’artista su commissione per eccellenza, il più celebre e pagato autore italiano della sua epoca, visse “felicemente” fino alla veneranda età di ottantaquattro anni, tanto da scatenare in seguito l’indignazione di Alfieri e poi di De Santis per questa sua esistenza tranquilla, per questo io che mai si metteva a nudo ma che, le rare volte in cui lo faceva, come in questa poesia, si confessava per il «fingitore» che era, per dirlo con le parole di Pessoa citate nel libro.
La sua «abitudine di fingere lo predispone a capire di che stoffa sono fatte tutte le altre cose», scrive Trevi. E sul rapporto tra realtà e finzione, sugli intrecci tra letteratura e vita, si concentra Sogni e favole: in una Roma magica, altra indiscussa protagonista della narrazione, città capace di nascondere ricordi, ispirazioni e brecce di memoria in ogni suo interstizio, si ambienta un non-romanzo che nel sottotitolo Un apprendistato trova la sua ragion d’essere.
Quello di Emanuele è un viaggio all’interno di se stesso: la ricerca di un equilibrio tra il professore universitario che in giovane età aspirava a diventare, tra il critico e lo scrittore che sarebbe poi diventato, e il desperado, parola che meglio di ogni altra esemplifica l’attitudine di questo straordinario narratore, tanto letterato quanto vagabondo, nonché sapiente ritrattista, così come lo erano, in ambiti diversi, Garboli e Patten.
L’amico fotografo, lettore onnivoro ed eclettico, dalle conoscenze trasversali, lo farà incontrare col «grande critico», dal quale riceverà in dono gli Scritti servili e il quesito sul sonetto di Metastasio, poi ricorrente nella loro frequentazione, che andrà ben al di là di quello allievo-maestro. Cesare Garboli, grande conversatore telefonico (telefono fisso, ovvio) come molti della sua generazione, esiliato volontario a Camaiore dopo il delitto Moro, firmò grandi capolavori della critica nonché, appunto, del ritratto: non solo i già citati Scritti servili, ma anche l’Introduzione ai Diari di Antonio Delfini, o l’ancor più celebre Cronologia pascoliana. Il grande critico, le cui righe su un giornale non solo valevano quelle di un abile prosatore, ma potevano stroncare o far decollare la carriera di un autore, è un altro simulacro novecentesco, una figura di cui si sente indubbiamente la mancanza, almeno tra coloro che ancora osano addentrarsi tra i meandri della letteratura. Viene però da chiedersi se oggi un Garboli verrebbe ascoltato come allora. E i poeti, invece, quanto sono presenti nel dibattito pubblico? Un tempo avevano un certo peso, ma oggi non è più così, e non perché ne manchino di bravi; semplicemente, il loro ruolo è divenuto sempre più marginale. All’epoca era ancora possibile creare una cornice come quella di Castelporziano, dove si tenne il Festival Internazionale dei Poeti, nel bene e nel male una pagina importante per la cultura italiana: in molti erano lì per Allen Ginsberg, altri giusto per curiosità. Di sicuro, il quindicenne Emanuele Trevi non era ancora interessato alla poesia, ma vi fu trascinato da un’amica più grande; e lì vide Amelia Rosselli, salita sul palco per leggere alcuni versi: la sua «apparizione […] rappresentò un vero dislivello, il manifestarsi di un piano di realtà totalmente diverso e inconciliabile con le circostanze». La poetessa, da Trevi definita uno dei maggiori «poeti» del Novecento italiano, fu presenza costante nella vita dell’autore: in quanto amica del padre, lo prese in braccio quando aveva soli quattro mesi; poi ci fu Castelporziano, e infine l’incontro con un Emanuele ormai innamorato della poesia e delle lettere, al quale seguirono una visita al suo piccolo appartamento romano di via del Corallo, l’avvicinamento a una donna amabile e intrattabile al tempo stesso. Fu una vita dolorosa, quella di Amelia Rosselli, riversata in un’opera comprendente Storia di una malattia, La libellula e altri testi indimenticabili, celebrata in alcune delle splendide pagine di questo libro, anche in una delle foto in bianco e nero presenti al suo interno, dove la donna è ritratta dallo stesso Arthur Patten, il cui obiettivo rivela la fragilità e la forza del suo sguardo.
«Chi li ha mai letti i poeti del Novecento, a parte un manipolo di disturbati?», si domanda a un certo punto il narratore. Chi leggerà mai i poeti e gli scrittori del nostro tempo?, c’è invece da chiedersi dinanzi alla riprova che è ancora possibile fare alta letteratura, con un racconto che non vuole essere conciliante o banalmente nostalgico. Trevi non si rammarica per un mondo che non c’è più: si limita a constatarne la fine, ripercorre gli ultimi respiri di un’epoca in cui si poteva godere di certi romanzi, poesie, film e arte in genere con un approccio critico oggi forse non più praticabile, o magari riservato solo a pochi eletti.
Oggi è ancora necessario riflettere su un’eredità tanto preziosa: un libro come Sogni e favole, con la sua prosa ricca eppure limpida, perfetta sintesi tra la penna del critico e quella dell’artista, è frutto di quella lezione novecentesca che s’immaginava la letteratura di domani rifacendosi alla tradizione: un insegnamento dal quale non si può prescindere se ancora si vuol parlare di letteratura.
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Emanuele Trevi, Sogni e favole (Ponte alle Grazie, 2019)