La cultura delle élite vista da un disadattato

di Giorgio Mascitelli

Il successo elettorale delle forze populiste ha prodotto  numerose riflessioni sulle ragioni della loro vittoria, tra le quali spicca quella compiuta da Alessandro Baricco su Repubblica, che ha dato inizio a un corposo dibattito sullo stesso giornale.  La tesi dello scrittore torinese che si sarebbe rotto un rapporto di fiducia tra èlite e gente comune, benché comprensibilissima e perfettamente giustificata dal suo punto di vista, mi ha sorpreso: dal mio punto di vista, certo quello forzatamente limitato di un disadattato al proprio tempo,  di un intruso che si è imbucato a un vernissage nella speranza di incamerare un paio di tartine al tavolo dei rinfreschi ma consapevole di non c’entrare nulla con le ragioni dell’inaugurazione,  che però ha vissuto gran parte della propria vita adulta sotto l’egemonia delle suddette élite, l’aspetto sorprendente di questa tesi è dovuto al fatto che mai come in quest’epoca la cultura delle élite è stata meno lontana da quella del popolo. Basti pensare semplicemente all’evidenza che in Italia fino a cinquant’anni fa èlite e gente comune parlavano letteralmente due lingue diverse; ma questo è solo un banale esempio, se si allarga lo sguardo non si può che notare come  dappertutto la cultura di massa abbia uniformato gusti, consumi culturali, mode e stili di vita. D’altra parte è vero che dal dopoguerra in poi non si è mai registrato uno scarto così grande nella ricchezza e nelle disponibilità economiche e, come cercherò di suggerire poi, forse c’è una correlazione tra i due fenomeni apparentemente di segno opposto.

Sia che si intenda  il termine èlite nel suo senso più specifico di gruppi dirigenti, cioè per l’Italia quelle poche centinaia di persone  referenti nazionali del sistema globale che occupano ruoli guida nell’apparato politico, militare, industriale, finanziario, mediatico, universitario e della ricerca, sia che si indichino in senso più ampio le classi elevate, quella che un tempo si sarebbe chiamata alta borghesia, è possibile affermare che il capitale culturale necessario per farne parte si è molto modificato negli ultimi trent’anni ( Bourdieu chiama capitale culturale quell’insieme di saperi non solo professionali, di solito ereditato dalla famiglia, necessari per il successo scolastico e per occupare posizioni di vertice nella società). In particolare nella formazione di questo capitale vi è stata una diminuzione del peso di una cultura generale a vantaggio di una specialistica, di quegli aspetti simbolici di appartenenza quali certe forme di etichetta e, in definitiva, un minor peso dello stesso capitale culturale nel determinare l’accesso alle sfere alte. E’ possibile vedere una traccia di questa trasformazione nel fatto che professioni come l’avvocato o il docente universitario che un tempo portavano quasi automaticamente a far parte delle élite in senso lato, oggi non sono più condizione necessaria né tanto meno sufficiente per accedervi, mentre emergono figure professionali per esempio nello spettacolo e nello sport, alle quali nel passato non sarebbe stato possibile compiere un’ascesa del genere.

Si potrebbe descrivere questo cambiamento come una tendenziale democratizzazione o la fine di forme di notabilato a favore di un sistema di libere opportunità e questo è  stato parzialmente vero almeno nella prima fase della globalizzazione specialmente nei paesi anglosassoni, ma questo fenomeno diventa più leggibile in un altro senso oggi: il complessivo ridimensionamento del peso del capitale culturale per le èlite rientra nel processo di eliminazione progressiva di ogni fattore  che non sia direttamente funzionale alla mera accumulazione di denaro. E’ insomma tutto ciò un esito del dispiegamento del disegno neoliberista in cui tutti gli ostacoli, ivi compressi quelli culturali, all’imporsi del gioco del mercato devono essere rimossi. Questa tendenza può essere sintetizzata dalla celebre battuta thatcheriana sul fatto che non esista una cosa chiamata società, ma solo individui che si comportano più o meno rettamente; nello stesso tempo man mano che un’idea di società diventa incomprensibile agli occhi dell’individualismo imperante la stessa idea di capitale culturale diventa sempre meno spendibile e sempre meno importante. In fondo per definire che cos’è un èlite, se al posto della società c’è solo il mercato, basta un misuratore astratto ma rigoroso come la quantità di denaro posseduto.

Che tale processo ovviamente induca anche nel contempo una minore capacità delle èlite di governare le tendenze sociali  appare essere un effetto collaterale di quel fallimento del neoliberismo di gestire il disagio della civiltà di cui ha parlato Massimo De Carolis ne Il rovescio della libertà. Se ogni misura e ogni scelta ha senso ed efficacia solo per aumentare e rafforzare la competizione, essa diventa inclusiva solo per i pochi soggetti che risultano vincitori, mentre per gli altri si traduce in un fattore di esclusione, di frustrazione e di marginalità. In una società così fatta prendono sempre più piede forme di dominio non troppo diverse da quelle tradizionali e diminuiscono invece le libertà individuali effettive e la partecipazione democratica. Ciò appare evidente se si prendono in esame tre aspetti cruciali della cultura attuale delle èlite. Alludo  in primo luogo alla cosiddetta condizione postmoderna del sapere, quella per cui ogni sapere importante  ha una validazione solo pragmatica  ossia un sapere vale solo se è spendibile sul mercato, che poi si traduce nella fiducia esclusiva oggi dominante  per la tecnocrazia; in secondo luogo al rifiuto dei limiti della condizione umana, alla non accettazione del fatto  che esistono “dei limiti intrinseci alle possibilità umane di controllo dello sviluppo sociale, della natura, del proprio corpo e degli elementi di tragicità inerenti alla vita e alla storia dell’uomo” ( Christopher Lasch La ribellione delle èlite, trad.it., Feltrinelli 1995); infine la convinzione che internet e il mondo virtuale siano potenzialmente lo strumento adatto per la risoluzione di ogni problema dell’individuo e della società, insomma quello che Evgeny Morozov ha chiamato soluzionismo.

Ciò che accomuna queste idee, prima ancora che la loro funzionalità al mercato,  è la loro natura pragmatica e, per così dire, la loro pura operatività. Questa assenza di contenuti valoriali è l’elemento che contraddistingue le élite del presente da quelle del passato ( affermo ciò in forma meramente descrittiva senza  nessun giudizio di merito implicito: le èlite del 1914 avevano una cultura con contenuti e ciò non impedì loro di accompagnare le rispettive nazioni al massacro della Grande Guerra). Da ciò deriva però un aspetto importante e cioè la maggiore contendibilità del loro ruolo da parte di qualsiasi gruppo che rispetti questo tipo di pragmatica: è il tipo di scenario su cui lavora Houellebecq in Sottomissione quando immagina l’ascesa al potere in Francia degli islamisti, ma è anche lo scenario in cui le forze sovraniste operano concretamente in tutti i paesi. In un certo senso le èlite, se non hanno una cultura contrassegnata da contenuti valoriali, finiscono con il diventare permeabili a gruppi che hanno successo secondo i loro stessi criteri pragmatici. Ciò accade soprattutto se anche la gente comune, il popolo, sperimenta un’analoga assenza di valori,  poiché le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti in un contesto di generale depoliticizzazione come quello vigente oggi. Tale assenza di valori viene vissuta con maggiore inquietudine tra chi ha insuccesso nella competizione del mercato perché il perdente ha bisogno di appigliarsi a un fondamento che non è lambito, o quanto meno non sembra esserlo, dalla propria sconfitta.

I populisti reazionari che stanno spopolando un po’ dappertutto utilizzano proprio questo meccanismo: da un lato si adeguano a loro modo alle idee delle élite, non mettendo in discussione l’orientamento al mercato e all’accumulazione individuale di denaro, dall’altro offrono una prospettiva di senso simbolica allo stuolo dei vinti richiamandosi ai contenuti della tradizione reazionaria di tipo identitario e razzista. Del resto in una situazione in cui l’egemonia culturale è completamente  nella mani delle èlite il popolo o la moltitudine ( fa lo stesso) non contesta il sistema, ma si limita a chiedere dei risarcimenti simbolici per la sua adesione a esso.

In questo senso, i populisti reazionari a livello superficiale contestano il sistema, ma nel contempo,a livello subliminale, ne accettano la cultura e le idee di fondo, risultando rassicuranti a dispetto della loro evidente improvvisazione in molti campi.  Così, non è un caso che numerosi commentatori abbiano rilevato come le strategie mediatiche, culto della personalità e approccio semplicistico ai problemi, di leader di sistema, quali Renzi, Macron o Trudeau , non siano poi troppo diverse da quelle dei vari leader reazionari, ammesso e non concesso che gente come Trump od Orban non faccia parte del sistema.  Queste convergenze non vanno considerate come semplici somiglianze tattiche in un solo settore per quanto strategico come quello della comunicazione, ma sono appunto una conseguenza della medesima idea di cultura, che è poi quella delle élite: allo stesso modo le battute di Salvini contro gli intellettualoni e i discorsi delle élite sulla  scuola del futuro in cui le materie di studio saranno state abolite a favore di internet e didattica delle competenze sono due elementi della stessa serie logica e dello stesso campo culturale. La stessa polemica sulle fake news diffuse tramite i social dai populisti contrapposte a una fantomatica era della verità rappresentata dai media tradizionali appare, più che una difesa della correttezza dell’informazione,  un allarme  sulla proliferazione o meglio sull’uberizzazione di determinate tecniche comunicative che nella società dello spettacolo classica erano in mano a pochi operatori professionali del settore, se si analizzano gli standard comunicativi dell’era televisiva e di quella attuale.

Se le cose stanno così, uno degli esiti possibili di questo scontro tra élite e sovranisti, lungi dal diventare una battaglia frontale,  potrebbe essere la cooptazione dei leader più reazionari nelle èlite tramite la riformulazione del linguaggio delle stesse élite, che è poi il codice del politicamente corretto, in senso più sovranista e dall’altra parte tramite l’abbandono degli accenti più antiistituzionali  a vantaggio di un tono politico  in doppio petto. Del resto qualcuno l’aveva già scritto tanto tempo fa che il destino d’un volgo disperso che nome non ha è quello di trovarsi sul collo con il nuovo signore anche quello antico.

 

 

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1 commento

  1. Nazione Indiana
    La cultura delle élite vista da un disadattato
    by Giorgio Mascitelli • 16 Febbraio 2019 • 
    di Giorgio Mascitelli

    rapporto di fiducia tra èlite e gente comune

    cultura delle élite è stata meno lontana da quella del popolo

    cultura di massa abbia uniformato gusti, consumi culturali, mode e stili di vita

    diminuzione del peso di una cultura generale a vantaggio di una
    specialistica

    tendenziale democratizzazione

    eliminazione progressiva di ogni fattore  che non sia direttamente funzionale alla mera accumulazione di denaro. E’ insomma tutto ciò un esito del dispiegamento del disegno neoliberista in cui tutti gli ostacoli, ivi compressi quelli culturali, all’imporsi del gioco del mercato devono essere rimossi

    capitale culturale diventa sempre meno spendibile e sempre meno importante

    diminuiscono invece le libertà individuali effettive e la partecipazione democratica

    assenza di contenuti valoriali

    anche la gente comune, il popolo, sperimenta un’analoga assenza di valori

    19-02-18 lunedì 21:35ca

    Quale è la mia cultura?
    Sono parte del popolo?

    Se le elite sono prive di cultura, dando per scontato che quella funzionale non lo è, che il popolo non ne possiede, come se ne viene fuori, ovvero come se ne può portare dentro?
    Sembra che più passi il tempo e più distante siano i tempi della cultura, che quello che si è perso non sia più recuperabile, che nessuno, individui o classi, siano in possesso e/o in grado di produrne: quindi…
    Sono ormai al termine della vita su queto pianeta e non mi illudo di vedere cambiamenti epocali nei prossimi giorni, ma, ma, possibile che non ci siano tentativi di soluzioni?
    Apostrofo le folle, che non si fermano ad ascoltare, mi rivolgo alle reti sociali, ma non mi sembra di restare impigliato o di riuscire ad impigliare, quindi resto abbandonato ai miei piccoli e pochi pensieri.
    Non potendo essere con nuovissimi ideali culturali provo a rifarmi ad alcune cosette del passato, più o meno recente: la Costituzione, sia la nostra che quella di altri Stati, a volte ha cercato di dare indirizzi, spesso non attuati; certe ideologie, vituperate, si rifacevano a pensatori che avevano avuto degli sprazzi culturali a volte interessanti; le religioni hanno affascinato e/o convinto individui a diventare fedeli, proponendo anche cose che vanno al di là dei misteri, seppure nei tempi macchiati da orribili crimini, ma qualcosa forse se ne potrebbe trarre; i libri continuano ad affascinarmi con le loro magie, potrei anche non capirli, ma qualcuno dentro potrebbe avere qualche suggerimento.
    Insomma ho fame di cultura non da panineria, c’è chi può indicare qualche locale appetitoso con cucina non inquinata, non dico addirittura salutare?

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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