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Vedovanza

di Mirfet Piccolo

Alla fine – perché di questo si trattava, della fine che non lascia dubbi – avrebbe voluto baciarlo ancora o almeno poter stringere la bara che d’ora in poi avrebbe accolto il suo corpo per sempre. Sul volto di Lisa, che era un volto identico a tutti volti delle persone che piangono la morte della persona amata, e cioè corroso dal dolore, si disegnò un sorriso breve e amaro. Lui era stato un uomo leale e buono, lui era stato il grande amore della sua vita, e non era stata certo colpa sua se negli ultimi mesi le circostanze lo avevano costretto a stressanti ma necessarie mediazioni, esattamente come non poteva essere imputato a lui il dolo dell’incidente d’auto che lo aveva ucciso. Ci sono cose che accadono, pensò Lisa, imprevedibili e che non si possono controllare: così è l’amore e così è la morte.

Piuttosto, se c’era una colpa, se davvero una colpa andava trovata in quel pasticcio che è la vita di alcune persone quando vengono in contatto l’una con l’altra, ecco, se c’era una colpa quella era di Lisa: in quel loro ultimo piccolo litigio, lei non era stata in grado di controllare la frustrazione e ora era il cuore del suo rimprovero a se stessa, era il suo senso di colpa per non averlo amato incondizionatamente, per non avere avuto del tutto fiducia in lui. Lo sguardo di Lisa si posò su una foto di loro due, insieme: era stata una vacanza al mare di un giorno solo, un giorno rubato alle complicanze della vita.

Lisa aveva prenotato un taxi per le nove e trenta, e quando avvertì l’auto sostare e guardò il suo orologio da camera che in quel momento segnava esattamente le nove trenta, lei rallentò i suoi stessi movimenti: la verità di quella morte – era davvero morto? era successo a loro, tutto questo? – era in quella lancetta e lei voleva lasciarla correre ancora e ancora, ritardarne l’esistenza.

Finì di chiudere i lunghi capelli lisci in uno chignon e nel farlo si impose di non pensare alle sue mani tra i capelli quando la baciava e la stringeva dopo aver fatto l’amore e le diceva tu sei il mio angelo innocente, Lisa, il mio angelo, vieni ancora qui, sopra di me, e fatti guardare. Fallì, e infatti gli occhi le si riempirono di lacrime ma senza traboccare: rimasero sospese, la loro caduta andava rimandata e in questo Lisa fu determinata. Dopo, si disse, dopo; e ci riuscì. Una ciocca di capelli sfuggì alla costrizione e cadde nuovamente sul lato sinistro del suo viso; con un gesto della mano, Lisa la spostò dietro all’orecchio, ma poi la lasciò nuovamente cadere sul volto perché in fondo quella ciocca era uno scudo, una protezione. Con del fard mascherò l’ombra che dal giorno dell’incidente aveva iniziato a nascere tra le pieghe del suo viso, un’ombra che era il triste residuo di una gioia spenta prematuramente. Indossò le scarpe e s’infilò il soprabito. Ora Lisa aveva questo: un amore interrotto e un pianto da soffocare, un contegno da mantenere; e poi aveva un appartamento pregno di ricordi dove alla fine sarebbe tornata, inevitabilmente, senza più qualcuno da aspettare. Lo aveva amato, lo avrebbe amato per sempre e al contempo mai più.

Riflesso allo specchio, quello che si vedeva era una donna in abito scuro che stava facendo del suo meglio per celare lo strazio e mantenere un contegno, un contegno che tutti, là fuori, chiamavano dignità. Portare il dolore con dignità, essere una donna forte.

Fuori dall’appartamento, il cielo terso e luminoso conteneva un abbozzo di primavera e una coppia di merli. Lisa prese posto sul taxi e disse all’autista il nome della parrocchia e la via, ma di fare un giro largo, per cortesia, ché aveva bisogno di un po’ di tempo. Di solito vogliono che voli per paura del tassametro, rispose l’autista con fare meravigliato e ridente, e insieme al motore diede avvio al racconto di svariati aneddoti che negli anni di lavoro per strada lo avevano visto come protagonista o co-protagonista. Sul mio mezzo, raccontò, ho portato in giro gente di ogni tipo, sa? Insospettabili, davvero; ho visto di tutto e non mi meraviglio più di niente. Una volta un tizio sale e mi dice mi porti in questo posto, in fretta, che c’è mia moglie che vuole che le prenda assolutamente una cosa. Sa dove l’ho dovuto portare? Non indovinerà mai. Lisa non prestava attenzione, guardava fuori dal finestrino e teneva sotto controllo l’impulso di dire a quell’uomo che lei era, in sostanza, una vedova che si apprestava a seppellire il grande amore della sua vita, e quindi di tacere. Perché in fondo, date le circostanze, Lisa avrebbe voluto almeno questo: il diritto di far tacere il mondo circostante, di insultarlo e, perché no, di prenderlo a pugni; non aveva, lei, il diritto di essere arrabbiata per quella morte, il diritto alla disperazione? Sì, lei lo sapeva. Sì.

Ma poi, quando Lisa scorse le mura della Chiesa e la croce conficcata nel cielo, immaginò di percorrere la navata non come una vedova, bensì come una sposa e di urlare a tutti che si erano amati fino alla fine, cioè fino a trenta minuti prima di quel maledetto incidente. Varcò l’entrata della Chiesa e non fece nulla di ciò che aveva disperatamente immaginato. D’istinto, tentò di fuggire alla vista della bara, la scansò come se quel suo movimento degli occhi potesse essere davvero utile a scacciare quella morte; se non la vedo non esiste, si disse, non deve esistere. I posti in fondo, sia nell’ala destra sia quella sinistra della navata centrale, erano tutti occupati da quelli che erano stati gli studenti di lui, dei ragazzini di un istituto tecnico senza infamia né lode, perciò Lisa procedette un poco più avanti.

Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore.

Trovò un posto sul lato destro, non lontano dall’altare e anzi, forse troppo vicino: voleva vedere ma non essere vista. Lisa si guardò la punta dei piedi e poi su, dall’inginocchiatoio sino al poggia-gomiti e poi oltre la persona davanti, forse un collega o un semplice amico d’infanzia – chi sono tutte queste persone? chi sono io, ora? –, fino ad arrivare a non poterne più fare a meno: ecco la morte nel legno scuro e lucido, circondata di fiori; ecco i parenti e gli amici dei quali Lisa non conosceva nulla, a dire il vero, perché lui non ne parlava mai. E infine eccola, quella era certamente lei, seduta in prima fila che strozzava il pianto, e con il braccio dell’amica che la cingeva per consolarla: gli amici e i parenti tutti, ogni singola persona in quella Chiesa fredda e con l’aria satura di incenso e cera decomposta, avrebbero avuto le parole giuste da dire alla donna rimasta vedova a tutti gli effetti.

Se noi moriamo, moriamo per il Signore.

Baciarlo ancora una volta, sì, oppure (e questa sì che era una follia!) sostare vicino al suo corpo nudo, morto ma nudo. Così lui le aveva detto un giorno: quando morirò, mi piacerebbe essere seppellito nudo e dare uno vero scandalo lassù, il primo e ultimo della mia vita; riesci a immaginarlo? Era il ricordo di una sciocchezza detta dopo un orgasmo felice. Questo nessuno poteva saperlo, e lei non era nella posizione per poter far sì che quella volontà fosse rispettata.

Ad ogni modo, lui era stato un uomo generoso, un uomo che aveva deciso di sacrificare degli anni della sua vita per stare vicino alla moglie malata di cancro, e quindi no, forse, pensò Lisa, non aveva nulla da invidiare alla moglie e doveva, ora, cacciare via quella sorta di gelosia retroattiva visto che lei, di gelosia, non aveva mai provata, perché non si può essere gelose di una donna alla quale hanno detto che ha in corpo un cancro e che questo cancro è inoperabile, una donna con un marito compassionevole e che in realtà amava un’altra e dava a quell’altra il suo vero Io, la sua essenza. Era stata impaziente di averlo tutto per sé, impaziente di avere la sua felicità e quindi a volte, come nel caso del loro ultimo litigio, lei aveva dubitato della sua sincerità; ora l’uomo che amava era solo un corpo, carne vuota e morta, e Lisa non si sarebbe perdonata facilmente i suoi errori. Sentì nascere nel suo petto un pianto feroce, arrabbiato, ma non avrebbe potuto giustificarlo – che diritto hai, tu, di piangere così? qual era il vostro grado di intimità? – e allora strinse i denti e poi strinse forte le mani attorno al poggia-gomiti.

La cerimonia sarebbe terminata tra abbracci e condoglianze e ricordi sussurrati e lei, Lisa, non avrebbe saputo cosa dire per giustificare la sua presenza e il dolore che certamente, lo sentiva, era ben visibile. Chi sono io per aver pianto così tanto? E per la risposta mancante, tra gli amen e i lodato sia il Signore dei presenti alla cerimonia, Lisa silenziosamente rimproverò lui – uno di quei rimproveri carichi di amore che si fanno alle persone che non ci sono più, che più che rimproveri sono un atto estremo di riaverle in vita (non avresti dovuto andartene senza aver sistemato questa e quell’altra faccenda, accidenti a te amore mio, perciò ora torna per finire ciò che hai lasciato incompleto) –, rimproverò lui per non averle suggerito, quando era ancora vivo e nudo a scherzare con lei nel suo letto dopo aver fatto l’amore con foga, una risposta a una tale ipotetica evenienza. Ma lei avrebbe resistito dal dire chi era, sì, lei non lo avrebbe deluso proprio ora, avrebbe trovato la risposta giusta nel caso ci fosse stato bisogno. Erano ancora amanti e sarebbero rimasti amanti per sempre, e a questo pensiero Lisa provò uno strano orgoglio e vi ci si aggrappò; io lo conoscevo davvero, pensò.

Dona loro eterno riposo, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Il giusto sarà sempre ricordato, non temerà annunzio di sventura.

Il prete invitò la vedova a ricordare il defunto; la donna salì lentamente sull’altare e sollevò il viso ai presenti.

Anche lei, come Lisa, aveva gli occhi segnati dal pianto e le ombre tra le pieghe, quei residui di una gioia annientata. Eppure, pensò Lisa guardandola, quella donna aveva qualcosa di bello e di non malato. Era bella nei sui lineamenti morbidi e nel collo sottile, certamente, ma soprattutto nel modo nobile e dolce con cui portava il suo dolore. Cercò i segni del male che la stava spegnendo, e che aveva impedito a lui di porre fine al matrimonio anche se questo lui non lo aveva mai detto in maniera così cruda, è ovvio, perché si trattava pur sempre della donna che aveva sposato. Ma le aveva parlato, più di una volta a dire il vero, della promessa che aveva fatto alla moglie, con questo male incurabile, di esaudire ogni suo di lei desiderio con lealtà. In salute e in malattia; in ricchezza e in povertà. Forse il cancro era in quelle mani tremanti sul leggio, in quella magrezza innaturale e nel pallore, sì, certamente quel pallore era un segnale inconfondibile insieme ai capelli radi e spenti. Si sentirà in colpa, lei, di essere morta prima di lui, e a questo pensiero Lisa provò un senso di ingiustizia al quale, per pietà, avrebbe voluto porre rimedio: andare da lei, abbracciarla, dirle sai in fondo ti amava davvero, è la verità, credimi, non sentirti in colpa perché tu non hai colpe. Sarebbe stata una piccola menzogna a fin di bene, una bugia bianca con annessa la sua stessa amnistia.

Mio marito, esordì la vedova, è stata la mia fortuna e la mia roccia. Un uomo buono, lo sanno tutti, e generoso; un professore che amava il suo lavoro e suoi studenti, gli amici e la famiglia, un uomo lineare, ma questa sua linearità non lo rendeva affatto un uomo banale, un uomo qualunque, ed è anche per questo che era un uomo eccezionale. La vita, per lui, andava vissuta con pienezza; Barbara, mi diceva, che ce ne facciamo della nostra vita se non facciamo di tutto per essere felici, per godere del e nel mondo, io e te insieme? È stato un marito leale sino all’ultimo, in tutto, e ha fatto suoi tutti i miei desideri più insoliti, alcuni del tutto bizzarri. Ci sentivamo una coppia speciale, insieme eravamo speciali. Amavamo parlare di ogni cosa, anche della morte e c’è una cosa che lui mi diceva sempre: Barbara, amore mio, dobbiamo onorare la nostra lealtà, quella che unisce me e te, anche quel giorno, l’ultimo. Era un uomo che sapeva amare e io sarò con lui sino alla fine. Chiedo scusa se mi mancano le parole per aggiungere altro, per dire quanto la sua presenza abbia contribuito alla felicità non solo mia, ma di molti, fosse anche solo per qualche istante. Questa perdita mi devasta, perdonatemi.

La vedova abbassò il capo, e nello scendere dall’altare barcollò fino quasi a cadere ma fu prontamente sorretta da chi era seduto in prima fila. Dopo aver ascoltato attentamente quel breve discorso, e dopo aver assistito a quella scena, Lisa si sentì ignobile per aver contribuito all’inganno di quella donna, e ora l’unica cosa che desiderava era che la funzione finisse e con essa il suo essere la donna colpevole di aver inquinato un matrimonio.

Assolvi, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da tutti i vincoli dei loro peccati, possano meritare di evitare il giudizio finale per la tua grazia, e godano beati della luce eterna.

La funzione stava per terminare. La vedova e gli addetti dell’agenzia funebre iniziarono a comporre quei movimenti che dicono a tutti che è giunto il momento di accompagnare il defunto al luogo del suo riposo ultimo; la folla ubbidì subito a quella disposizione enunciata con i gesti di rito, e si diresse verso l’uscita.

Quando anche Lisa si alzò dalla panca e, a testa bassa, fece per uscire da quella costrizione alla preghiera, inavvertitamente andò a scontrarsi con le altre persone, sconosciuti uniti dal lutto, e questa calca, questo fiume di persone che scorreva lentamente verso l’uscita, le stava impedendo di fare in fretta, di correre a casa, nella sua camera da letto, a piangere sui ricordi e su se stessa e lasciarsi andare al dolore che solo lei, lì, conosceva: un dolore che doveva restare muto e solitario. Non poté fare altro che arrendersi alla lentezza della folla, e percorrendo la navata centrale verso l’uscita, Lisa immaginò di avere il feretro alle spalle, di poterlo scortare davvero e di stringersi alla bara come con ogni probabilità stava facendo la moglie.

Finalmente fuori, Lisa portò una mano alla fronte per proteggersi dal sole sfrontato e si divincolò per liberarsi dall’agglomerato di gente che ora era in attesa del feretro e di indicazioni sulla strada da percorrere per arrivare al cimitero. Voleva tornare da dove era venuta, e cioè nel suo bilocale senza impegno dove avrebbe ricominciato da capo e da sola, dove non sarebbe stata più l’amante. Eppure, qualcosa la stava trattenendo in quel luogo, qualcosa che era una presa dolce, una mano, e Lisa si voltò per vedere di chi fosse, tra tutte quelle persone sconosciute, quel tocco rivolto a lei, quella mano che le stava dicendo di fermarsi, di non andarsene. Fu così che le due donne si trovarono l’una di fronte all’altra, entrambe bellissime e immobili e con il respiro sospeso e la folla attorno che le guardava.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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