Cirque, di Marco Rovelli

(dalla nota di Franco Buffoni)

Ciò che appare evidente a prima vista in questo libro è la commistione tra prosa e poesia, intesi come generi letterari riconoscibili tipograficamente. Ma se dalla prima vista si passa alla prima lettura, ci si rende subito conto di come il racconto – inteso in senso prosastico, alias la narrazione – sia maggiormente presente nei brani formalmente poetici (“Basta, dico a voce alta. Spengo la radio, metto mano alla leva dell’acqua / aziono il tergicristallo, che con fatica raschia via il fango”), mentre la “poesia” – o ciò che comunemente si intende per “poetico” – emerge più facilmente dai brani in prosa: “Io, viaggio con l’addio in corpo. Per cieli troppo vasti…”.
Contraddizioni della scrittura? O aderenza felice a una tradizione di Petits poèmes en prose che con Baudelaire raggiunse le sue vette più straordinarie?
Che Cirque sia il libro di poesia di un narratore che non dimentica – non può dimenticare – di essere tale, appare chiaramente dal filo rosso di una trama, che potremmo definire “d’ansia esistenziale”, percorrente l’intera opera. Con lo sdegno – attraverso il detto e il non detto – che passa costantemente dai contesti privati e personali a quelli pubblici e politici. Magari per brevi accenni, scudisciate che però lasciano il segno: “Poi, di nuovo. La replica della storia. Ma quando una storia è passata diventa mito. E il mito si celebra, ogni volta come un sacrificio”.
Cirque Ishtar è un libro di poesia denso e perplesso, complesso e da meditare, tanto stratificato e lento nel suo tempo di scrittura, quanto allarmante nell’immediatezza della sua rappresentazione drammatica. E’ un libro di poesia necessario. Indispensabile per i lettori disperati di oggi.

 

*

 

I.

Era giovane, il fuoco
gli anni non avevano donato.

Era bella, di bellezza eccedente.
Prendeva ad ogni passo possesso della terra.
La voce
era risonanza, affilata presenza.
Al fondo della voce c’era un vuoto
che pareva forgiare le parole.
Si credevano pensate dopo
esser state pronunciate: prima
c’era solo quella melodia
la voce adorata di Sofia.

(Poi, alla fine di tutto, una sera):
Irene seduta davanti a Sofia,
parole sospese a mezz’aria.
Rimasero incolte. Sofia
aggirò il silenzio con un flusso di parole
deraglianti: da una ferita.
La voce quella sera era diversa.
Sincopata
scandita da gorghi sospesi
silenzi innaturali.

(Ricordo):
la sera dei suoi diciott’anni:
(una casa sulla prima collina, intorno file di tralci):
pareva una creatura del silenzio.
Pianse.

[…]

 

 

III.

Tutto, qui, appare necessario.

La guardai svestirsi, gesto naturale del suo esporsi al mondo.
Tutto in lei era pensato in precedenza, e insieme
della grazia più lieve. Per ciò tutto di lei era spavento.
Lasciò cadere il reggiseno, mostrandomi i suoi seni
pieni, che si offrivano al mio più intimo e feroce desiderio.
E poi rimase nuda,
e non potevo guardarla:
quando pareva che tutto dovesse esser chiaro
a farsi visibile era il resto nascosto. (Il suo segreto).
Lei si accorse del mio smarrimento: entrò nel letto,
mi abbracciò con stretta forte, e pure indifferente,
com’è indifferente ogni sole di questo universo.
La sua mano sulla nuca: fu il marchio nella carne.

(Non la vedo da quando ha lasciato la città. Ci sentiamo per telefono, di rado).
Una lettera. Sofia mi scrive: che
le manco. Il mio desiderio feroce. Proprio il desiderio di quella notte, scrive.
Sento quelle parole sfregare, pietre ad accendere un fuoco.
Se guardo le parole disposte in fila sulla carta
(la grafia regolare e appuntita, protesa in avanti,
come a far fretta al tempo),
riconosco la forma esatta di quella notte.
(Un Angelo sterminatore a rovescio: rompere l’incantesimo
non per uscire da una stanza, ma rientrare
ritrovando la disposizione della nostra antica notte).
L’incantesimo può avere inizio.

[…]

 

 

V.

Nella strada di fronte alla casa non passano auto.
(Una strada secondaria, dove gli alberi fanno spazio alla roccia bianca).
Attorno alla casa il respiro della terra,
il suo spasimo. Poi ci sono io: attendo
il ritorno di Sofia, sto di vedetta.
Stare,
è il compito assegnato. Farmi respirare dalla terra,
fisso dove i reticoli di luce che avvolgono il pianeta
formano una croce incandescente.
Mi abbevero di quella luce, di quella trasparenza: e nulla chiedo.
Seduto su una roccia. Gli alberi e le rocce ti saranno maestri,
diceva il mistico di Chiaravalle che predicava il massacro delle crociate.
(La sapienza eterna delle rocce galleggia su un sangue primordiale
ancor più eterno). Appoggio la mano su un coccio di bottiglia
che ho finito nell’attesa. (Prendo la forma dei riflessi del sole su quei vetri).
Sanguino. Getto lo sguardo alla casa. (Da là, Sofia non può vedermi.
Ma io posso vederla, e vedere se Eugenio è con lei):
Non abbandono nulla fino a quando non è consumato.
Attendo. Spio. Mi torturo.
Devo consumarla, la relazione. (Adesso che sono stato richiamato
in questa forma, devo ripercorrerla tutta).
Esaurirla. Non lasciar nulla di intentato. Colmare ogni spazio
vuoto, ogni possibilità. (Arrivare a raschiare il fondo del barile).
Bere il calice, fino in fondo. (Vedere se in quel fiele non vi sia la possibilità della salvezza).
Devo consumarla, la visione della casa da cui sono escluso.
A costo di mangiarla, distruggerla.
Che tutto si consumi, a costo di essere consumato.
(Continuo ad assediare la casa, che ha la forma di un castello.
I merli della torretta mi sembrano voler raschiare il cielo a sangue).

Disteso sulla roccia, e di quella roccia il mio corpo sta assumendo la forma.
(Sofia arriva. E’ con Eugenio).
Teso al punto di fuga dove tutto precipita,
chiamato a precipitarmi in quel precipitare.

Prendimi, lei ha detto scivolando nel letto. Lui l’ha presa,
con il tremore che quell’imperativo teneva in grembo.
Adesso fuori dalla casa tutto trema.

Ma trema anche dentro. Sofia non si trova,
accanto al corpo nudo di Eugenio, col suo seme addosso.
Sente venir meno la presa su se stessa: sul mondo.
Scardinata dalle sue solide ragioni – le sole su cui possa contare.
Con quell’uomo non può combinarsi: ha avuto un’altra vita –
tutt’altra. E la fa sentire in soggezione: Sofia
non ammette soggezione.
Per questo, dall’inizio, era deciso: di darsi a lui.
Ma la prima volta doveva essere anche fine.
Vede il sesso flaccido di Eugenio, e ha un moto di ripulsa.
Le pieghe della sua pelle, segnata dal tempo, dalla storia.
Sprofonda in quel dettaglio, e sente compiersi
la distanza che cercava.

Fuori, io non so nulla della consumazione. Non so che per loro
tutto si consuma, e sta per tornare un inizio per noi due.
Un inizio nuovo da consumare, bruciare.

[…]

 

 

VIII.

Il bagliore è della neve, non lascia nulla di scoperto.
Ma in questo accecamento non c’è nulla da scoprire.

Camminiamo per un viottolo di neve, tengo Sofia per mano
fino a una baita, in alto, sul limitare di un bosco di faggi.
Di tanto in tanto lei si stacca da me, si fa avanti, soprappensiero:
come fosse, alla lettera, seduta su un pensiero, e quel pensiero,
come un cavallo selvaggio, la trascinasse via – finché si ferma,
arresta il pensiero, mi aspetta, riprende la mano.
Poi mi dice parole d’amore.

(Intorno, un oceano di segni). L’albero al quale la costringo
e le faccio l’amore è una resurrezione. Così per me.
Lei, però, non vede segni intorno a sé: cammina in una selva di abbagli,
trascinata da un desiderio analfabeta.

(Sul balcone della baita, i piedi sul legno,
i volti al sole, silenzio –
voci dal fondo della valle). “Ascolta”, dice:
mi prende la mano
ancora, e se la tiene in grembo. Il vento
ci spolvera di neve. Distante, una vetta
ha un’aureola di tempesta.

(Più tardi, in paese): una locanda: fuoco, grappa.
Una cameriera a fine turno, si siede accanto a noi. Ha una luce
strana, intorno: non dagli occhi, ma dal sorriso. (Irene, si chiama): Poi Sofia
mette una mano sulla mia, tiene lo sguardo su di lei,
che rimbalza su di me. Mi scosto leggermente, senza che Sofia
perda la presa: prendo la mano di Irene. La avvicino, ancora
sono tramite. Lei resiste leggermente – quella resistenza necessaria
ad ogni compimento.

Irene ci accoglie, Sofia ci lega.
Tutto scivola.

(Io sono un desiderio esploso).

 

 

[…]

Poi, di nuovo. La replica della storia. Ma quando una storia è passata diventa mito. E il mito si celebra, ogni volta come un sacrificio. Dove non si sa più riconoscere ciò che è davvero è accaduto e ciò che si sarebbe voluto accadesse. Ma è certo che ormai, da qui in avanti, tutto è incenerito. Tutto dato alle fiamme. Ed è, finalmente, tutto in ordine.
Signori, si replica.

 

I. Prima dell’inizio.

Trattieni il respiro. Resta nel respiro trattenuto come un’anima che non può liberarsi. E a polmoni chiusi continua a danzare, danza sul mio corpo come la dea nera, calpesta il mio gelo di morto con furore, danza come dovessi salvarti la vita. Quando raccoglierai il fiore incolore di una nuova nascita dal mio ventre illividito, solo allora potrai esalare il respiro, e l’anima, e tornare a respirare…

Giro intorno alla tua casa. Il giardino è bianco di petali. Intravedo la tua figura da uno squarcio di finestra.
Tu sei curva al tavolo. Forse scrivi una lettera per me che sto fuori. Ma non puoi dirlo. Non sono altro che segni senza scopo né senso quelli che sgoccioli sul foglio – così dici. Ma è solo la tua menzogna.
Io, fuori, ti sto raccontando un’altra menzogna. Sono a due passi, appena fuori del vento che fa sbattere le imposte. Ma non mi farò vedere fino a che non venga l’ora stabilita. L’ora che entrambi abbiamo stabilito, e che nessuno di noi due sa quando accadrà.
Allora resto fuori, sulla soglia del giardino. Nel silenzio che passa c’è una morte dolce e scivolosa. E lì sto, in un’attesa che si compie a ogni istante. In un compimento che si ripete senza scarti, dove ogni istante è nuovo, eterno, intemporale.

Un istante di vuoto, un’attesa.
Sono tornato fuori del vento. Un giorno fa ero dentro la casa. Tu mi avevi consentito di entrare. Ti guardavo scrivere. Seduta come ad un cembalo, come a uno strumento di tortura. Io dovevo stare nell’attesa, e lasciarmi travolgere dalla tua forma.
Ero rimasto a guardarti fino all’alba.
Adesso sono di nuovo fuori del vento. Tu non sei seduta allo strumento. La tua casa è buia. Io sto come un gemito sottile.
L’istante di vuoto è trascorso.

Come sono arrivato lì non ricordo. Come ti ho conosciuta nemmeno. Forse ti ho sempre conosciuta. Fino alla chiamata vera e propria, una lettera, tu che volevi la mia ferocia.
Per quella chiamata ti ho seguita, e adesso ho preso dimora sulla soglia della casa, in attesa della prossima chiamata.

(Lui, fuori dal vento, la chiama).
…la tua presa senza volere…
(Lei, dentro la casa, non risponde).

[…]

 

 

Amore.

Amore è lasciar essere. Lascia essere un ente per ciò che è. Lascia che egli divenga ciò che è – che possa ciò che può – che si esponga per ciò che è – ovvero, nel senso (del suo divenire) che gli è proprio. Riconsegna dunque l’ente al suo senso.
(L’amore è pura disposizione: potenza che si trattiene presso se stessa – che non forza lo sguardo).

La differenza specifica dell’amore sta nel suo essere a fondo perduto. Oltre la necessità di corrispondenza. L’amore in questo senso è sovrano. Trabocca. Come il sole.

Quando si dice amore, spesso si è mossi dalla nostalgia dell’Assoluto. Allora occorre specificare che amore non può designare altro da un gesto singolare – ossia diretto a una singolarità: il gesto di un’integrale accettazione gioiosa di una qual-cosa.
Il desiderio di salvezza e redenzione s’impadronisce di questo gesto, così come del gesto convulsivo dell’amore-passione. Ma ambedue sono movimenti integralmente dans le milieu de la finitude.
(Tenere gli occhi spalancati nella catastrofe è la salvezza: proprio il fatto dell’impossibilità della salvezza – l’irredimibilità del tutto – è la salvezza. Non che sia tramite per la salvezza: è quella constatazione – quella con/siderazione – che è la salvezza stessa).

Amore è nome per un conatus. Per un desiderio. Per un gesto che si confonde col desiderio che lo muove. Io amo te: ti amo per il tuo essere, non per qualche tuo predicato (altrimenti siamo nel campo del feticismo – e non è una distinzione assiologica). Ti accolgo – ti dico Sì – in quanto il tuo essere provoca in me gioia.

 

*

 

Marco Rovelli, Cirque, Arcipelago Itaca 2018

 

 

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renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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