Il suono dell’assenza. Variazioni sul dolore
di Elena Gigante
[Presentiamo un estratto da Il suono dell’assenza. Variazioni sul dolore, Moretti e Vitali, Bergamo 2018.]
Il lessico dell’assenza
Ci sono alcune parole importanti che, come in una costellazione inaudita, appaiono legate tra loro da congiunzioni – contemporaneamente – sottili e forti: Mancanza, Adorazione, Perdita, Desiderio, Bellezza, Disperazione, Movimento, Distanza, Vuoto, Presenza.
I legami che allacciano tra loro queste parole hanno a che fare con l’esperienza ineffabile dell’amore, nelle sue molteplici accezioni. Potremmo immaginare che queste parole rappresentino degli universi di senso, come se ciascuna di esse fosse un corpo celeste contenente al suo interno un mondo imperscrutabile.
Il lessico dell’assenza rientra per costituzione nell’universo – preferirei dire – nel “multiverso” dell’amore. Idealmente questo insieme di pianeti orbita attorno a due stelle fondamentali che chiameremo, per tradizione, Eros e Thanatos.[1] L’Assenza potrebbe essere pensata come la stella che le congiunge, situandosi esattamente a metà tra amore e morte. Intorno alla struttura fondamentale Eros-Assenza-Thanatos gravitano un’infinità di corpi celesti di varie dimensioni.
Per esplorare le costellazioni che si sviluppano intorno all’assenza, potremmo riprendere le riflessioni di Maria Ilena Marozza[2] e considerare che la Presenza di un’Assenza o viceversa l’Assenza di una Presenza – di cui le immagini psichiche diventano testimonianza viva – rappresenti qualcosa di essenzialmente diverso dal concetto di Vuoto. Infatti l’esperienza dell’assenza presuppone il movimento, la dinamica; al contrario, il vuoto indica una stasi paralizzante.
Tuttavia, per comprendere a fondo la differenza tra assenza e vuoto, mi sembra necessario fare un passo indietro e tentare di enucleare, innanzitutto, gli elementi di somiglianza che accomunano la fenomenologia di queste due esperienze.
Mancanza, Adorazione, Perdita
Emergono tre pianeti linguistici che sono connessi sia all’assenza che al vuoto e che potremmo definire Mancanza, Adorazione, Perdita.
La fenomenologia dell’assenza e quella del vuoto si caratterizzano entrambe per la fondamentale e dolorosa mancanza di un oggetto. Quest’ultimo per mancare deve essere stato necessariamente un “oggetto d’amore” (altrimenti non ne sentiremmo la mancanza). Quel legame d’amore tra soggetto-amante e oggetto-amato si fonda su una paradossalità: l’estrema variabilità dell’oggetto amoroso – evidenziata da Freud con il concetto di plasticità libidica –[3] è accompagnata, contemporaneamente, dal sentimento di insostituibilità di quell’oggetto. Potremmo pensare che la specificità dell’amore consista proprio nel fatto che l’oggetto amato assuma – almeno temporaneamente – un carattere di unicità, di irripetibilità agli occhi del soggetto amante, assurgendo al più alto grado di assolutezza ontologica. L’amato è assolutamente unico, cioè letteralmente sciolto da ogni vincolo, da ogni limite d’incarnazione; l’amato è oltre la carne, come una specie di divinità onnipotente degna di adorazione. Roland Barthes, nel suo lessico della frammentazione dell’amore, ci restituisce, con immagini perspicue, l’assolutezza-unicità dell’oggetto amato. Lo scrittore francese descrive così la specificità dell’amore da cui deriva la sua Adorazione e pertanto la sua Mancanza:
Nella mia vita, io incontro milioni di corpi; di questi milioni io posso desiderarne delle centinaia; ma, di queste centinaia, io ne amo uno solo. L’altro di cui io sono innamorato mi designa la specialità del mio desiderio. Questa scelta, rigorosa al punto da non prendere in considerazione che l’Unico, costituisce, si dice, la differenza tra il transfert analitico e il transfert amoroso; l’uno è universale, l’altro è specifico. […] È un enigma che io non riuscirò mai a risolvere: perché mai desidero il Tale? Perché lo desidero persistentemente, languidamente? È tutto lui che desidero (una sagoma, una forma, un’aria)?[4] O è solamente una parte di quel corpo? E, in tal caso, che cos’è che, in quel corpo amato, ha per me il valore di feticcio? Quale porzione, per quanto esigua sia, quale sua caratteristica? Il taglio di un’unghia, un dente leggermente rotto di sbieco, una ciocca di capelli, un certo modo di muovere le dita mentre parla, mentre fuma? Di tutte queste caratteristiche del corpo ho voglia di dire che sono adorabili. Adorabile vuol dire: questo è il mio desiderio, in quanto esso è unico: “È questo! È esattamente questo (che io amo)!” [sic] Tuttavia, più provo la specialità del mio desiderio, meno sono in grado di precisarla; alla precisione di ciò che voglio dire corrisponde uno sfocamento del nome; il proprio del desiderio non può produrre altro che un improprio dell’enunciato. Di questo fallimento linguistico, resta soltanto una traccia: la parola “adorabile” (la buona traduzione di “adorabile” sarebbe l’ipse latino: proprio lui in persona).[5]
L’ipse – il collasso linguistico che designa l’unicità adorabile dell’oggetto d’amore – fa sì che la sua mancanza sia vissuta come assenza del soggetto stesso: se manca l’amato, l’amante smette di esistere, si sente de-personificato, de-realizzato.
L’astro linguistico dell’Adorazione, da cui deriva quello della Mancanza, è legato a un terzo pianeta che accomuna l’esperienza dell’Assenza a quella del Vuoto: il pianeta Perdita. Sia il vuoto che l’assenza nascono da un’esperienza di perdita.
Ritengo che per comprendere la differenza tra mancanza e perdita non occorra riferirsi al concetto di reversibilità/irreversibilità del distacco dall’oggetto d’amore, bensì potrebbe essere forse più opportuno esplorarne fenomenologicamente la temporalità. Potremmo immaginare che la perdita indichi qualcosa che si situa nel piano del passato (la retentio binswangeriana);[6] questa sfumatura semantica potrebbe essere condensata nella locuzione “assenza di una presenza”. Viceversa la mancanza appare come esperienza relativa al presente (la praesentatio binswangeriana): l’oggetto amato assente, che è stato perso nel passato, manca angosciosamente nell’hic et nunc, configurando – proprio qui e proprio ora – la “presenza di un’assenza”.
William Shakespeare ha sintetizzato la perdita-mancanza in due versi: «So, either by thy picture or my love,/ Thyself away art resent still with me» che potrebbero essere tradotti: «Così, con la tua immagine o con il tuo amore, benché assente, sei sempre in me presente».[7]
Lo stesso Roland Barthes può aiutarci a chiarificare la differenza tra assenza di una presenza e presenza di un’assenza attraverso la distinzione tra referenza e allocuzione:
All’assente, io faccio continuamente il discorso della sua assenza; situazione che è tutto sommato strana; l’altro è assente come referente e presente come allocutore. Da tale singolare distorsione, nasce una sorta di presente insostenibile; mi trovo incastrato tra due tempi: il tempo della referenza e il tempo dell’allocuzione: tu te ne sei andato (della qual cosa soffro), tu sei qui (giacché mi rivolgo a te). Io so allora che cos’è il presente, questo tempo difficile: un pezzo di angoscia pura.[8]
Desiderio, Bellezza, Disperazione, Movimento, Distanza
Finora abbiamo dunque analizzato gli elementi che accomunano l’assenza al vuoto identificandoli in tre pianeti linguistici: innanzitutto nella specificità insostituibile dell’oggetto-amato assente da cui nasce l’Adorazione, in secondo luogo nella Mancanza che rende il presente «un pezzo di angoscia pura» e infine nella Perdita di quell’oggetto come accidente relativo al piano del passato, come assenza di una presenza. Ora dovremmo cercare di volgerci, invece, verso l’analisi delle diversità, tentando di far emergere in cosa consista la differenza specifica tra assenza e vuoto. Ritengo che per raggiungere il nostro obiettivo sia indispensabile richiamare altri cinque pianeti: Desiderio, Bellezza, Disperazione, Movimento, Distanza.
Il pianeta linguistico del Desiderio indica una tensione che si situa tra lo spazio presente della mancanza e quello passato della perdita, proiettandosi verso il piano futuro (la protentio binswangeriana) della Bellezza o della Disperazione. Il desiderio, infatti, indica una tensione che può diventare tra-zione tra-sformativa: questo avviene quando la perdita subisce una metamorfosi che la tramuta in sguardo estetico e dunque in Bellezza – come ci insegnano le bambine di Fédida.[9] Attenzione però: qui la bellezza non è intesa come lo stupore dell’eccezionalità, ma come l’inatteso che sta nell’ordinario,[10] come il soffio vitale di un soffione anonimo, la svolta del respiro del poeta Paul Celan o il «non so che/che si trova per caso» di San Giovanni della Croce. Tuttavia il desiderio non sempre conduce alla bellezza, ma può anche sfociare nell’asfittica constatazione dell’impossibilità di appagamento del desiderio stesso: si precipita così nella Disperazione, cui può seguire quella stasi paralizzante che chiamiamo Vuoto. Nell’ipotesi peggiore e più estrema, il desiderio, paradossalmente, può terminare nel suo appagamento e pertanto nella morte del desiderio stesso che induce a bloccare la tensione trasformativa; potremmo definire questo processo in termini freudiani come Thanatos, come fossilizzazione mortifera sull’eterno ritorno dell’uguale, senza possibilità trasformative.
Viceversa, per canalizzare la trazione trasformativa del desiderio verso la bellezza, occorre donare Movimento alla mancanza che angoscia il presente. Solo così sarà possibile trasformare la perdita, avvenuta nel passato, in esercizio di Distanza.
A volte la scrittura saggistica rischia di diventare banalmente noiosa, in effetti credo che quanto appena espresso possa essere sintetizzato in modo più incisivo nei versi di una poesia di Giorgio Manganelli che amo particolarmente. Questi versi ci suggeriscono che l’unica cosa che possiamo fare con quel “poco” – quel quasi niente – che resta dopo aver vissuto l’esperienza della perdita, consista nel manipolare la parzialità angosciosa del presente, conferendo Movimento alla nostra insufficienza. Questo concetto in definitiva significa trasformare il dolore dell’assenza in materiale operatorio plastico – come sosteneva Didi-Huberman a proposito del sudario danzante delle due bambine di Fédida e del suo thymiaô.[11]
Riporto di seguito i versi di Manganelli che potrebbero essere pensati come l’algoritmo sublime della lingua dell’assenza, la sua sintesi poetica o – più pragmaticamente – un manuale d’istruzioni per l’uso del dolore.
I
Scrivi, scrivi;
se soffri, adopera il tuo dolore:
prendilo in mano, toccalo,
maneggialo come un mattone,
un martello, un chiodo,
una corda, una lama;
un utensile, insomma.
Se sei pazzo, come certamente sei,
usa la tua pazzia: i fantasmi
che affollano la tua strada
usali come piume per farne materassi;
o come lenzuoli pregiati
per notti d’amore;
o come bandiere di sterminati
reggimenti di bersaglieri.
II
Usa le allucinazioni: un
ectoplasma serve ad illuminare
un cerchio del tavolo di legno
quanto basta per scrivere una cosa egregia –
usa le elettriche fulgurazioni
di una mente malata
cuoci il tuo cibo sul fuoco del tuo cuore
insaporisci della tua anima piagata
l’insalata, il tuo vino
rosso come sangue, o bianco
come la linfa d’una pianta tagliata e moribonda.
III
Usa la tua morte: la gentilezza
grafica gotica dei tuoi vermi,
le pause elette del nulla
che scandiscono le tue parole
rantolanti e cerimoniose;
usa il sudario, usa i candelabri,
e delle litanie puoi fare
un bordone alla melodia – improbabile –
delle sfere.
IV
Usa il tuo inferno totale:
scalda i moncherini del tuo nulla;
gela i tuoi ardori genitali;
con l’unghia scrivi sul tuo nulla:
a capo.[12]
Giorgio Manganelli ci invita a farcene qualcosa del nostro dolore, a renderlo materiale operatorio plastico, fucina del sublime e dell’eterno nell’umano; questa esortazione poetica coincide, qui, con la capacità di penetrare il gioco dinamico della Distanza. La scrittura di Manganelli – alla stregua del nostro soffione anonimo, del lenzuolo in movimento delle bambine di Fédida o dell’Atamvictu di Jung – potrebbe essere considerata come un paradigma dinamico fondato sulla nostra capacità di diventare coltivatori di distanze. Il pianeta linguistico Distanza si configura, pertanto, come il cuore pulsante dell’arte, di una svolta del respiro che è sguardo rinnovato, possibilità preziosa di riprendere fiato nell’esistenza. In questo corpo celeste si verifica una dinamica di metamorfosi del dolore connaturato alla vita: si puà mantenere un contatto con la perdita, senza precipitare nel baratro asfittico e mortifero del vuoto e della disperazione. Distanza è il pianeta in cui forse è ancora possibile continuare a coltivare la bellezza, nella cruda luce a picco di un Occidente che reca in sé la memoria del tramonto.[13]
NOTE
[1] Nella visione junghiana la psiche si struttura su relazioni antinomiche che forse potrebbero essere tutte riferite alla coppia d’opposti amore-morte, come peraltro già sottolineato da Freud attraverso il concetto di istinti primari – sebbene in un’ottica pulsionale e non antinomica; la polarità amore-morte potrebbe derivare, a mio avviso, proprio dall’esperienza originaria della perdita, come la nascita del pensiero potrebbe essere associata a un processo di generazione dall’assenza.
[2] M.I. Marozza, Assenza di vita, assenza di morte. Il rischio della vita psichica, in Id., Ritorno alla talking cure, Giovanni Fioriti, Roma, 2015, pp.97-109.
[3] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti (1915-17), vol. VIII, Opere, Bollati Boringhieri, Torino 2002. Cfr. anche J. Laplanche e J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi (1967), vol. I, Laterza, Roma-Bari, p. 328.
[4] Corsivo mio.
[5] R. Barthes, Adorabile, in Frammenti di un discorso amoroso (1977), Einaudi, Torino 2014, pp. 18-19.
[6] Ludwig Binswanger riprende i tre piani della fenomenologia husserliana – retentio, praesentatio e protentio – che mettono in relazione l’oggettività temporale con l’intenzionalità degli interlocutori. Tuttavia Binswanger sottolinea che «Protentio, retentio e praesentatio non sono […] da considerarsi come pietre isolate nella costruzione dell’oggettività temporale […]. Mentre parlo, dunque nella praesentatio, ho già delle protenzioni, altrimenti non potrei terminare la frase; allo stesso modo ho, “durante” la praesentatio, anche la retentio, altrimenti non saprei ciò di cui parlo»; cfr. L. Binswanger, Melanconia e mania (1960), Bollati Boringhieri, Torino 1983, p. 33.
[7]W. Shakespeare, Sonetti, Rizzoli, Milano 1995. Il Sonetto XLVII è reperibile anche al sito: shakespeareinitaly.it/sonetto47.html.
[8] R. Barthes, Assente, in Frammenti di un discorso amoroso, cit., p. 35.
[9] Cfr. capitolo 1.
[10] In questo passaggio vorrei proporre una distinzione tra le qualità di “eccezionalità” e di “inatteso” dell’esperienza: l’eccezionalità si riferisce a una sfumatura qualitativa che eccede l’ordinario e sconfina nella sfera dello straordinario; nel linguaggio questa fenomenologia viene descritta con aggettivi come “miracoloso” oppure “soprannaturale”. Viceversa per inatteso si intende qualcosa che, pur deviando da un’aspettativa circa l’accadere dell’esperienza, rientra pienamente nella fenomenologia ordinaria della stessa. In questa prospettiva, la possibilità di generare bellezza non fa riferimento, dunque, a una fuoriuscita dal piano dell’ordinario, come una sorta di attività occulta che determina una trascendenza; al contrario la possibilità di accedere “al pianeta Bellezza” rientra in una trasformazione ordinaria, piccola, limitata e irriducibilmente umana del dolore. Cfr. A.a.V.v., (a cura di P. Cavalieri, M. La Forgia, M.I. Marozza, L’ordinarietà dell’inatteso, “Atque. Materiali tra filosofia e psicoterapia” (nuova serie), vol. X, 2012.
[11] Cfr. capitolo 1.
[12] G. Manganelli, Poesie, Crocetti, Milano 2006, pp. 184-185.
[13] U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, voll. I-III, Opere, Feltrinelli, Milano 2005.