Ride il mare
di Antonio Sparzani
Dev’essere quando viene su un bel vento gagliardo e le onde formano quelle creste bianche spumose, che si immagina un dilagante sorriso, tanto che la letteratura ne è così variamente costellata. Prendete ad esempio una delle più intense tragedie di Eschilo, Il prometeo legato, nel quale si narra con grande forza drammatica la pena che Prometeo deve subire per aver regalato il fuoco all’umanità: l’essere legato ad una rupe della lontana Scizia con un’aquila che gli rode il fegato ogni giorno. L’entrata in scena di Prometeo, dopo che è stato assicurato alla roccia da Efesto, che esegue gli ordini di suo padre Zeus, comincia così:
ὦ δῖος αἰθὴρ καὶ ταχύπτεροι πνοαί,
ποταμῶν τε πηγαί, ποντίων τε κυμάτων
ἀνήριθμον γέλασμα, παμμῆτόρ τε γῆ,
καὶ τὸν πανόπτην κύκλον ἡλίου καλῶ.
ἴδεσθέ μ᾽ οἷα πρὸς θεῶν πάσχω θεός.
Ovvero:
O volta del cielo splendente e venti dalle rapide ali, sorgenti dei fiumi, sorriso infinito di onde marine – e terra, che d’ogni cosa sei madre e sole, occhio onniveggente io vi supplico, guardate quali dolori soffro per opera degli dèi, io, che pure sono un dio. [vv. 88-92].
Ho scoperto questo passo perché lo cita Nietzsche nella Gaia scienza, quando, nella parte iniziale, parla molto del riso, in polemica con tutti quelli che ritengono che ci siano cose, come il destino dell’individuo, delle quali non si possa ridere, e che negano che invece tutti gli atti dell’umanità siano in favore della specie e non dell’individuo. Ecco il testo:
È innegabile che alla lunga il riso e la ragione e la natura l’abbiano avuta vinta, fino ad oggi, sopra ciascuno di questi grandi teorici del fine: in conclusione la breve tragedia trapassò e regredì sempre nell’eterna commedia dell’esistenza, e «le onde di un innumere riso», per dirla con Eschilo, devono pur sempre in definitiva spazzar via anche i più grandi di questi tragedi. [ed. Adelphi 1989, p. 35].
Ma tra Eschilo e Nietzsche ci sono numerosi altri esempi. Qui ne cito due piuttosto diversi, il primo appartenente al più puro classicismo barocco della letteratura italiana, che oggi naturalmente fa sorridere molto, ma che tuttavia è l’espressione di un’epoca. Alludo al poeta Gabriello Chiabrera (Savona 1552-1638) che in una delle sue più famose liriche, Belle rose porporine, così scrive:
Quando avvien che un zefiretto
per diletto
bagni il piè nell’onde chiare,
sicché l’acqua in sull’arena
scherzi appena,
noi diciam che ride il mare.
Ecco qua che il mare ride, senza alcun dramma stavolta, solo scherzo e gioco, mentre invece, con ben maggiore intensità, il sorriso è legato al mare in uno dei più bei sonetti foscoliani, A Zacinto, che molti di noi certo ricordano dai banchi di scuola:
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacqueVenere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, . . .
Qui in verità sembra essere Venere che sorride, tuttavia ella sta sorgendo per l’appunto dal mare ed è ancora un tutt’uno con esso.
E nella disincantata letteratura contemporanea, c’è ancora qualcuno che si cimenta con queste metafore apparentemente desuete? Certo che sì, naturalmente, probabilmente molti, in almeno uno dei quali mi sono imbattuto nelle mie recenti letture: si tratta di uno dei più intensi scritti di Claudio Magris, Un altro mare (Garzanti 1991), a metà tra il romanzo e la rievocazione appassionata della vita di Enrico Mreule, uno dei due amici veri di Carlo Michelstaedter: Enrico intraprende un lungo viaggio in nave alla volta dell’America Latina, dove trascorrerà molti mesi. Durante questo viaggio, il 17 ottobre 1910, Michelstaedter, il giorno prima di andare a Firenze a discutere la sua tesi di laurea, si sparerà un colpo in testa. Ma la nave che porta Enrico lontano prosegue imperterrita il suo viaggio aprendo con la sua prua il mare che subito si chiude dietro di lei. Sentite Magris:
Su quella nave che ora fila nell’Atlantico, Enrico sta correndo per correre oppure per arrivare, per aver già corso e vissuto? Lui, veramente sta fermo; già quei pochi passi fra la cabina, il ponte e la sala da pranzo gli sembrano sconvenienti nella grande immobilità del mare, sempre uguale al suo posto intorno alla nave che pretende di solcarlo, mentre l’acqua indietreggia per un attimo e subito si richiude. La terra sopporta materna l’aratro che la squarcia, ma il mare è un grande riso inattingibile, niente vi lascia segno; le braccia che nuotano non lo stringono, lo allontanano e lo perdono, lui non si dà.
(ediz. 2014, pp. 14-15) “È Carlo che ha detto così”, aggiunge Magris, alludendo alle prime pagine de La persuasione e la retorica, l’opera più nota e importante di Michelstaedter, appunto la sua tesi di laurea, ma quando questi parla del mare non parla di sorrisi, ma disperatamente sottolinea che il mare è “altro da sé”: ““Ma ora che sono sul mare, “l’orecchio non è pieno d’udire” e la nave cavalca sempre nuove onde e “un’ugual sete mi tiene” : se mi tuffo nel mare, se sento l’onde sul mio corpo – ma dove sono io non è il mare . . .”” (Adelphi 1982, p. 40, M. cita da Qoèlet 1.8).
La prossima estate guardate il mare mosso nella gloria del sole: lo vedrete con altri occhi e vi sorriderà.
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Molto bello, Sparz. Ma noi lo guardiamo anche d’inverno il mare! Non possiamo abbandonarlo a Salvini e scafisti.
Grazie davvero, Davide! Il tuo commento mi fa pensare che potremmo suggerire all’abominevole di fare lo scafista, gli riuscirebbe certo meglio che la sua professione attuale.
Provate tra Scilla e Cariddi.