Misura – l’operativismo esistenziale di Bernardo De Luca
di Daniele Ventre
Da poco ha visto la luce, per i tipi di Lietocolle, nella collana gialla a cura di Augusto Pivanti, la silloge Misura, del poeta, critico e studioso napoletano Bernardo De Luca. Di fatto, se si escludono le presenze in antologie di un certo rilievo (Delle coincidenze, a cura di F. De Cristofaro e C. De Caprio, Ad est dell’equatore, 2012; Buio, catalogo mostra giugno 2007) e Gli oggetti trapassati, uscito per i tipi della casa editrice d’If nel 2014, si tratta, in quanto primo libro compiuto al di là della misura della plaquette, di un’opera prima: tuttavia, è l’opera prima di un poeta di lungo corso, la cui pubblicazione è anche il punto di arrivo e di maturazione definitivo di un annoso percorso evolutivo. Costatazione banale, ma dovuta, sin dal titolo immediato e polisemico, Misura appunto, la silloge, divisa in due asimmetriche sezioni, Geometrie, di ventisei componimenti, e Superstiti, di otto, porta significazione della ricerca di un equilibrio dai molti sensi a cui molte direttrici necessarie, psicologiche, stilistiche ed esistenziali, conducono.
Della misura la silloge ha già nel suo tessuto e vissuto le tracce, per come la sua evidente struttura ad anello la connota. Così nel componimento III (“Comprendi che ogni gabbia ti contiene”), l’idea della misura, “l’incrocio delle rette”, assume la forma esteriore e superficiale di una rete geometrica che ingabbia il reale. L’idea di una membrana, in questo caso di una membrana conoscitiva di rappresentazioni fra il soggetto e l’esterno, implica però l’idea del foramen, della porosità (in senso rigorosamente biologico, e per fortuna non genericamente vattimiano) della membrana stessa: implica la possibilità dell’osmosi come necessità statistica dell’esistenza: “potrebbe bucarsi la parete”, come limite bifacciale, e confondere la località rassicurante alla base dell’antropologia del fuori e del dentro, con tutte le implicazioni che la parete, la barriera, la membrana, il criterio rappresentano. La dittologia avverbiale oppositiva “fuori e dentro” è richiamata alla fine della silloge, con rovesciamento delle determinazioni spaziali, nella poesia Dentro e fuori, l’unica contrassegnata con un titolo a sé. Dentro e fuori enuclea quel tema della bifocalità e bifaccialità della “parete” e la misura come idea guida vi viene evocata come potenza esorcizzatrice dei “mostri”: la misura del “tempo” inteso in tutte le sue possibili accezioni: da quella tecnica, del tempo spazializzato d’orologio, del tempo dell’agenda, che definisce gli impegni ed esorcizza l’imprevisto dietro la scaletta del programma, a quel tempo primo misurato che può essere a vario titolo il ritmo della poesia. I momenti essenziali, però si rivelano “incalcolabili”: quei momenti in cui “i globi che… circondano la testa sono indistinguibili”, cioè le membrane che separano in varia maniera gli attori dell’esperienza e della coscienza e dell’autocoscienza finiscono per compenetrarsi. Si attua, in questa osmosi, una sorta di sinestesia conoscitiva tra la forma del senso interno, kantianamente il tempo, e la forma del senso esterno, lo spazio o l’estensione come corporeità, nel passaggio fra la misura del tempo e dell'”evento che non vedi” (l’orizzonte e l’area liminare dell’esistente rappresentato dal nulla, o dalla minaccia di annullamento che la permeazione delle membrane o la deviazione dalla routine ontico-esistentiva potrebbe comportare, “cicatrice che potrebbe renderti misura del presente”) e i “chili di corpo/passato”.
La riduzione a tempo, a misura di tempo, ultimativamente a misura, della corporeità, della solidità apparente dell’esserci, produce una virtualizzazione dello spazio esistenziale attorno al soggetto riflettente (questa entità è opportuno ora sostituire al tradizionale io lirico, variamente superato, rimosso, riformulato nella poesia di questa stagione storica). La virtualizzazione è un portato del fatto che il mondo attorno al soggetto riflettente si riduce a operazioni di misura concentriche: misura dello spazio di distinzione fra i campi dell’esperienza, misura della decidibilità del vivere, misura della dicibilità del vivere l’esperienza del mondo -e i giochi semiologici fra relazioni che si attivano nel testo e nella sua disamina si moltiplicano all’infinito in una sorta di vertigine immobile. In questo senso -facciamo un passo indietro nella sequenzialità delle poesie- va inteso con tutta probabilità il nucleo tematico essenziale che si snoda a partire dai versi conclusivi del componimento incipitario di Geometrie e di tutta la raccolta: “Lo spazio si dispone intorno senza/precauzioni, muoversi significa modificarlo.//Prova a non muoverti,/trattieni.//Muoviti,/segui la scia”. Come si può notare, la virtualizzazione, effetto della riduzione a misura, presuppone attorno al soggetto un cronotopo interiore. La dinamica del fuori-dentro/dentro-fuori, soggetto-oggetto/oggetto-soggetto, riflettente e riflesso, rende permeabili le membrane e le quinte del teatro dell’esperienza; inoltre riduce l’esperienza a decisione di movimento o di stasi, ad atti privati di coscienza minimale effetti di possibili scelte spontanee, così che nel contesto della visione che De luca sembra suggerire, si sottende in ipogramma un ripensamento -figlio improprio di un altro gioco paretimologico- dell’idea di realtà effettiva ed effettuale, come struttura trasparente e proiettiva dell’effetto e dell’efficacia di opzioni conoscitive e pratiche. Non è il caso di parlare di una poesia della realtà liquida, o porosa, riducendosi, in cerca dell’universale asylum ignorantiae o della facile formula buona a tutto e a niente, all’interno delle scelte di campo tipiche dei falsi problemi occorrenti nel dibattito intorno alla cosiddetta dimensione postmoderna, variamente disinterpretata o surinterpretata. La prospettiva di questa poesia, a partire dall’usuale spazio defilato della ricezione della poesia in genere, sembra con onestà di propositi e piena coscienza d’intenti indicare un nuovo possibile modo di organizzare e pensare l’esperienza umana: ad ogni elemento fondativo di tale esperienza, a partire dalla misura e dall’operazione di (auto-)misura in cui essa si traduce, viene attribuita una concreta e recisa definizione di ambiti, di pertinenze, con precisione filologica, ed è qui che la compresenza, nella figura di De Luca, della chirurgica nettezza del filologo italianista e della valenza creativa del poeta, dà luogo a una forma espressiva di profondo rilievo, posta per sua natura e matrice generativa al riparo delle trite scelte di campo che caratterizzano le false questioni occorrenti sul dibattito intorno alla poesia, all’accademia, alla poesia nell’accademia. Tutti gli attori/attanti linguistici in gioco nelle poesie di Misura sono definiti, ultimativamente ridotti, al concreto loro agire/attare il messaggio e il suo referente; il retroterra ontico e la presenza di impalcature, grucce, applique esistentivi, sono stati, dialetticamente, messi da parte, quasi esse sequatur operari. In tale contesto, accade ed è, solo ciò che concretamente agisce, si agisce ed è agito, in una effettualità che nei verbi, sistematicamente al presente gnomico, si riduce ipso facto in una perfettività/perfezione resultativa, talché l’impressione di virtualità e la granitica presenzialità degli enti in questi versi, anche tanto rarefatti di cose, convivono, senza contraddizione, ma per mutua deriva e derivabilità. Di tale complessità nascosta dietro il nitore essenziale del linguaggio è spia, altresì, la misura ritmica che i versi di Misura sistematicamente assumono: il loro impianto ritmico, sembra determinarsi fra una misura medio-lunga, endecasillaba o endecasillaboide, e una misura decisamente lunga, da verso doppio, martelliano (fino a cadenze esametroidi che ricordano specifici formalismi fortiniani), con tutte le possibili variazioni, frammentazioni e segmentazioni, ed è scandito con oculata ricorsività per sequenze distiche (non c’è una strofa tristica o polistica in tutta la raccolta), così che potremmo azzardarci a parlare di un post-lyric couplet come scansione naturale della dualità dinamica e del monismo anomalo che il senso profondo dei versi di Misura nasconde.
Per tutte queste ragioni forse non è peregrino vedere nei versi di De Luca l’esordio di una delle voci più limpide e chiarificatrici dello sforzo che la poesia italiana, messa in sordina dalle dinamiche di mercato, sta compiendo per superare l’impasse delle scelte oppositive per grossi palati di bassa cucina culturale. La complessa dinamica di compermeazione degli attanti che abbiamo cercato di chiarire, si traduce in ogni aspetto della silloge deluchiana: dalla riflessione in apparenti termini storici e socioeconomici di “Finisce l’era dei redditi e tutto” (in superficie, una sorta di Je suis l’empire en fine de la décadence in termini di contemporaneità post-crisi), all’immagine dell’apocalisse ecologica del particolato in “Il cielo colorato di carbonio” (uno dei testi formalmente più rigorosi, in cui la misura endecasillaboide orecchia sé stessa, si autoparodia, come in alcuni dei più riusciti capitoli di terzine “civili” pasoliniani), al teatro di interazione fra il soggetto riflettente e le percezioni dei suoi simili, in un gioco di membrane esperienziali che si trapassano senza effetto, con scene da abbraccio oltremondano di antica e dantesca memoria, in “Puoi attraversare e riconoscere senza”, gioco che si rimpalla nella specularità degli sguardi sottesa ai distici di una delle più emblematiche poesie della sezione Superstiti, “Hai guardato il suo occhio e ti sei visto”, simmetrici e controfattuali rispetto al componimento III di Geometrie, a cui fa eco nel sistema concentrico di strutture ad anello che apre e chiude una silloge che nella sua curiosa felicitas è fra le espressioni più calcolate e spontanee dell’ultimo decennio.
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Da Geometrie
I
Dimentichi qualcosa che va trattenuto
ogni giorno si sfibra un tessuto nervoso.
Le diagonali degli aerei
lasciano brevemente i segni delle rotte.
Lo spazio si dispone intorno senza
precauzioni, muoversi significa modificarlo.
Prova a non muoverti,
trattieni.
Muoviti,
segui la scia.
III
Comprendi che ogni gabbia ti contiene
l’incrocio delle rette rassicura.
Potrebbe bucarsi la parete e nel risucchio
del suo vuoto essere fuori e dentro.
Stai fermo,
ti muoverai.
* * *
Finisce l’era dei redditi e tutto
si sposta nella tua mano che afferra.
I paesi s’addensano all’incrocio delle statali,
mobili agglomerati di fuggitivi.
Qualcuno sogna ancora la vecchia
vita, altri pensano che di questa
che abbiamo in pegno
vada ricercato il bene.
L’illusione può catturare la luce
tra le grate di una finestra
e la forma parabolica
dei fiori sul davanzale.
* * *
Il cielo colorato di carbonio,
scende verticale il senso
della fine, si posano le ceneri
sui davanzali dei balconi, qualcuno
ogni mattina tenta la pulizia
delle scorie, muovere la scopa
è un gesto di speranza. Tu cosa
fai, cosa suggerisce la forma
che si specchia nella pupilla,
le metamorfosi del fumo nero.
A testa alta, in mezzo agli sterpi
di cemento, guardi. Credi che
le particelle si muovano secondo
l’ordine prestabilito del disastro.
* * *
Puoi attraversare, riconoscere senza
essere indicato, abbracciato
da tutti perché nessuno ti vede.
Valgono a poco i tuoi metodi qui.
Come quando camminano tra le tende
vicino alla rotonda, il collo
abbassato, stanchi per la giornata
e gli occhi semichiusi dalle palpebre.
Non ti vedono. Ascoltano
lo scricchiolio delle suole sui sassi.
Pensi spesso che non c’è spazio
che assicuri l’interazione.
* * *
Due uomini si rinfacciano a morsi
il presente, come ghiacciati nell’asfalto.
La nube di ferraglia si ramifica
nell’aria, sulle statue.
Uno intima la scissione, come particella
che allo scontro diverge –
e quando s’addenta al braccio
masticando intenti progetti rimorsi
tu ti ritrai dalla carne che sbrana
dal seme del dolore che ti mangia.
* * *
Da Superstiti
I
«…il lago trovato nessuno lo ricordava
i luoghi e le trasformazioni sono indecifrabili,
poi dalla superficie dell’acqua
un cartello dell’autostrada ci mostrò
che per chilometri c’era tutto
un passato sott’acqua. Nessuno
poté fare a meno di pensare quale
vita si muoveva sommersa, come…»
* * *
Hai guardato il suo occhio e ti sei visto
come un ostacolo da scansare,
e mentre barcollava fiutando il vuoto
tu ti piombavi nell’asfalto:
stai fermo,
ti muoverai.
Cadono i limiti, le geometrie.
L’uomo della caligine ti vede.
* * *
Dentro e fuori
La mattina appena sveglio pensi di vedere i mostri.
E allora misuri il tempo, l’evento che non vedi.
Quando poggi il piede a terra cominci a contare.
Dovresti sapere che in alcuni incalcolabili momenti
puoi essere dentro e fuori, e i globi che ti circondano
la testa sono indistinguibili. Misura il tempo, l’evento
che non vedi. Ti rimane questo: tenere fissa la pupilla
sullo spazio inesistente, mettendoci i tuoi chili di corpo
passato senza badare alla cicatrice che ti marchia
la fronte e che parrebbe renderti misura del presente.
I segreti vanno detti a bassa voce, scandendo
bene la visione ed eseguendo la parola che s’attaglia
al cemento. L’hai visto infinite volte e non puoi che serbare
il resto: misura il tempo, l’evento che non vedi. Cammina.
I commenti a questo post sono chiusi
Ventre questo suo procedere per ossimori……a quo? ad quem? Un virtuosimo sintattico e verbale di ardua lettura……Ma cosí va un certo mondo….
lapsus: ex quo? chiedo venia