Quando ho bevuto una Tennent’s alle due di pomeriggio

di Yari Riccardi

(situazione)

Mezza giornata. L’unica ditta che il 29 giugno a Roma decideva bellamente di trascurare i reverendi santi Pietro e Paolo e di restare aperta, seppur fino alle 14, era la mia. Quel giorno le attività nell’agenzia di onoranze funebri dove lavoravo, dopo le esequie del mattino, si erano improvvisamente fermate.

Così, borsa a tracolla, dopo aver preso nota dell’ultimo necrologio degno di interesse, esco dal mio ufficio con vista Ospedale San Giovanni. Vengo travolto dal sole di Via dell’Amba Aradam. Giacca nera poggiata su una spalla, occhiali da sole e sigaretta in bocca, mi dirigo verso Villa Celimontana. Lì avrei aspettato le 20, quando sarebbe arrivata Irene.

Mi piace lì. Mi piace perché non è caotica come Villa Borghese, non è radical chic e piena di punkabbestia come Villa Ada e non è snob come Villa Torlonia. Ci trovi i romani. Così prendo un fiore per Irene da Rosario – nomen omen – e una Tennent’s da Amin, da bere a digiuno e sotto il sole per sottolineare la mia ancora giovane età.

Entro nel parco, scorgo una panchina e a passo lento mi ci dirigo. Ingollando un altro, terribile, sorso di birra, crollo, non prima di aver tirato fuori il libro che avevo in borsa.

Passano le ore, che a me sembrano minuti, e mi ritrovo con il libro in faccia e la giacca sporca. Mi alzo, non senza fatica. Mi accendo una sigaretta. Mi riprendo la borsa a tracolla, il libro caduto per terra e vado verso il banco dei libri vicino al bagno. La birra e la prostata a una certa età non vanno d’accordo, così sento di dover accelerare il passo. Sono le 16 e 30, Irene arriverà tra tre ore abbondanti, e non la posso neanche chiamare, sta in consiglio comunale. Lei assessore alla felicità, io becchino. Siamo ovviamente fatti l’uno per l’altra.

Rivolgo la mia attenzione al banco dei libri. Apro, guardo, leggo, metto da una parte, ributto nel mucchio. A un certo punto una sensazione strana. Due occhi mi puntano, mi scrutano, mi osservano. “Sono il solito paranoico del cazzo”. Tiro fuori una sigaretta dalla tasca, la metto in bocca e faccio per accenderla. Una fiamma davanti a me. Non è il mio accendino.

(complicazione)

Un uomo di mezza età, baffi e capelli brizzolati. “Lei – prosegue lo sconosciuto – è Saviano, vero?”.

Ora, in effetti una certa somiglianza c’è. La barba, la testa pelata, l’occhio un po’ a mandorla. ”No, evidentemente no!”: sorrido cortese e me ne vado.

Sudo e me ne vado verso la mia panchina. Deciso a immergermi nella lettura, apro il libro che avevo portato – L’Ombra del Vento, di Zafon – e mi riprometto di non alzarmi fino all’arrivo di Irene. Mi corrono incontro due ragazzi. “Robè, ma ‘ca ‘ce faj’ ‘a Roma ? ‘A scort’ ?”. Basito, non trovo la forza di rispondere. Fanno la foto, mi abbracciano e se ne vanno. Tutto molto strano.

Apro Facebook dal cellulare. “Che ci fa Saviano vestito da Iena a Roma?”: la foto sulla pagina di Libero, quello sono io mentre esco dal bagno della Villa.

Mi serviva la prova del 9. “Il buonista Saviano fa il punkabbestia” (Matteo Salvini)

Cazzo. Sono Saviano”.

Comincio a camminare, in preda all’ansia e alla Tennent’s. “A merda, hai finito di campà a spese nostre?”, me lo dice un giovanottone con una croce uncinata sulla guancia. E’ un seguirsi di incoraggiamenti, insulti, pacche sulle spalle e sguardi torvi. Dovrebbero essere le 19 e 30, sembra mezzanotte. Mi fermo per riprendere fiato. Mi appoggio all’obelisco. Sento qualcosa di freddo sulla tempia.

Mo t’accir’”. Davanti a me una faccia vista solo su Fox Crime, nei tg, sui giornali. Davanti a me c’era Francesco Schiavone. Sandokan, i Casalesi. Gomorra. Mi colpisce sulle gambe, sono costretto a inginocchiarmi. Mi punta la pistola alla nuca. Immagino già i titoli dei giornali.

Un raggio di luce distrae il boss. Attendo una manifestazione dell’Onnipotente – anni di onorato servizio come chierichetto a qualcosa dovranno pur essere serviti – e mi preparo a una vita di redenzione in convento. Intorno il vento si mette a cantare “Che coss’è l’amor” di Vinicio Capossela. Dal raggio emergono 10 persone incappucciate. Quello davanti si rivela. “Francè, mo’ ‘a rutt’ o’ cazz’. Ce l’amma juocà ‘a pallon’ . Si vincimm’ tu te ne vaj’ a’ fancul’, assiem’ ‘e cumpagn’ tuoj’”. A parlare adesso è Saviano, quello vero. Mi abbraccia. Schiavone manda un messaggio dal cellulare. “V’accir’ ‘a tutt’ e’ doj’, sti fetient’!”. Escono 10 persone da non si sa dove. Ci sta uno uguale a me, solo con i capelli, muscoloso e magro. Mi guarda con aria di sdegno. Con lui ci stanno i cattivi per definizione. Erode, Hitler, Voldemort, Gargamella, Sauron, Darth Vader (senza respiratore), Totò Riina, il sergente Hartman e Ivan Drago. Ma Saviano non sta a guardare. Ecco che tutti si tolgono i cappucci. Gesù (che è uguale a Batistuta, come ho sempre sognato), Bob Geldof, Beppe Bigazzi, il subcomandante Marcos, Mario Magnotta, Fabrizio Frizzi, Gianni Morandi, Papa Francesco e il bidello Bruno (mi dava le sigarette a ricreazione). Sarà Buoni contro Cattivi.

Dal prato dietro l’obelisco spuntano fuori due porte. L’arbitro è un turista tedesco assoldato da Schiavone con la minaccia di legarlo sotto le Vele con il cartello Odio Napoli. I Cattivi partono forte. Il mio alter ego è ovviamente un funambolo. Il direttore di gara finge di non vedere i continui falli che subiamo. Solo io, Saviano e il Santo Padre tentiamo di ragionare, ma all’intervallo il punteggio è di uno a zero per loro. Torniamo in campo, mancano dieci minuti al termine. A un certo punto Bigazzi rilancia verso l’area avversaria, Roberto viene messo a terra ma si rialza e allarga verso Marcos, cross per Morandi, sponda di Gesù e rete di Magnotta. I due si abbracciano, sancendo finalmente la pace. Siamo pari. Sappiamo di potercela fare adesso. Bruno ruba palla a Erode, la allunga a Gesù che con un doppio passo si lascia dietro mezza squadra avversaria, palla a Roberto. Tunnel a Schiavone – ”Schifus’”, grida il boss, visibilmente affaticato – e cross verso di me. Stoppo di petto, guardo la porta. Ci sono io tra i pali. Io con i capelli. La palla tocca terra. Guardo il me stesso a venti metri. “O’ Sandokàn, ma vaffancul’!”, grido, in preda all’influenza del vicino Saviano. La palla si infuoca ed entra in porta, i Cattivi spariscono e il campo viene circondato dalla Digos, che si è venuta a riprendere Schiavone.

(risoluzione)

Irene mi trova mentre corro nel prato dietro la panchina dove ero crollato causa Tennent’s. Corro come Tardelli nel 1982. Mi guarda divertita e rassegnata. “Quante volte ti ho detto che non devi bere questa birra a digiuno, che sei anziano e certe cose non le puoi più fare?”. Io le racconto tutto, di Saviano, della partita, di Schiavone. Di Magnotta che ha finalmente avuto il perdono di Gesù. Ma lei niente, non mi crede. Mi prende per un braccio e torniamo verso il banco dei libri. Mentre lei guarda i volumi, io tento di riprendermi. Guardo in basso. C’è Gomorra. Il Saviano stampato sul retro mi fa l’occhiolino. Un pallone mi rotola vicino il piede. Lo prendo in mano. C’è una scritta. “Sii felice d’essere tu, così come sei”. Lo rilancio ai ragazzi che ci stavano giocando. C’è uno pelato che mi sorride. E’ vicino a uno con i capelli che mi somiglia. Torno da Irene. “Yà però basta Tennent’s. Soprattutto alle due di pomeriggio”.

 

 

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3 Commenti

  1. Visionario, sincero, triste, allegro e molte altre cose. Da leggere tutto in un sorso…come una super tennets a stomaco vuoto. E vai col viaggio onirico. Applausi a profusione :-)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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