Milano, via Mac Mahon

di Roberto Antolini

Dei miei genitori mi è rimasto un album fotografico, un album all’antica, oblungo, rilegato in pelle, con le pagine di cartoncino colorato su cui, negli anni, sono state attaccate alla rinfusa molte fotografie della loro vita, da quelle degli anni ’30 di prima che si conoscessero, alla foto del matrimonio a Trento nella chiesa di S. Maria nel 1949, fino a quelle degli anni ’60. Ce n’è una che, guardata con gli occhi giusti, riporta al clima del primissimo boom economico italiano, anzi agli anni immediatamente precedenti, preparatori.

Adesso ne è rimasta una stampa in bianco e nero, ma ricordo di averne vista da giovane una stampa a colori: meraviglia delle meraviglie, colori trasparenti e luminosi, sicuramente una delle prime foto familiari a colori (la quasi totalità delle fotografie dell’album sono in b/n). All’intimità della foto certamente contribuiva la trasparenza e nitidezza del colore, giocato sul contrasto fra una fascia soleggiata in primo piano – in cui compariamo noi quattro: io in grembo a mio padre con davanti, appoggiati sul piano del tavolo dietro cui sediamo, una sfilza di giocattoli da maschietto (macchinine, moto, addirittura un carroarmato), e mio fratello piccolo piccolo in braccio a mia madre – e lo sfondo retrostante avvolto in una morbida ombra, nella quale alle spalle di mio padre si riconosce il gioco di luce proiettato da una tapparella mezza sgranata (e la tapparella invece dell’imposta già allude ad un contesto di modernità architettonicamente aggiornata). Ignoro chi abbia scattato, deve essere stato un bravo fotografo, forse un collega di mio padre, un altro geologo dell’ENI, perché loro usavano precocemente foto a colori, per documentare quanto andavano a visitare nei loro sopralluoghi: l’emersione di serie stratigrafiche di rocce sedimentarie dalle varie tonalità, o sabbie e terre con tracce cromatiche di particolari affioramenti. Ma oltre al colore, è proprio la natura della fotografia che è intima, intimissima. È il ritratto di una giovane famigliola mononucleare del montante ceto-medio della nuova Italia industriale. I miei genitori sono fascinosamente giovani (appena quarantenni) e radiosi, niente di simile ai baffi appuntiti che compaiono nelle vecchie foto dei nonni trentini, niente aria impettita davanti alla macchina fotografica, niente abiti dalla festa. Mio padre con una chioma nerissima, folta e mossa, pettinata all’indietro, che in maglioncino a V ma con la cravatta, guarda soddisfatto quel pòpò di famiglia che si è messo su al ritorno da sei anni di prigionia in India, mentre mia madre, che sembrerebbe niente meno che in morbida vestaglia, con un rarissimo (per lei) sorriso radioso, come persa in una provvisoria beatitudine, guarda verso l’obiettivo avviluppata nell’abbraccio al suo secondo figlio, anche lui timidamente sorridente. Solo io ho un’aria torva, mentre guardo lontano con la bocca aperta. Chissà quali orizzonti inseguivo, forse solo la macchina fotografica del forse collega di mio padre.
Mio fratello è piccolissimo, avrà un anno, e siccome era nato nel 1954 a Lodi, mentre lì siamo già a Milano, in via Mac Mahon, la foto sarà del 1955. Abitavamo in uno dei piani alti di un palazzo allora di nuova costruzione, ancora abbastanza in periferia, in una periferia traboccante di rinascita post-bellica, nel tratto appena al di qua della terza circonvallazione, ma in fondo non lontano da piazza Diocleziano, e quindi proteso lungo la discesa verso il centro di quella storica arteria alberata della nuova Milano industriale di inizio secolo XX – via Mac Mahon – percorsa del tram N.12 e con una solida reputazione letteraria, affidata a Testori e non solo.

Da via Mac Mahon ce ne siamo andati poco dopo la foto, per finire prima in Sicilia e poi al di là del Mediterraneo, ad Addis Abeba, seguendo mio padre nei suoi sviluppi professionali. Così a me quel preciso luogo, quel tratto di via Mac Mahon all’incrocio con via Giuseppe Arimondi («generale 1846-1896» recita il cartello, ma anche Patrice Mac Mahon era un generale, francese, eroe della battaglia di Magenta della seconda guerra d’indipendenza italiana) mi era scivolato fuori dalla memoria, era rimasto solo il nome della via, appeso ai ricordi come una gruccia porta-cappotti abbandonata su un attaccapanni dell’ingresso. Lo ho ritrovato qualche giorno fa, rimanendo folgorato da un cortocircuito della memoria, uscendo dalla Fondazione Nuova Bartolini di via Bartolini, dove mi aveva mandato la mia milanese seconda moglie, a curare un dente maledetto. Uscendo dalla seduta sotto i ferri del dentista, ancora rintronato dalle anestesie e dal trapanamento dell’osso mascellare (credo si chiami così), cercando un bar dove bere qualcosa, mi sono ritrovato in un angolo dall’aria stranamente familiare. Una strada dall’aspetto ora post-industriale, coperta di murales, che scende un po’ in pendenza verso la via Bartolini da un angolo di via Mac Mahon. Come in un flashback cinematografico ho rivisto palloni che mi scappavano di mano e prendevano velocità lungo la discesa di via Arimondi, mentre mio padre sbuca da dietro l’angolo, e rincorrendomi appena uscito dal portone d’ingresso del condominio, mi apostrofa affettuosamente con un «ma come, Roberto, te lo sei perso un’altra volta sto pallone? Non faccio neanche a tempo a ritirare la posta dalla la cassetta delle lettere che tu mi scappi via e ti perdi subito il pallone! Sai che adesso rischia di finire sotto qualche macchina!». Ma per fortuna le macchine di allora erano ancora rade, anche a Milano. Niente di paragonabile con l’oggi.

 

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2 Commenti

  1. Per 50 anni mia madre scrisse lettere e cartoline a sua sorella che abitava in Via Mac Mahon, all’ultimo piano di un palazzo dove è rimasta tutta la vita e vi è morta. Andai con mia madre a farle visita, e fu uno dei miei primi viaggi. Per me che abitavo in una villetta con giardino a Roma, affacciarsi alla finestra o vedere dal balcone la strada sottostante dove passava il tram fu una novità divertente. Non ho mai dimenticato quel mio primo viaggio a Milano e quella strada. Ritrovarla in questo ricordo mi ha evocato tempi lontani quando da bambina mia madre mi dava da impostare lettere per quella zia in Via Mac Mahon. Grazie a Roberto , Maria

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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