Scuola o mai più
di Pino Tripodi
Gli studenti, i giovani – a sentire i tempi e i padri – appaiono anestetizzati, una carovana di moribondi in viaggio verso la fine. Sono inetti, ignoranti, sciocchi, superficiali, maleducati, delinquenti, fannulloni, narcisisti.
La sciocchezza del paradigma passatista li tratteggia così. I passatisti hanno sempre raccontato frottole simili per brillare di una fiammella fatua prima di scomparire sotto l’incalzare delle nuove generazioni.
Il vecchiume tenta di resistere alla propria morte. Ci sta, ma chi è affetto da vulgata passatista scoraggia ogni anelito di vita non solo perché non sopporta di diventare vecchio ma per la semplice ragione che non è mai stato giovane. Nella non esistenza dei figli trova motivo di vitàlità, pretende dai giovani ciò che da giovane non è mai stato.
Il secondo paradigma, altrettanto sciocco, è quello scientista. La scuola, il lavoro, sono residui arcaici di un mondo che scompare sotto la forza progressiva del cloud, dell’infosfera e delle tecnologie. Le vite amorfe, la retorica e i costi della formazione permanente, i mille lavoretti in attesa di qualcosa che assomigli a un lavoro, la fatica di Sisifo per acquisire autonomia e indipendenza sono solo transitorie pagliuzze che si traformeranno in oro colato appena il nuovo avrà finito di trionfare.
Intanto a ciascuno è richiesto di lavorare gratuitamente giorno e notte, veglia e sonno, scuola e tempo libero, nel consumo come nella produzione, volontariamente o involontariamente, non per se stesso, per gli amici, per la famiglia, per la comunità o per il Paese – tutti residui preistorici – ma per facebook, amazon, google, alibaba e altri vettori lesti a istigare e a catturare il desiderio compulsivo globale.
Prima che le scioccheze si autoavverino è tempo di ribellarsi allo stigma in cui la contemporaneità si è vista cacciare. Senza l’immediata pretesa di distruggere un nemico impalpabile. Il ribelle prima ancora di trasformare il mondo desidera trasformare se stesso, la propria vita, le proprie condizioni materiali e spirituali. Senza trasformazione del sé il mondo diviene sempre peggiore.
E allora per prima cosa occorre controvertire le sciocchezze precotte del passatismo e dello scientismo.
Non è vero che gli studenti, i giovani sono più maleducati, sciocchi, fannulloni, ignoranti, narcisisti di queli di ieri.
Non è vero che gli studenti e i professori sono meno preparati.
Non è vero che sono tutti dipendenti dalle droghe e dallo smartphone.
Non è vero come non lo è qualsiasi generalizzazione.
Dire tutti è un modo stupido per colpire la dignità di ciascuno.
Non è vero, soprattutto, che la scuola non serve a niente. Che sono altre ben più potenti le agenzie formative che contano.
Occorre invece rivendicare con orgoglio un’idea: mentre tutte le altre istituzioni rischiano di sciogliersi nell’acido muriatico dell’insensatezza e della confusione, la scuola, le università devono riprendere ad avere il ruolo che gli è stato spesso consono: territorio franco di formazione della soggettività prima e oltre il suo utilizzo come mera macina di lavoro, di profitto, di consenso, di conformismo, di strapotere, di macchina del desiderio compulsiva tanto più egoica quanto più servile.
Prima di ogni altro prima c’è il sapere, ci sono le scuole, le università.
Occorre rivendicare alla scuola e all’università le funzioni di argine che ripara dall’ignominia, di luogo teso ad unire ciò che nel resto della società viene diviso, di palestra in cui ci si allena a cooperare anziché a competere, ad attutire le ingiustizie anziché a esaltarle, a far leva sulla differenza proprio mentre si esperisce l’eguaglianza.
Nonostante tutti i difetti, le malefatte e i vuoti le scuole e le università rimangono il migliore dei mondi possibili.
Il resto della società non se n’è ancora accorto.
Sputa continuamente sulla scuola, la considera, al pari dell’Europa unita, l’origine di tutti i mali. Da decenni tutti gli sciocchi, al potere e all’opposizione, fanno gara per anestetizzare la scuola e gli altri luoghi del sapere. Il perché prescinde dalla volonta, ma è evidente. Solo una scuola inerte e ignava garantisce l’alta velocità dell’oppressione sociale, rende possibile a tutti gli incapaci di sollevare la clava della meritocrazia per acquisire clientele e potere.
Tocca a chi vive nella scuola e nelle università acclarare l’evidenza. Basta poco. Basta togliere alcune pagliuzze che rendono impossibile osservare la verità. Basta realizzare ciò che per i più è più che ovvio. Basta interdire ogni scambio simbolico tra perfezione della legge e orrenda miseria della sua consustanzazione.
Basta che gli studenti e i professori, i singoli e gli organismi collettivi, i collegi dei docenti e le assemblee degli studenti si decidano – pur anche in conflitto tra di loro – a re/agire. A riprendere in mano il corso della propria vita, ad abbandonare l’inerzia, lo sconforto, la depressione, l’accondiscendenza, la rassegnazione, l’attesa della fine.
Per ri/cominciare, di seguito vengono presentate delle proposte immediate e semplici.
Si tratta di una piattaforma minima emendabile, bisognosa di ulteriori ragionamenti e proposte magari più efficaci, creative e sovversive.
Non è importante condividere tutto.
Essenziale è gettare un sasso nello stagno. L’importante è ribellarsi alla morte sociale nella quale il sapere è stato relegato.
La colpa più grave che si ha quando si è oggetto di uno stigma così diffuso è quella di non ribellarsi.
Per iniziare
1) Rendere scuole e università libere da smartphone. Studenti, professori, tecnici, all’ingresso delle scuole e delle università depongono le armi, cioè consegnano il loro dispositivo e ne riprendono possesso solo al termine delle attività.
Rifiutiamo di vivere nello smartphone e per lo smartphone.
Ogni tecnologia produce un tipo umano, un’antropologia specifica. Lo smartphoner è un individuo sempre disponibile e volontariamente connesso, un lavoratore gratuito per il quale ogni cosa del mondo è tanto a portata di mano da renderla distante anni luce, ogni presenza è distanza abissale, ogni informazione concorre a formare un’ignoranza pregenetica. La connessione perpetua è alienazione pura.
Anche dal punto di vista affettivo, la disponibilità 24 ore al giorno è devastante.
Per limitare la dipendenza, la distruzione di massa e i disturbi dell’attenzione questa pratica è magari individualmente dolorosa ma socialmente inderogabile.
2) Al di là delle valutazioni classiche – dei professori, degli studenti, sempre a garanzia d’arbitrio –, e delle autovalutazioni – da incentivare per favorire la corrispondenza tra obiettivi e risultati, non per incutere sensi di colpa -, fondare un sistema di valutazione dei gruppi classe/corso e dell’istituzione scuola/università nel suo complesso.
Le valutazioni sia degli studenti sia dei professori dell’intera classe/corso e della scuola/università tendono a dare maggior rilevanza al fattore di relazione, di socializzazione e di cooperazione, vere chiavi del processo formativo.
3) Scuola aperta anche di pomeriggio e spazi universitari disponibili per attività volontarie e autogestite di studio, laboratorio, sport, musica, produzioni multimediali.
4) Stop alla medicalizzazione degli studenti. Basta con PDP, PEI,
BES, DSA. Le sigle come le file aumentano in misura direttamente
proporzionale alla stupidità e all’oppressione.
5) Esodo di massa dai social network esistenti e fondazione di altri
media non proprietari, non invasivi e non distruttivi per la mente e
per i corpi delle generazioni al presente e a venire.
6) Assegno crescente per gli studenti che superano la soglia dell’obbligo scolastico. Anzichè pagare – e indebitarsi a vita come succede se si frequentano certe università o master post laurea – si viene retribuiti per studiare. Inoltre, più si procede negli studi più si guadagna.
La proposta tende a rovesciare la piramide delle priorità degli ultimi decenni, a cambiare paradigma sociale e temporale.
A dispetto delle norme vigenti, e dell’ideologia meritocratica imperante, si va tornando rapidamente alla scuola di classe. I ricchi accedono a un livello formativo alto, i poveri inferiorizzati e medicalizzati si vedono confinati nello stagno nel neoanalfabetismo. Inoltre, chi riesce con grande fatica a superare gli sbarramenti sociali accedendo a livelli formativi alti, ha la necessità di indebitarsi fino alla follia nella speranza che al ventesimo master possa trovare un simulacro di lavoro.
I governi si preoccupano di pensioni. Pensioni che nel rovesciamento della piramide sociale proposta andrebbero limitate a esclusivo beneficio della popolazione che indipendentemente dall’età è impossibilitata a svolgere qualsiasi attività.
La vecchiaia non è solo un problema anagrafico. La vecchiaia che fa male all’Europa è quel mostro che divora i propri figli.
7) Istruzione, cultura, ricerca nel budget degli stati diventino la prima voce di spesa in rapporto al PIL. Quando ciò accadrà, il presente sarà migliore.
Le proposte avanzate e le altre che matureranno non sono oggetto di nessuna richiesta, di nessuna trattativa.
Chiedere a qualcun altro di cambiare il mondo è ridicolo.
Non chiedere niente è il modo più efficace per cambiare tutto.
Pino Tripodi
Nota Bene: I lettori di questo testo sono vivamente pregati – per utilizzare una parola antipatica: diffidati – di non farlo circolare su facebook, watsapp, linkedin, instagram, twitter.
Il contenuto si squaglia nel mezzo.
Possono a loro piacimento discuterne direttamente in colloqui, riunioni, assemblee, manifestazioni pubbliche, occupazioni, insorgenze. Possono beninteso diffonderlo liberamente via posta, mail, giornali, riviste, radio, volantini, manifesti murali.
Concordo su molti punti, specie la mutazione antropologica legata alla dipendenza da smarphone.
Dissento sul punto 4), che mi pare metta insieme in modo affrettato e superficiale certificazioni e programmi speciali utili e necessari, veri strumenti di aiuto per ragazzini davvero in difficoltà, con l’attuale discussione in corso sull’eccesso di medicalizzazione. Dato che lavoro nel campo, so quanto sia utile e restituisca dignità e motivazione ad un allievo, ad esempio dislessico, la stesura di un piano personalizzato d’apprendimento (tipo BES, appunto).
anche io penso al punto 4) ma, purtroppo, i programmi e le azioni spesso sono utilizzati male o superficialmente perché l’ obiettivo degli insegnanti o della scuola più che essere lo studente è, sovente, l’alleggerimento del lavoro di classe o “il raggiungimento dei livelli, di formazione, del bla, bla, dell’Istituto scolastico … purtroppo troppo spesso è così: allora, porre una questione come il punto 4) è utile a rimettere al centro l’ obiettivo giusto
bravo Pino, finalmente una cosa chiara e senza eufemismi. L’unico rischio è che resti un’utopia, ma, tu dirai, dipende da noi. Vediamo.
Ho letto d’un fiato e poi riletto. Da tempo mi sono allontanata dai socialnetwork, e sebbene l’intento iniziale fosse solo una presa di distanza motivata dal contingente, sto sviluppando una resistenza forte a questo tipo di dispositivi.
Del resto, dici bene “anche dal punto di vista affettivo” l’iperconnessione è devastante, perché in realtà mi accorgo di quanto paradossalmente spinga alla velocità della luce i soggetti a distanza siderale gli uni dagli altri. Più siamo “vicini” e più ci distanziamo, essendo quella vicinanza, in realtà, un’alterazione che cortocircuita le vite, gli spazi, i tempi di ciascuno.
Nonostante per età sia distante dalla “scuola”, ho vissuto in prima persona la medicalizzazione di cui parli, che rimanda anche all’intento di misurare e catalogare, desoggettivando e depotenziando gravemente la portata di quello che tu chiami sapere ma che preferisco nominare come conoscenza o volontà di conoscenza.
Come dice Sparz, forse resta un’utopia, ma è proprio (s)forzandosi di vedere il nuovo, anche l’impossibile, che forse si può avanzare. Gran bel pezzo.
DISSENTO, con forza, sul punto 4, almeno per come trattato.
Condivido il resto.