Il tempo e lo spazio di Francesco Leonetti
di Marco Rustioni
( fino al 31 gennaio si tiene presso la fondazione Mudima, via Tadino 26, Milano, da lunedì al venerdì 11-13 e 15-19, ingresso gratuito, la mostra Il tempo e lo spazio di Francesco Leonetti a cura di Marco Rustioni. Per ricordare lo scrittore riprende qui alcune pagine tratte da Il “caso Leonetti” utopia e arte della deformazione, Pacini Editore, 2010, di cui è autore lo stesso Rustioni, g.m.)
4.3 Un’ipotesi processuale: tra sperimentalismo e eversione
Che Leonetti sia malcompreso lo dimostra la scarsa attenzione ricevuta dal corpus narrativo e poetico su cui non esiste, in via preliminare, un’adeguata riflessione teorica. Manca del tutto, ad esempio, una qualche presa di coscienza relativa agli strumenti critici applicabili alle opere leonettiane. La complessità delle operazioni stilistiche e strutturali elaborate dall’autore rende tortuosa la lettura, ed i suoi testi non si prestano facilmente ad essere commentati perché richiedono un non indifferente sforzo esegetico. I modi dell’invenzione non rinviano quasi mai ad aspetti normativi e vincolanti, gli stessi poi tramandati dal patrimonio tradizionale, ma vengono assunti per essere smentiti e discussi all’interno del mutevole orizzonte cognitivo ed epistemologico che intendono affrontare[1]. Con i generi e i sottogeneri attraversati nel corso della sua esperienza artistica l’autore mantiene un rapporto pragmatico e neppure rinuncia, preso atto dei valori espressi dalla norma letteraria, a svincolare la forma dalle regole imposte dall’editoria. Su questo piano tutte le sue opere possono considerarsi meta-narrative e meta-poetiche, in quanto Leonetti invita il lettore a confrontarsi pure con gli strumenti conoscitivi da lui implicitamente evocati. In un certo senso, il circuito letterario descritto da Jakobson, fondato sul rapporto tra emittente e ricevente, non sembra più concentrarsi in modo esclusivo sul testo, e per quanto riguarda Leonetti è sempre opportuno mantenere in costante sollecitazione dialogica un altro canale comunicativo, quello che unisce tra loro strategia autoriale e intervento dell’interprete. Al contrario di quanto accade nella consuetudine, simile modalità d’interscambio non è ricostruibile a posteriori ma è implicitamente assorbita dalle opere, che introiettano principi di riflessività nel processo compositivo.
Ma a questo atteggiamento è collegabile un’ulteriore difficoltà ermeneutica: Leonetti non accumula sui detriti della propria formazione nuovi elementi di poetica e nemmeno stabilisce una volta per tutte l’asse delle proprie convinzioni ideologiche. Il recupero dei modelli finora citati, da Diderot al manierismo brechtiano, lascia immaginare che Leonetti sia sospeso, più di quanto lui stesso abbia voluto finora ammettere, fra centro e periferia, fra innovazione e tradizione, fra scelta controcorrente ed abile riuso, sul piano inventivo, del bagaglio culturale di cui si sente erede. Rispetto al altri intellettuali della medesima koiné sperimentale, egli sembra perciò impegnato a trasmettere frammenti di un passato letterario sottomesso alle regole imposte dal codice comunicativo e a liberarne le possibilità rivoluzionarie attraverso un’elevata tensione utopica. Da questo punto di vista, se è lecito qui proporre una categoria a cui assimilare l’autore, avanzerei l’ipotesi di una formula non ancora adottata, quella di sperimentalismo eversivo. In fondo Leonetti cerca di agire all’interno della “tradizione del nuovo”, ma resta convinto che sia necessario svincolarsi da ogni classificazione e ribadire il proprio sradicamento di marginale. La progettualità esibita dalle sue opere non mira a stabilire, una volta per tutte, un nucleo di conoscenza più o meno duraturo a cui aggregare, nel corso degli anni, ulteriori variazioni di senso.Da qui deriva il carattere eversivo dello sperimentalismo promosso dall’ autore teso a cogliere, in una serie di sintesi parziali, lo svolgimento di una duplice processualità in fieri, quella esterna al soggetto, influenzata dal contesto storico e materiale, e quella dell’individuo, costruita mediante un’attenta rielaborazione dei dati di realtà.
Se, come credo, è a partire da questa prospettiva che deve essere giudicato il corpus d’autore, è opportuno allora discutere delle modalità di lettura attuate dalla critica per deciderne l’esclusione (o l’ammissione) all’interno del canone. Leonetti si rivela mal interpretato perché dei testi sinora editi, anziché ricostruire i rapporti intrecciati col referente storico-sociale, viene in qualche modo postulata un’improbabile uniformità d’insieme. Ora, simile pratica intellettuale è viziata, ab origine, da un malinteso: predisporre un ordinamento unitario e di tipo macrotestuale delle sue opere significa perdere di vista l’intento eversivo che connota la strategia culturale promossa da Leonetti. Ogni volume pubblicato è da considerarsi strettamente interconnesso con i temi più dibattuti dell’epoca e costituisce una risposta immediata alle sollecitazioni provenienti dal contesto. In assenza di simili presupposti, è quasi inevitabile valutare in modo restrittivo le componenti formali delle sue opere, che non sembrano in grado di abbattere i confini della prima ricezione e tantomeno di entrare a far parte di un patrimonio di lunga durata. Ecco perché merita raccordare ai rispettivi campi d’appartenenza, se non i testi sinora analizzati, almeno i raggruppamenti proposti. La narrativa degli anni Sessanta resta incomprensibile se non viene messa a confronto con le soluzioni romanzesche elaborate, negli stessi anni, dagli esponenti della neoavanguardia. Attraverso Conoscenza per errore, L’incompleto e Tappeto volante, con gli autori del Gruppo 63 Leonetti cerca di stabilire un dialogo o di avviare una dialettica di ordine contrappositivo, e rispetto a simile produzione la sua opera rivela una complessità e un’originalità decisamente superiori.[2] Per le raccolte degli anni Settanta invece, senza dubbio Fortini esprime con Questo muro (1973) un inavvicinabile modello di riferimento, mentre tra gli sperimentali, solo Pasolini mi sembra offrire in Trasumanar e organizzar (1971) un apporto altrettanto significativo. Ma esclusi questi due nomi, è difficile inserirne altri che perseguono, negli stessi anni, la tensione etico-civile trasmessa da Percorso logico e da In uno scacco. In ultimo, tutte le opere che compongono la terza fase dell’esperienza artistica di Leonetti, quella allegorica, rinviano a soluzioni progettuali di notevole efficacia e non possono non avere un ruolo di primo piano nel panorama degli ultimi anni. Campo di battaglia (1981) è forse il testo più riuscito e significativo di tutta la sua produzione, mentre Palla di filo (1986) inaugura una stagione conflittuale ed eversiva a cui Leonetti contribuisce in prima persona assieme al Sanguineti di Novissimum Testamentum (1986) agli Epigrammi ferraresi (1987) di Pagliarani e a Nel silenzio campale (1990) di Paolo Volponi. Con ogni probabilità infine, sia Le scritte sconfinate (1994) che Piedi in cerca di cibo (1995) rappresentano le estreme propaggini di una periferia antinormativa di cui interpretano con originalità l’orientamento destabilizzante.
In questa rete allargata di riferimenti, di volta in volta Leonetti assume un ruolo di primo piano e le sue opere pervengono a una non scontata efficacia artistica. Ma simile capacità d’intervento diviene visibile solo smembrando in una serie di orizzonti d’attesa separati l’asse diacronico del secondo Novecento. Ad ognuno di essi l’autore ha offerto una risposta ed ha agito da protagonista in tutti i dibattiti avvenuti in quasi mezzo secolo di attività culturale. Detto questo, non intendo affermare che Leonetti abbia dato vita ad una serie di opere memorabili e tantomeno attribuirgli, con eccessiva arbitrarietà interpretativa, un ruolo centrale nel canone del Secondo Novecento. Semmai è opportuno ridiscutere della funzione critica svolta da alcuni autori rimasti volutamente ai margini del sistema. L’asse centrale del canone, così come si è stabilito negli ultimi trent’anni, non può non essere espressione di un’identità estremamente composita e a cui concorrono varie istituzioni del corpo sociale[3]. Rispetto a questo ordine precostituito, riconducibile a processi di stabilità e di compromesso, Leonetti decide di non sottostare ad alcun vincolo normativo e di mantenere il suo progetto artistico in un’area fluttuante e laterale, quella, se non altro, più contraddistinta da rivolgimenti e da conflitti; e se l’autore non ha lasciato un segno indelebile, la sua presenza in tutti gli snodi cruciali della storia recente non può essere messa in discussione. In fondo, paragonato agli altri sin qui citati, se si eccettua Fortini e Pasolini, Leonetti non è certo considerabile un autore secondario, e tutte le questioni relative alla grandezza delle sue opere sembrano costituire un alibi privo di fondamento.
4.4 La crisi e le ossessioni (della critica). Leonetti e la contemporaneità
Le cause allora sono da ricercarsi altrove. Certo, al contrario di quanto avvenuto per altri dell’area sperimentale, l’autore non ricorre a schemi predefiniti né sembra in grado di divenire un marchio identificabile, un sottoprodotto culturale “alternativo” destinato ad un target di lettori. Leonetti rivela infatti un’accentuata idiosincrasia nei confronti dello status quo e quasi mai indulge in un abile e calcolato culto della propria immagine, né si dimostra scrittore che ama gestirsi e risparmiare energie. Ma soprattutto, in linea con quanto emerso negli anni della protesta, la letteratura scaturisce da un contatto più dinamico col mondo reale. Il comportamento, le attitudini, la capacità di rompere e di inventare nuove forme organizzative, acquisiscono nella sua ricerca un ruolo predominante, e il primato attribuito alla cultura, intesa come luogo di incontro tra valori ereditati e norme socialmente gerarchizzate di diffusione, sconta ora una crisi irreversibile. Subentra una praticabilità vissuta, un confronto spregiudicato e creativo con le fonti del sapere: per Leonetti, l’esperienza e l’ampliamento percettivo e spaziale della realtà, la capacità di intervenire da protagonista al suo interno, possono contrastare il rigore astrattamente teorico imposto dai modelli conoscitivi dogmaticamente appresi. Ecco, credo che questo sia divenuto paradossalmente inaccettabile, o comunque situato fuori dalla prospettiva del presente, quasi che l’orizzonte odierno non riuscisse più a tradurre un simile ordine di problemi in un sistema di valori condivisi. Ma se una parte delle istituzioni che compongono l’universo della letteratura non riesce più ad accettare una simile sfida, ciò è ascrivibile, innanzitutto, ai problemi di identità incontrati negli ultimi anni dalla critica, la cui crisi ha richiamato l’attenzione di molti autorevoli interpreti. Come già ricordato, i termini della querelle aperta da Segre nel 1993 possono rivelarsi utili per spiegare l’ostracismo che attualmente circonda Leonetti, ma solo a partire da un essenziale rovesciamento di metodo. Non credo infatti sia un azzardo sostenere che la sua scomparsa dal canone possa fornire più di uno spunto di riflessione sui limiti e sulle difficoltà della critica odierna. Nel corso degli ultimi anni è venuta meno una gerarchia di valori capace di trasmettere la pluralità delle posizioni letterarie, ed è per questo che un certo modo di intendere la realtà, configurabile come luogo del conflitto e del progetto, non riesce più a incidere sui processi sociali. Da questo punto di vista la vicenda di Leonetti si rivela, più di altre, paradigmatica. Non è un caso che l’indifferenza attuale colpisca l’autore più deciso, tra quelli ancora in vita, ad affrontare in prima persona gli eventi storico-culturali della seconda metà del secolo. Ma soprattutto è ancor meno casuale che il valore della sua scrittura non sia più riconosciuto. In fondo anche dai lavori più recenti, forse non all’altezza di quelli pubblicati, almeno, fino alla metà degli anni Novanta, traluce una profondità stilistica che pochi continuano a perseguire tra quelli della sua generazione, più volte rassegnata ad accettare tutti gli effetti di comunicabilità imposti dal mercato. La scrittura deve in qualche modo coinvolgere il destinatario in uno spazio di ricerca comune e la letteratura, come del resto accadeva per Volponi, per Pasolini e per Fortini, resta una scommessa fondata sul responsabile impegno intellettuale. Ecco perché, al di là del dibattito teorico merita forse ristabilire per mezzo, anche, di questi autori, che hanno attraversato l’ultima tranche epocale, un modello di società su cui ancora scommettere. Da questo punto di vista, l’opera di Leonetti mira, in modo se non altro eccentrico, a sovvertire il senso comune e ad elaborare ipotesi di ricerca destabilizzanti, e su questi aspetti può fornire un vettore orientativo di riferimento. Un simile esercizio mi pare sempre più necessario anche perché il dibattito sulla crisi della critica rischia di rimanere, al di là di alcuni meritevoli interventi, del tutto astratto. A tal proposito, è impossibile non concordare con quanto afferma Lavagetto: il sintomo più rilevante della crisi è l’esistenza di una fin troppo cospicua letteratura secondaria dedicata a questo tema. L’estesa bibliografia elaborata in questi anni non sembra interessata a risolvere le questioni poste dal dibattito ma ad accumularsi su se stessa e a riprodurre, colpita da una forma di elefantiasi sclerotizzante, argomenti già affrontati. Sempre più manca, come avverte Lavagetto in un suo recente volume del 2005, l’ossessione del critico.
Piuttosto […] è qualcos’altro di cui avverto la mancanza e che non mi è facile definire: salvo eccezioni – e nonostante l’intelligenza, la vivacità, lo strumentario ricco e articolato – quello che non c’è quasi mai (o che non avverto quasi mai) è l’ossessione del critico, il suo tornare e ritornare caparbiamente sugli stessi punti, ponendosi le stesse domande e cercando di aggredirle da posizioni diverse. Mancano i punti d’ingorgo, quelli su cui capita di vedere i critici accanirsi nel tentativo di trovare una via d’uscita, una soluzione d’emergenza: sono nuclei che non si lasciano aggirare o rimuovere, sono citazioni che ritornano come enigmi imprescindibili, lance piantate nella carne, domande senza risposta ma che non si lasciano eludere[4].
Ad una tale denuncia la critica può pretendere di offrire una risposta solo se l’urgenza di nuove ossessioni si tradurrà in rinnovate forme di impegno sociale. Come ha ribadito di recente Luperini[5], se sarà in grado di inventarsi, a partire dai bisogni suscitati dal contesto, possibilità pratiche d’intervento, la letteratura potrà ritagliarsi ancora spazi d’erosione e sarà in grado di trasformare il dissenso in un organico e coeso modello progettuale, in una forma di prassi socialmente orientata, rivolta a comunicare verso l’esterno il proprio significato e a produrre, più o meno condivisa o discutibile, una verifica dell’esistente. A questo proposito si rivela ancora attuale quanto Fortini afferma in un intervento del 1946 apparso sul «Politecnico» e dedicato all’edizione critica delle Rime di Dante curata da Gianfranco Contini.
[…] quello che distingue una cultura attiva e viva da una cultura di decadenza è appunto l’attitudine a non abitare tra i monumenti della propria letteratura nazionale (e dall’altrui) come tra i vaghi miti di una religione defunta, a quel modo che fanno i fellah tra le statue dei Faraoni o i patagoni fra i colossi dell’Isola di Pasqua; ma a scegliere invece di render parlanti alcuni di quei monumenti ed abitabili alcune di quelle necropoli o chiese o città; e abbattere il resto[6].
Con ogni probabilità tutto questo, se riferito a Leonetti, può apparire paradossale. Che in un domani non troppo lontano la forza del suo lavoro possa oltrepassare i limiti esistenti non è ancora postulabile, inutile farsi illusioni. Ma la speranza richiede, in questo caso, una paziente capacità di attesa. Vegliare significa, anche, non farsi trovare impreparati.
Note:
[1] Utili indicazioni e spunti teorici, qui variamente rielaborati, scaturiscono da M. Ganeri, Il romanzo storico in Italia, Manni, Lecce 1999, pp.7-25.
[2]Per quanto riguarda l’aspetto formale, solo Fratelli d’Italia, negli stessi anni, risulta in grado di attraversare le contraddizioni del decennio con più incisività (e, non sarà inutile sottolinearlo, con maggiore frivolezza e cinismo).
[3] Utili a riguardo sono le indicazioni offerte da R. Luperini, Il canone oscillante: postmoderni e neomoderni nell’ultimo trentennio, in La fine del postmoderno, Guida, Napoli 2005, pp. 67-79.
[4] M. Lavagetto, Eutanasia della critica, Einaudi, Torino 2005, pp.67-68.
[5] R. Luperini, Precettistica minima per convivere con la “crisi della critica” e provare ad uscirne, in La fine del postmoderno, cit., pp.23-31.
[6] F. Fortini, (Come leggere i classici), in «Il Politecnico», 31-32, 1946. Ma il passo è mutuato da Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, pp. 1248-1249.