La poesia come esercizio d’estraneità
di Andrea Inglese
[Il testo che segue è stato incluso nell’antologia curata da Gian Maria Annovi e Thomas Harrison Ends of poetry per la rivista “California Italian Studies”, Volume 8, Issue 1, 2018]
Non credo troppo alla fine della poesia, anche se tutto prima o poi finisce, a partire dal sole stesso, che come tutte le stelle dell’universo ha una data di scadenza. Non ci credo, perché esattamente come facevo io più di vent’anni fa con un poeta più vecchio e affermato di me, oggi un giovane trentenne mi spedisce il suo primo libro, o delle sue poesie inedite, nella speranza che io gli fornisca un mio giudizio o le pubblichi sulla rivista in rete a cui collaboro. Più di vent’anni fa non c’era la rete, e tutte le riviste erano cartacee, e inoltre era un poco più facile capire chi fosse o meno un poeta affermato nell’ambito della poesia. A parte questo, non credo che il numero di persone interessate o preoccupate per la sorte della poesia fosse molto maggiore di quello attuale. Inoltre, non credo che la poesia sia giunta al capolinea, perché la reputo una pratica antropologica molto importante, forse troppo importante perché si possa estinguere facilmente. Una pratica antropologica apre delle possibilità umane d’azione e comprensione del mondo anche se è una pratica minoritaria, di piccoli gruppi di persone. Ciò che davvero conta in una pratica antropologica, seppure di minoranza, non è l’alto numero di persone che la praticano in un momento storico dato, ma la sua capacità di trasmettersi da una generazione all’altra. Misteriosamente, contro tutte le diagnosi catastrofiche, la poesia, in una forma plurale, incerta, in perpetua evoluzione, continua a trasmettersi alle nuove generazioni. Questa pratica è connessa a una particolare esperienza della lettura: chi legge poesia, ad esempio, è disposto a leggere anche delle cose che non capisce. Il giorno in cui tutti pretenderanno di capire esattamente cosa stanno leggendo, la poesia e la filosofia saranno davvero morte. Questa capacità di sopportare forme oscure di comunicazione verbale è connessa con una particolare esperienza estetica e cognitiva: il distacco dal linguaggio così come si presenta nella funzionalità ordinaria della comunicazione. Non che la poesia non sia una forma di comunicazione linguistica, ma lo è a partire da questo distacco, da questa estraneità, da questo divenire opaco del linguaggio. Questa esperienza, suscitata dalla lettura, è poi nuovamente riattivata attraverso la scrittura. Ma questa sospensione dell’ordinaria comunicazione (nell’ascolto-lettura e nel parlato-scrittura) apre a un’esperienza ulteriore, che è lo scollamento del vedere con il dire, della cosa con il suo nome. La poesia, allora, tra le altre cose ha questo scopo: favorisce un esercizio di estraneità nei confronti del mondo storico in cui si vive, e della lingua che si è ereditata dalla propria cultura.
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Foto dell’autore: Pagine, 2015.
Il fuoco sacro?
Anche l’accendino a gas
boh…..ma bisognerebbe smetterla con…..’pratica antropologica seppure di minoranza…..forma plurale incerta…. ‘ etc.
quando poi le conclusioni sono belle…..’esercizio di estraneitá nei confronti del mondo storico in cui si vive,,,,’
Ps. …scrivo queste due note all’indomani dell’incendio di Notre Dame…un’estraneitá appunto verso il mondo storico…e al disvelarsi sempre della Poesia…..
Notevole, grazie.
L’enfasi su scollamento, estraneità, opacità in atto del linguaggio poetico mi fanno pensare alla ricerca di Carmelo Bene e al suo lavoro sulla parola scritta (che potrebbe o dovrebbe anche “dis-dire” e “dis-crivere”) e soprattutto su quella parlata (non solo logos ma anche e più essenzialmente phoné: timbro, ritmo, melodia). Bene parlava del suo “lasciarsi possedere dal linguaggio piuttosto che disporne”; credo che anche questa strada possa portare a una (cruciale, irrinunciabile, salvifica) estraneità nei confronti della storia e della lingua.
Andrea, che ne pensi?
In ogni caso, viva la poesia e abbasso i gufi che ne pronosticano regolarmente la fine!