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Il passo della morte – Enzo Barnabà

Incipit del nuovo libro di Enzo Barnabà

 

Sul finire del giugno 2018, mentre attraverso la frontiera di ponte San Luigi, mi capita di assistere a una scena che lascia con il fiato sospeso le decine di persone che, assieme ai pompieri giunti da Ventimiglia, cercano di scorgere, tra i magri cespugli dei quali è cosparsa la parete rocciosa prospiciente, un migrante scivolato dal beà de Bedin, il minuscolo canale che porta acqua in Francia e che funge da sentiero ai migranti più disperati. Non siamo molto lontani dal tratto della canaletta in cui, durante la guerra, la stessa cosa era avvenuta alla signora Mione e, molto prima, alla giovane grimaldese che portava il figlioletto sulla testa; due episodi di cui presto parleremo.

In questo punto, lo strapiombo è di parecchie decine di metri. La morte sarebbe stata certa se una provvidenziale rete non avesse bloccato la caduta. Adesso, il migrante è “incrodato”, come dicono gli alpinisti; bloccato, cioè, sulla parete, incapace di risalirla o di muoversi verso il basso. Resta fermo accanto a un cespuglio, senza dare segni di vita. Un pompiere italiano riesce a spingersi sul beà, arrivando proprio sopra di lui. Non può, però, fare nulla se non cercare di rassicurarlo.

Lo stallo viene sbloccato da un elicottero francese sotto il quale pendola un pompiere sospeso a una fune. Con gran strepito, il veicolo si insinua tra le due pareti del vallone e prende a scendere con molta lentezza, ravvicinando l’uomo alla persona caduta. Seguo il movimento con un misto di apprensione e di ammirazione. In pochi minuti, il migrante viene imbracato e trasportato sul ponte. Mi avvicino. E un ragazzone di colore (ciadiano, verrò a sapere) che sembra uscito da una squadra di rugby. Dirigendosi verso gli uffici della polizia francese, cammina zoppicando, ma sprizza gioia da tutti i pori.

La vallata rocciosa, vista dal mare, ai viaggiatori di una volta appariva come “dantesca”. Così parla del beà il medico inglese Henry Bennet in un libro che risale al 1861: “Il canale, largo pochi centimetri, viene spesso utilizzato come sentiero dai contadini. Bisogna avere la testa e i piedi ben saldi per praticarlo poiché si snoda a strapiombo sul burrone: basta mettere un piede in fallo per rimetterci irrimediabilmente la vita”. La narrazione prosegue evocando una tragedia avvenuta anni prima e della quale la popolazione conservava viva memoria: “Una ragazza di Grimaldi, che soleva percorrere quella specie di sentiero, si sposò ed ebbe un figlio. Le donne del posto hanno la consuetudine di portare sulla testa la culla dei neonati. Un giorno la poveretta imboccò la strada abituale con in capo la culla col bimbo dentro, ma dimenticò che a un certo punto la roccia si abbassa e lascia pochi centimetri sulla testa di chi passa. La culla andò a sbattere contro la rupe e la madre precipitò nell’abisso assieme al figlioletto!”.

Al fine di impedire l’accesso in Francia tramite il canale, fu posto, all’altezza della frontiera, un cancelletto del quale pochi possedevano la chiave. Durante la guerra, ci fu chi dovette far ricorso a questi particolari passeur. Ho avuto la possibilità di conoscere in Veneto Scilla Mione che è stata una di quelle persone. Ecco i suoi ricordi: “Avevo poco più di vent’anni, mio papa Augusto, impegnato nella Resistenza nelle montagne del Bellunese, era braccato dalla Wehrmacht che minacciava rappresaglie contro i familiari e in particolare contro mia mamma e me. Per proteggerci, decise di portarci in Francia, dove aveva vissuto alcuni anni prima.

Partimmo nel febbraio del 1944. Scendemmo dal treno a Bordighera dove, in una chiesa, incontrammo alcuni frati che ci presentarono una ragazza che ci avrebbe fatto da guida. Ci recammo a piedi a Ventimiglia. Faceva molto freddo. Attraversata la città, giungemmo a Grimaldi verso le otto di sera, dopo aver salutato con molta faccia tosta le sentinelle tedesche che si trovavano all’inizio del paese. Alla fine dell’abitato, invece, c’erano due ostacoli pericolosi: i doganieri e i carabinieri. La ragazza ci fece nascondere in un fossato e si mise alla ricerca di un ragazzino che avrebbe sorvegliato le due caserme. Il buio si era fatto fittissimo. Dopo un’ora di attesa snervante, la nostra guida ritornò, ma senza il ragazzino. Si erano fatte le dieci, prendemmo la decisione che, se fossimo stati scoperti, io e mia mamma ci saremmo consegnate, mentre papà avrebbe cercato di mettersi in salvo. Ci togliemmo le scarpe e riprendemmo la marcia. Dopo essere passati con estrema prudenza davanti alle due caserme, vedemmo le luci di Mentone e non riuscimmo a contenere la gioia. La nostra terra promessa era ormai a due passi! Avevamo purtroppo fatto i conti senza l’oste poiché le nostre traversie erano tutt’altro che finite. La ragazza ci avvertì che il cammino si faceva pericoloso. In effetti, dovemmo marciare in fila indiana, prima su un sentiero strettissimo a fianco di una roccia ripida e poi su una canaletta larga quaranta centimetri, dove scorreva un sottile filo d’acqua. Nel fondo del precipizio c’era un corpo di guardia francese, sopra ce n’era uno tedesco e

dietro di noi c’erano i carabinieri. A un tratto, la mamma mise un piede in fallo e precipitò per una ventina di metri. Tremando dal terrore, ci mettemmo a chiamarla con voci sorde e smorzate. Finalmente rispose e i nostri cuori, dalla gioia, presero a battere all’impazzata. Diceva di lasciarla lì e di proseguire, ma ovviamente non le demmo retta. Improvvisammo una sorta di corda attaccando cinture e fazzoletti, la ragazza si spogliò dei suoi vestiti per rendere i movimenti liberi e scese giù alla ricerca della mamma. Io mi inginocchiai e cominciai a pregare. Dopo una buona mezz’ora di faticosi tentativi, la nostra guida risalì con mia madre che per fortuna era caduta su un mucchio di foglie e se l’era cavata relativamente a buon mercato.

La marcia continuò per un’altra ora. Il burrone era alto duecento metri e mamma continuava a zoppicare. Finalmente arrivammo davanti a un cancello di ferro del quale la ragazza possedeva la chiave. Fummo lasciati soli per un buon quarto d’ora in quanto era necessario verificare che in vista non ci fossero poliziotti o SS. Ci sembrò un secolo, ma finalmente la nostra guida tornò e passò prima con la mamma, poi con me e infine con papà. Arrivammo a Mentone che era già l’alba”. Augusto Mione continuerà la Resistenza in Francia e, dopo la guerra, costituirà un’impresa edilizia che diventerà molto importante. Sarà il costruttore di fiducia di Le Corbusier.

Dopo il salvataggio del ragazzone di colore, mentre mi avvio verso casa, mi viene fatto di pensare che anche la letteratura si è occupata di quella canaletta. Uno dei personaggi del primo romanzo di Francesco Biamonti è infatti una donna che non riesce a dimenticare il beà, sbarrato da un cancello con aculei anche laterali, dove anni prima aveva perso il marito. “Una guida li aveva abbandonati una notte sul cornicione. Bisognava appendersi agli aculei per passare, e suo marito era stato trascinato giù dalla valigia”.

 

 

Enzo Barnabà, scrittore di saggi storici e romanzi, è nato a Valguarnera nel 1944, ha studiato lingua e letteratura francese a Napoli e a Montpellier, e storia a Venezia e Genova. È l’autore del primo libro pubblicato in Italia e in Francia sul massacro xenofobo avvenuto nel 1893 ad Aigues-Mortes. Tra i suoi saggi ricordiamo: I Fasci siciliani a Valguarnera (Teti, 1981), Morte agli italiani! (Infinito, 2008). Tra le opere di narrativa ricordiamo: Sortilegi, scritto con Serge Latouche (Bollati Boringhieri, 2008), Il Ventre del Pitone (EMI, 2010), Il Partigiano di Piazza dei Martiri (Infinito, 2013), Il Sogno dell’eterna giovinezza. Vita e misteri di Serge Voronoff (Infinito, 2014). Alcuni suoi libri sono stati direttamente scritti in francese. Vive a Grimaldi di Ventimiglia dove la Riviera italiana e quella francese si uniscono.

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