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Ricordi della natura umana. The last Saul

Presentiamo un saggio contenuto in L’albero del romanzo. Un saggio per tutti e per nessuno in uscita per Effigie (Milano, 2018, pp. 204).

di Massimo Rizzante

 

1

Saul Bellow è nato l’undici giugno del 1915 a Lachine, Quebec, Canadà, da genitori ebrei emigrati da San Pietroburgo nel 1913, ed è morto il cinque aprile del 2005, dopo dodici romanzi, diverse novellas, numerosi racconti, alcuni testi teatrali, un libro di saggi, un reportage sulla «Terra promessa», cinque matrimoni, tre National Book Awards, un Premio Pulitzer, il Nobel per la letteratura (1976) e dopo aver fondato con Keith Botsford tre riviste: The Noble Savage (1960-1962), Anon (1970), The Republic of Letters (1997-2005). Una vita ben spesa, fino all’ultimo.

Janis Freedman, la moglie numero cinque di Bellow, racconta, nella prefazione al volume Collected Stories (2001), di come lo scrittore fosse talmente concentrato sul suo mestiere che la stessa percezione del tempo sfumava: «No holidays, no Sabbaths», «Nessuna vacanza, nessun Sabbat». Il giorno del compleanno era «come qualunque altro giorno: la possibilità di scrivere un altro paio di pagine». Ci riporta, inoltre, alcuni particolari del suo lavoro di artista. Ci dà, insomma, qualche indicazione di «poetica», che, trattandosi di Saul Bellow, si trasforma in un ritratto punteggiato da brani di conversazione, sorrisi, battute.

Il finale di una novella non è perfetto. Perché? «Too many ideas, not enough movement», «Troppe idee, troppo poco movimento»; il lavoro di creazione non procede; la materia è incagliata in qualche ansa del cervello. Che fare? La soluzione è attendere, far tacere volontà e desiderio, passeggiare in giardino, sfiorare qualche peonia: «Everything must be taken up nimbly, easily, or not at all»,

«Ogni cosa deve avvenire prontamente, con facilità o non avvenire del tutto»; consapevole che «la mente umana non è un organo nobile» (E. M. Forster), Bellow la tratta con sincerità e ironia. Cerca di evitare gli anagrammi dell’essere. Non ama trascinarsi nei labirinti né adottare un sapere troppo erudito, che altro non è che un intrattenimento per benpensanti. Bellow adora le metafore, le trovate linguistiche – e in questo senso è un vero stilista, un poeta della prosa. Ciò che cerca è il «brio stendhaliano, il riso, il capriccio, la leggerezza del tocco». Ciò che lo muove «è un’energia, che in fondo si chiama piacere».

Tuttavia, trovate, brio, leggerezza, metafore devono incarnarsi in una «forma umana», in un personaggio. Tutto il sapere dell’autore è offerto al personaggio romanzesco. Non solo per generosità, ma per profonda diffidenza nei confronti della «cultura», ovvero, nell’accezione di Bellow, una miscela esplosiva di oltranzismo razionalistico, cieca fiducia nel progresso e disincanto specializzato nel seppellire ogni interrogazione metafisica.

Lo scrittore ha affermato una volta che «comprendere non vuol dire afferrare un’idea con la mente. Bisogna passarci attraverso, e non si può sperare di vivere abbastanza a lungo da vederne gli esiti». Direi che è tutta qui la differenza tra «cultura» e «arte». L’uomo di «cultura» snatura l’uomo. La funzione dell’artista è quella di resistere a tale snaturamento. Il sapere dovrebbe essere lo strumento più nobile per educare i singoli individui a mostrare la loro originalità. Quel che avviene è il contrario. Il fatto è che, per Bellow, l’individuo civilizzato soffre a causa di un sovraccarico di informazioni che, come affermava Kojève, spesso citato da Bellow, lo condurranno di nuovo all’animalità. Animali fin troppo nobili, gli uomini si illudono di sapere. In realtà, cancellano sotto un pulviscolo di realtà presunte la loro «innocenza primaria»: sono «primitivi che non si stupiscono più davanti a nulla». Per questa ragione il personaggio di Bellow, sia egli uno scrittore o meno, è un individuo che lotta per essere se stesso. Innumerevoli nemici lo distraggono da questa lotta, tendono a opprimerlo, ad annichilirlo – l’elenco sarebbe infinito e dovrebbe contenere tutti quei poteri che una volta si sarebbero detti «demoniaci» e che non sono altro che il nostro pane quotidiano – non ultimo la declinante coscienza che un eccesso di «civiltà» è di ostacolo a ogni vera scoperta del suo «nucleo individuale».

 

2

Esiste un ultimo Bellow? Me lo sono chiesto leggendo e rileggendo alcune opere, in particolare la novella del 1990 L’iniziazione (Something to Remember Me By) e il romanzo Ravelstein (2000). Forse non esiste un «ultimo Bellow», così come non esiste un «primo Bellow». A meno che non si abbracci la metamorfosi che conduce l’autore de L’uomo in bilico (1944) e de La vitima (1947) a diventare l’autore de Le avventure di Augie March (1953). A meno che, cioè, non si affermi che la vera nascita di colui che James Wood, suo allievo e miglior critico, ha definito «il più grande scrittore americano in prosa del XX secolo – dove per grande si intende fecondo, vario, preciso, ricco, poetico», si sia prodotta dopo il passaggio dal «puro mandarino» in cui erano stati scritti i primi due libri a quella «lingua della strada unita al grande stile», «fusione tra famigliarità ed eleganza», di cui lo stesso Bellow parla a proposito de Le avventure di Augie March.

Forse non esiste nessun «ultimo Bellow» per il semplice fatto, appurato da tutti i lettori, che la sua lingua –  in grado, come ha affermato lo scrittore e amico Keith Botsford, di «interrogare continuamente l’Albero della conoscenza» unendo «il nobile con il triviale» –, è, in tutta la sua libertà, allegria, esuberanza, effervescenza, vivacità, swing, sbrigliatezza, intelligenza, com- passione e comicità sempre la stessa, dal principio alla fine. Sempre la stessa, «bellowiana», ovvero mai uguale a se stessa, in quanto sempre aperta a nuovi innesti, esperta nel mescolare ingredienti terreni e metafisici, nel frizionare meningi e sentimenti – «un groviglio verbale che accoglie il dinamismo della vita senza tagliare fuori l’intellettualità», ha detto una volta Philip Roth –, allo scopo di spostare con audacia la frontiera del senso e allo stesso tempo non perdere mai il buon senso.

Il primo Bellow, quello che ha trovato la sua lingua con Augie, è anche l’ultimo Bellow. L’ultimo Bellow è allora soltanto figlio del tempo. Cronos non lo ha divorato. La lingua non muta. Anzi, è sempre disponibile a rinnovarsi e a frequentare con disinvoltura élites in disfacimento o pacifici impostori del Midwest, a rovistare nei prodotti secondari del nichilismo moderno come a disquisire su Nietzsche, Mozart o Michael Jackson.

Ciò che cambia è il peso della memoria. Perché Saul Bellow, quando narra, non è soltanto la sua lingua, né soltanto il personaggio romanzesco che vaneggia con l’autorevolezza di un folle o che si arrabbia a causa di inezie come la perdita dell’Essere.

Egli è soprattutto qualcuno che ricorda.

 

3

Nel 1990 Saul Belllow pubblica L’iniziazione. Si tratta di una novella esemplare. In essa, come nel caso di Una burla riuscita di Italo Svevo (un autore molto amato dallo scrittore americano), si ritrovano condensati in poche pagine personaggi, elementi formali e temi appartenenti all’intera opera dell’autore.

Louie, già anziano e vicino alla morte, racconta all’unico figlio una giornata «significativa» della sua adolescenza. Siamo nella Chicago della Grande Depressione. All’epoca chi narra è uno studente svogliato, ma accanito lettore. Dopo la scuola, per guadagnare qualche soldo consegna fiori in città. Quel giorno, «ordinario e sinistro» come qualsiasi altro, il giovane Louie – proprio come il vecchio Mario Samigli, il protagonista di Italo Svevo – è vittima di una feroce burla. Una donna lo attira in una stanza, lo invita a spogliarsi e getta i suoi abiti dalla finestra. Louie si ritrova in un luogo sconosciuto, nudo, senza un soldo, mentre a casa lo attendono una madre morente e un padre «genere Antico Testamento». Vestito da donna, si avventura nel gelo. Entra in una farmacia. Poi in una taverna. Qui, un barman greco, dopo averlo deriso e canzonato – «Hai il culo all’aria, eh? Adesso sai cosa vuol dire andare a spasso come una donna» –, gli procura alcuni indumenti e un po’ di soldi, a patto che accompagni a casa un ubriaco. «Tra le mie braccia, invece di una donna desiderabile, avevo un ubriaco. E tale vergogna, mentre mia madre stava per morire». Giunto a destinazione, stende l’ubriaco sul letto. Va in bagno, si alza la gonna e comincia a liberare la vescica quando si accorge che la più piccola delle due figliolette dell’ubriaco, seduta sul bordo della vasca, lo osserva con uno strano sorriso in volto: «Quel giorno tutte le femmine si prendevano sessualmente gioco di me, e perfino le bambine avevano un’aria lubrica». In seguito è costretto a preparare la cena per le piccole, orfane di madre. Con suo grande orrore – Louie viene da una famiglia di ebrei praticanti – deve cuocere nel grasso due cotolette di maiale. Superata anche questa prova, riesce a trovare la via di casa, dove, con grande sollievo, riceve dal padre la temuta punizione: «Se mia madre fosse stata già morta, mi avrebbe abbracciato».

Perché quella lontana giornata di inizio febbraio del 1933 è stata per Louie così importante, così «significativa», tanto da diventare, nel momento in cui tutti i suoi protagonisti sono ormai scomparsi – e lui stesso si prepara all’ultimo viaggio – un lascito testamentario supplementare da consegnare al suo unico figlio? Si tratta dell’ultima frase della novella:

Così, oggi, tutti se ne sono andati, e io ho già fatto i miei preparativi. Non ti lascio un grande patrimonio. Perciò ho scritto questi ricordi, un supplemento alla tua eredità.

In realtà, il significato di quella lontana giornata è il suo ricordo. Intendo dire che il contenuto di quella giornata – una catena di fatti che mettono in crisi e perfino alla berlina un adolescente ebreo alle prese con le insidie di una grande città del Nuovo Mondo – non può essere distinto dalla sua forma: il ricordo di un vecchio, che prima di andarsene per sempre all’altro mondo, decide di lasciare in eredità al suo unico figlio «qualcosa» di sé.

 

4

L’esistenza di un individuo, sebbene possa apparire un fiume tranquillo, è uno stato di assedio permanente, con i suoi drammi, desideri insoddisfatti, possibilità incompiute, caos.

Quando succedono troppe cose – narra il protagonista all’inizio della novella – più di quanto se ne possono sopportare, si può scegliere di credere che non succeda niente di particolare, che la nostra vita giri come su un piatto di giradischi. E poi, un giorno, ci si rende conto che ciò che avevamo preso per un piatto di giradischi, liscio, levigato e uniforme, era invece un vortice, un gorgo.

La situazione del giovane Louie è caratterizzata da un sovraffollamento di fatti esterni accompagnato da un maelstrom interiore. È l’annuncio della crisi e, contemporaneamente, il sigillo della vita adulta.

Il maturo Henderson, il protagonista de Il re della pioggia (1959), ripensando ai momenti che avevano preceduto la sua partenza per l’Africa, è nella stessa trappola:

Se ripenso alla mia situazione all’età di cinquantacinque anni, quando comprai il biglietto, vedo solo dolore. I fatti mi si affollano addosso, sì che ne avverto l’oppressione sul petto […] Ed io urlo: «No, no, via maledetti, lasciatemi stare!». Ma non possono lasciarmi stare: fanno parte di me. Sono cose mie. E mi si ammucchiano addosso da ogni parte. E ne viene il caos.

La soluzione al caos sarà il viaggio, o meglio il resoconto del viaggio: è soltanto attraverso il ricordo che i «fatti» possono essere «guardati in faccia». I personaggi di Bellow sono menti rammemoranti. Invasi, frustrati o derisi dal mondo dei «fatti», cercano, attraverso il filtro del ricordo, se non di ordinarlo almeno di metterlo a fuoco. Niente ricerca del trauma, ritorno del rimosso o altra paccotiglia psicanalitica. Nessuno come Bellow è lontano dalla retorica dell’inconscio. Tanto è vero che nel suo vocabolario la parola «inconscio» non ha mai sostituito la parola «anima».

Henderson, sbarcato nel continente nero, confesserà a Romilayu, la sua guida: «Ma ogni uomo sente, nel profondo dell’anima, che deve approfondire la sua vita. Ebbene, io devo andare avanti, perché non ho ancora quella profondità. Mi capisci?». Troppa realtà, così come, del resto, troppa irrealtà spingono Henderson ad «approfondire», attraverso quello che Louie chiama «lavoro segreto» del tempo, la sua vita.

Tuttavia, la specificità del caso di Louie è che abbiamo a che fare con il ricordo di una coscienza che scopre la sua situazione.

 

5

Louie, nel corso di quella giornata del 1933, sperimenta per la prima volta che stare al mondo è, malgrado le apparenze, tutt’altro che un piatto, liscio e uniforme girare a vuoto. Al contrario, si tratta di un continuo far fronte all’indomabile varietà della vita. Un individuo, tuttavia, non è soltanto il suo stare al mondo. Per una ragione molto semplice: a questo mondo egli non appar- tiene interamente.

Louie, dopo la scuola, consegna fiori in città. In tram, legge. Giunto all’indirizzo indicatogli dal fioraio, si ritrova inaspettatamente in una camera ardente con al centro una bara dove giace una ragazza. Vi getta un occhio: «Vidi quelle che mi sembrarono due impronte sulla sua guancia. Che la ragazza fosse stata bella o meno, ora non aveva più nessuna importanza». La madre lo paga in presenza della figlia morta. Louie, nel frattempo, è tentato da un piatto di prosciutto e mostarda: «Ho guardato, ho guardato, ho guardato». Prima di uscire, esamina ancora una volta il «volto banale» della giovane.

Siamo nel vario e promiscuo «mondo dei fatti», dove sacro e profano giocano a rincorrersi, dove tutti i precetti antichi sono infranti, dove tutto può succedere: osservare attentamente il volto di una ragazza morta non trovandola per niente bella, come ricevere del denaro in sua presenza, avendo nel medesimo tempo l’acquolina in bocca per un cibo proibito.

Scendendo le scale, Louie estrae dalla tasca alcune pagine sparse. Che altro può opporre all’assenza di leggi del mondo se non la verità del libro?

Nel suo sistema di leggi, la Natura  non può sopportare  la forma umana. Lasciato a se stesso, l’essere umano è ridotto in polvere sotto i nostri occhi. La nostra  forma è la più perfetta  che si possa trovare  su questa Terra.  Il mondo visibile ci nutre finché c’è vita, poi ci distrugge senza appello. Dov’è, dunque, il mondo dal quale proviene la forma umana?

«Dov’è il mondo dal quale proviene la forma umana?». Sono domande che al figlio «ben educato, razionale e rispettabile», a cui il vecchio Louie si rivolge, suonano poco famigliari, antiche, perfino imbarazzanti. Il vecchio Louie conosce bene «l’assenza di pathos» che contraddistingue l’epoca del figlio. Eppure, senza quelle pagine lette e perdute, contenenti quelle domande così poco moderne, si aprirebbe una «falla» nel racconto e questo affonderebbe nel mare della pura descrizione realistica del mondo. Per Louie, invece, il mondo non deve essere soltanto descritto, ma ricordato e, attraverso il ricordo, interrogato e riscattato. Il mondo, infatti, non è soltanto ciò che si vede:

Dietro la vita apparente delle strade si nascondeva la vita reale – afferma Louie –, dietro ogni volto il vero volto, dietro ogni voce e le sue parole il tono vero e la parola autentica.

Louie sta accompagnando la donna – che poi lo befferà lasciandolo nudo in una stanza sconosciuta – incontrata nello studio medico del Dr Marchek, contiguo a quello dentistico del cognato, che aveva raggiunto dopo la consegna dei fiori. Quando la donna gli chiede che cosa stia leggendo, non riesce a discuterne. Ha ben altro per la testa:

Ricordati che tenevo, come prescritto, la mano sul suo fondo schiena, e che questo era continuamente tormentato dal mulinello sessuale dei suoi movimenti.

Sebbene non sia in grado di conversare né di dissertare sull’«io» o sul «mondo», ribadisce, rivolgendosi ancora una volta al figlio a cui è diretto il racconto, la «verità» letta nel libro:

Sì, io credevo che una conoscenza più alta fosse condivisa da tutti gli esseri umani. Che altro c’era che potesse tenerci insieme tutti se non questa forza invisibile dietro la coscienza quotidiana?

Poco più in là, cercando un argomento di conversazione, la donna gli chiede che cosa mai un tipo semplice e pigro come Phil, il dentista, potesse raccontare a un lettore di libri tanto difficili.

Ripassavo il mio disco mentale. Che cosa diceva Phil Haddis? Diceva che un cazzo duro è privo di coscienza. Sul momento non mi veniva in mente altro.

La coscienza quotidiana o l’assenza di coscienza non corroborate dalla lettura del libro dove conducevano se non alla perdizione, alla menzogna, alla beffa, allo smarrimento? D’altra parte: se il mondo visibile non era quello reale, che realtà si nascondeva dietro il suo «cazzo duro»? E dietro quel «mulinello sessuale» che gli impediva di ragionare? Sentirsi perduto era forse questo: essere eccitati fino all’incoscienza e non poter consultare né un libro di ginecologia – quello stesso che aveva trovato nello studio del cognato – né un libro religioso sull’armonia del cosmo?

Prima di rientrare a casa, il protagonista torna sul luogo della beffa all’inutile ricerca delle pagine del libro perdute con tutto il resto. Ancora una volta, il vecchio Louie, rivolgendosi al figlio, afferma:

Puoi pensare che la mia fosse un’ossessione, una folle dipendenza nei confronti delle parole, della pagina stampata. Ma ricordati che a quell’epoca non c’erano redentori nelle strade, né guide, né confessori, né consolatori, né guru, né comunicatori a cui rivolgersi. Bisognava prendere ogni insegnamento dove lo si trovava. Sotto la cupola della biblioteca, nel centro della città, c’era scritto in caratteri a mosaico una frase di Milton, molto commovente ma forse inutile, che rendeva le cose ancora più difficili: UN BUON LIBRO È IL SANGUE VITALE E PREZIOSO DI UN GRANDE SPIRITO.

L’amore per la lettura condurrà il protagonista, questo paladino della verità cosmica, non solo a mentire al padre – «È possibile una vita senza menzogne?» –, ma a progettare il furto del denaro che sua madre teneva nel libro sacro delle Feste Solenni, il mahzor. Dopo la sua morte, ne avrebbe tenuto una parte, precisamente dieci dollari: cinque da restituire al fioraio e altri cinque per i suoi libri: La vita eterna di Von Hügel e Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer.

L’intero racconto non fa che opporre l’insidiosa e ricca varietà del «mondo dei fatti», che attrae, lusinga e si fa beffe di Louie, e la sua visione metafisica, ancorata come una nave nella tempesta alla lettura (molto più che alla Legge dell’Antico Testamento che regna incontrastata nella casa dei genitori), per la quale il «mondo dei fatti» non è il nostro unico mondo, sebbene la sua coscienza quotidiana così come la sua assenza di coscienza non possano essere negate.

 

6

«Se quando moriamo la materia ritorna materia» – come recita un passaggio del libro di Louie – è probabile che la materia «riceva ordini da un altro mondo». Vivere è ricordare di aver vissuto. Veniamo da un altrove a cui ritorneremo. Qui, in questo basso mondo, ci siamo soltanto per una volta. Perciò dobbiamo approfittarne: osservare, ascoltare, toccare, apprendere, fare attenzione a ogni dettaglio, amare, combattere. E allo stesso tempo non smettere di approfondire la nostra vita, non smettere di ricordare l’altrove da dove veniamo.

Louie, alla fine della novella, ricorda al figlio che cosa contenevano le pagine del libro perdute durante la giornata delle beffe del 1933:

Esse mi dicevano che la verità dell’universo è inscritta nelle nostre stesse ossa. Che lo stesso scheletro umano è un geroglifico. Che tutto ciò che non abbiamo mai saputo su questa terra, ci sarà mostrato durante i primi giorni dopo la morte. Che la nostra esperienza del mondo è voluta dal cosmo, che le è necessaria per rinnovarsi.

Poco più in là afferma di aver scritto il suo racconto – che definisce «account», «statement», «rapporto», «resoconto» – «in risposta a un’eccentrica urgenza che monta attraverso di me dalla stessa Terra».

Il ricordo è una messa a fuoco, un «approfondimento», grazie a cui ci si può avvicinare a quel «qualcosa» che chiamiamo il significato della nostra vita. Tuttavia, uno dei massimi risultati di questa seconda esplorazione è che nulla è scontato (Louie, dopo aver subito la beffa, diventa a sua volta un ingannatore e un ladro) e che tutto è un difficile equilibrio tra un mare di realtà apparenti e poche e intermittenti realtà «inscritte nelle nostre stesse ossa».

Questa è l’eredità che Louie, in mancanza di un vero patrimonio, lascia al suo unico figlio.

 

7

James Wood, nel suo saggio Saul Bellow’s Comic Style, compreso nella raccolta intitolata The Irresponsible Self. On Laughter and the Novel (2005), afferma:

La prosa [di Bellow] è «densamente» realistica, malgrado non vi sia nessuna delle abituali convenzioni letterarie utilizzate dal realismo. I personaggi non escono dalle loro case per scendere in strada; non hanno conversazioni di tipo «teatrale»; è quasi impossibile trovarvi frasi come: «Posò il suo bicchiere e se ne andò». Tutto ciò perché, nei suoi romanzi, la maggior parte dei dettagli è frutto della memoria, sono scene filtrate attraverso una mente che ricorda.

E un po’ più in là:

Ma la memoria può selezionare, rivendicare e afferrare un solo minimo dettaglio […] proprio perché tali eventi descritti sono accaduti tanto tempo fa e nessuno preme per convincerci della loro realtà […] Bellow utilizza il dettaglio non per persuaderci dell’esistenza di qualcosa, ma esattamente per la ragione opposta: per confermarci la sua assenza.

Ogni lettore di Bellow sa che tutti i suoi personaggi sono caratterizzati da dettagli fisici precisi, che a loro volta ci danno informazioni sulla loro «anima». James Wood utilizza a questo proposito una magnifica espressione: afferma che i corpi dei personaggi di Bellow sono «le loro confessioni». Si pensi al volto da «ippopotamo biondo» di Tommy Wilhelm, il protagonista de La resa dei conti, all’espressione «da asiatico orientale» del protagonista di Una domanda di matrimonio, alla «carnosità del labbro inferiore» che accomuna i due protagonisti della novella Cugini o, ancora, all’andatura dinoccolata di Ravelstein dell’omonimo romanzo.

Ne L’iniziazione molti personaggi sono definiti per mezzo di un dettaglio che ci fa cogliere l’essenza della loro personalità. Il fioraio, ad esempio, è un uomo di poche parole, dal volto magro, caratterizzato dal suo pallore cadaverico: «Lui solo, in mezzo ai fiori, era privo di colore – un po’ il prezzo che doveva pagare per essere umano». Non sarà un caso che Louie non vede l’ora di uscire dal negozio, dove l’odore della terra mescolato al profumo dei fiori gli fa pensare alla morte: morte che incontrerà inaspettatamente subito dopo sul volto della ragazza dentro la bara. Philip, invece, il dentista e cognato di Louie, è il tipico rappresentante della classe media americana, semplice, vitale, privo di ogni complicazione intellettuale. Un uomo che è quel che fa: «Philip non era alto, ma era robusto, costruito solidamente. Le maniche arrotolate del suo camice bianco mostravano avambracci nudi e muscolosi. Quando si trattava di strappare un dente, la forza delle sue braccia contava». McKern, l’ubriaco che Louie deve accompagnare a casa, è descritto così: «Il volto bollito, il naso corto e aquilino, i segni vitali della gola, l’aspetto disfatto del collo, i peli neri sul ventre, il piccolo cilindro tra le gambe, al termine del quale c’era una spirale di carne flaccida, il bianco splendore delle tibie, l’espressione tragica dei piedi». Questo esempio è il più emblematico di tutti: nel «bianco splendore delle tibie» come «nell’espressione tragica dei piedi» di McKern siamo di fronte al dettaglio-metafora. Qui tra fisicità corporea e essenza del personaggio non c’è bisogno di attraversare nessun ponte. Qui il corpo di McKern – le sue tibie bianche, i suoi piedi stanchi – è la sua «anima» disgraziata, «tragica», attraversata da bagliori di perduta innocenza.

Del giovane Louie non abbiamo una vera e propria descrizione fisica. Sappiamo che è uno studente mediocre, che legge molto, che ha una ragazza di nome Stephanie. C’è solo un particolare che lo distingue dagli altri e che lo rende popolare: il suo modo di prodursi nel salto in alto. «Non avevo alcuna tecnica; uno strano sussulto o convulsione all’ultimo momento mi permetteva di oltrepassare l’asticella. Era questo che la classe veniva a vedere». In questo caso abbiamo a che fare con un gesto fuori dalla norma, un’anomalia, una bizzarra trasgressione alle regole. Tuttavia, basta scavare un poco, e quel «sussulto o convulsione» ci porta al codice del personaggio. Chi era Louie in quel febbraio del 1933? Un ragazzo di diciassette anni, un abbozzo di natura che sentiva di poter diventare qualcosa di straordinario. Suo fratello Albert lo definiva un «poseur». Il commento del narratore – il vecchio Louie – è il seguente: «Un’adolescenza ambiziosa vi espone a questo genere di cose». Quel salto non è semplicemente un gesto atletico, quanto piuttosto la manifestazione fisica, convulsa e sussultante, di una grande ambizione spirituale: il presagio di una grandezza fuori dal comune.

 

8

C’è qualcosa che non si può dimenticare: ne L’iniziazione ogni dettaglio è filtrato dalla memoria del narratore. Un dettaglio ricordato non ha mai una pura funzione realistica. Come scrive Wood, è sempre «l’impressione di un dettaglio»: qualcosa che più che persuaderci di una presenza è lì per testimoniare un’assenza. Ciò non toglie che nella stessa novella ci possano essere dettagli con un valore indiziario (molti dei quali appartengono alla categoria dei dettagli-metafora) in grado di cogliere l’essenza di un personaggio così come di una situazione, e dettagli allo stato minerale, dettagli cioè precisi e preziosi ma privi di relazioni profonde con i personaggi e le situazioni. Dettagli che come piccoli geyser emergono dalla memoria e si gettano nella coscienza. Ecco quel che dice il narratore, in una pausa della narrazione:

Quando rivedo quei momenti del passato, trasporto con me una massa di percezioni che maturano, deformano, mescolano ciò che è degno di essere ricordato con ciò che non vale forse la pena di essere menzionato. Così vedo il barman la cui grande mano ramazza il denaro come se fosse un piatto vinto, la posta di una partita di poker.

La memoria non riporta soltanto ciò che è memorabile, «significativo», essenziale per la comprensione del carattere di un personaggio o per definire una situazione. Il narratore, come il lettore, deve fare i conti anche con ciò che non «vale la pena forse di esser menzionato»: con dettagli insignificanti. Questi dettagli sono disseminati lungo tutta la novella e per quanto insignificanti hanno una funzione: sono le maniglie a cui la memoria, spesso cieca, deve afferrarsi per aprire le porte del passato: le pietre disposte in modo irregolare dove mettere i piedi per non cadere nel flusso di coscienza, per non rinunciare, trasportati dalla corrente del tempo, al senso.

Non solo. Louie, dopo la beffa, si ritrova vestito da donna nella taverna. Si rende conto che la faccenda, a causa delle molte domande indagatrici e ironiche del barman, non si sbroglia. Cerca allora di analizzare la situazione:

Non era in fondo che una taverna, così come il barman non era che un greco, enorme, che si stava annoiando. Allo stesso modo io, Louie, non ero che un maschio nudo in un vestito di donna. Quando si nominano gli oggetti in questo modo elementare, di loro non resta quasi nulla.

I «fatti» e gli «oggetti», se privati dei dettagli e della distanza del ricordo si riducono «quasi a nulla». Così i personaggi.

Della cosiddetta realtà resta ben poco senza la volontà di riappropriarsene attraverso la memoria. Il fatto è che per Louie riportare i «fatti» non significa altro che riportare in vita ciò che si è amato. Esistere, per il vecchio Louie, è persistere: ritrovare i fatti, gli oggetti, le situazioni di un tempo e conversare nel presente con coloro – compreso un se stesso adolescente alle prese per la prima volta con le insidie del mondo – che non ci sono più.

 

9

In Ravelstein, Chick, l’anziano «testimone» e futuro biografo del pedagogo morente il cui nome dà il titolo all’ultimo romanzo di Bellow, è, come al solito, alle prese con quel «mostro proteiforme» che è l’io (da qui il caratteristico andamento stilistico dello scrittore americano in bilico tra monologo interiore che si apre al dialogo e dialogo che non rinuncia al monologo interiore, il tutto attraversato costantemente da evocazioni del passato). Ecco come descrive quella che chiama la sua «metafisica personale»:

Il mio approccio era il seguente: che prima di nascere non avevi mai visto la vita di questo mondo. Svelare questo mistero, il mondo, era la sfida segreta. Dal nulla, dal non essere o dall’oblio primigenio entravi in una realtà pienamente sviluppata e articolata. Non avevi mai visto la vita, prima. Nell’intervallo di luce tra il buio in cui aspettavi di nascere e il buio della morte che ti avrebbe accolto, dovevi fare il possibile per impadronirti della realtà, che era in uno stato di sviluppo avanzatissimo. Millenni avevo atteso per vederla.

Concepire l’individuo come neofita assoluto e la realtà come territorio «in uno stato di sviluppo avanzatissimo», ci illumina su quattro caratteristiche tipiche di Chick, ma appartenenti a molti personaggi di Bellow, compreso il Louie de L’iniziazione.

Eccole: a) Chick, a differenza di Ravelstein che lo accusa scherzosamente di percorrere sentieri romantici, tiene in massimo conto quello che chiama «impressionismo» infantile – «la realtà vera» dei bambini – cioè le prime impressioni che informano tutte quelle che verranno dopo. Da qui la sua natura di eterno studente, di innocente, di ingenuo, di «testimone» mai completa- mente fagocitato dal suo tempo storico b) ribadisce più volte a se stesso e a Ravelstein che, avendo visto per una settantina di anni la realtà attraverso queste «impressioni», non può certo smettere di farlo a causa di una spiegazione filosofica. Le «immagini», e in particolare quelle immagini da cui nacquero le prime «impressioni» cesseranno solo con la morte. Così come soltanto con la morte cesserà di conoscere la realtà attraverso la lente di ingrandimento del ricordo di quelle prime impressioni c) Chick, a causa dell’enorme gap di partenza tra individuo e realtà, è qualcuno che continua con ostinazione ad apprendere e a correggersi. Ha grande rispetto per lo spettacolo del mondo, per tutto ciò che gli si offre, per tutto ciò che può osservare, ascol- tare, toccare, per tutto ciò che è accidentale, vano, destinato a perire d) è convinto, infine, visto «i millenni» che ha atteso per nascere, che una parte di sé venga da un altro mondo e che l’approfondimento che ciascun individuo può fare della sua vita dipende dal grado di intensità che riesce a mantenere con quella parte di sé che non fa parte di questo mondo.

Si tratta dell’eterna via platonica alla conoscenza come reminiscenza, condita da una gioiosa versione del mondo apparente, che per quanto insensato e lontano dall’iperuranio, abbiamo il dovere di godere con tutti i sensi in allerta? Forse. D’altra parte, non è stato Bellow ad affermare che l’uomo non è nato per soffrire, ma per vivere?

Il fatto è che nel mondo romanzesco di Bellow Platone non solo va a braccetto con i Chicago Bulls – «Vita spirituale e vita quotidiana sono inseparabili. Non è questo il trucco?», ha detto una volta lo scrittore americano –, ma con un Ecclesiaste disinibito per il quale non proprio tutto è vanità.

Nessuno è stato consapevole come Bellow che la grande chance di un romanziere è quella di giocarsi l’intera posta su ciò che è perishable, mortale. Nessuno più di lui, allo stesso tempo, si è sforzato di cogliere quelle che chiamava le «qualità umane essenziali». Perciò era istintivamente portato a dare valore al minimo dettaglio (indiziario, metaforico, insignificante), a rappresentare la forma umana, il personaggio, in tutto il suo splendore e in tutta la sua miseria, a farne un involucro fisico di una visione metafisica, a dare poca importanza alle «strutture letterarie», a costruire i suoi romanzi nella forma di resoconti, memoir: la forma più democratica che il romanzo possa darsi per colui che Keith Botsford ha definito «il romanziere più democratico della sua epoca».

Mi viene in mente Herzog, il personaggio che dà il titolo a un altro romanzo dello scrittore americano, che, a un certo punto della totale «riconsiderazione della sua esistenza», ricorda la bellezza «radiosa e prosperosa» di una polacca conosciuta a Cracovia:

Gli mancava, adesso. Quando lui le prese la mano, lei gli disse “Ah, ne tuscé pas. C’est dangeré”. Ma non faceva affatto sul serio. (Che passione aveva lui per i propri ricordi! Che strano animale sensuale era! Un po’ anormale, forse, per le rimembranze?).

Animali sensuali con una passione anormale, perfino metafisica, per i loro ricordi: la definizione calza a pennello per Herzog, per Henderson. Ma vale anche per Humboldt, per il suo amico Charlie Citrine, per Chick, per Louie e per tanti altri. E forse anche per Bellow.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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