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Gli invernali, capitolo primo

Ovvero, per una “Metafisica della sessualità” in Luca Ricci.

di Matteo Pelliti

Cosa c’entra Schopenhauer con Luca Ricci? Ah, saperlo… Fatto sta che, cercando un libro da appaiare in fotografia – le coazioni da libri instagrammabili – alla bellissima copertina di Saul Steinberg di “Trascurate Milano” (La Nave di Teseo, 2018, pp.86), l’ultimo racconto anti-natalizio di Ricci, mi è caduto in mano proprio quel libretto, “Metafisica della sessualità”, in cui il filosofo tedesco mette in fila le sue idee sui paradossi – e la natura – della coniugalità e della procreazione. Cercherò qui di capire il perché quel libro sia caduto dalla mia libreria proprio mentre leggevo l’ultimo Ricci e anche di spiegare come mai i suoi racconti vengano talvolta fraintesi: sembra che parlino di sesso e invece stanno parlando di scrittura. Milano è un pretesto perfetto, a partire dal titolo preso in prestito da Buzzati, e poiché a Roma l’inverno è inibito dal suo umidore mediterraneo, spostandoci dai recenti “Gli autunnali”, l’ultimo romanzo di Ricci là ambientato, non potevamo che ritrovarci nella capitale del Nord per vivere questo apologo dark, sospeso sul “baratro dell’abisso” morale, nella capitale morale, appunto.

Il primo sospetto che prende il recensore è quello di trovarsi di fronte al primo capitolo di una nuova raccolta di figure della contemporaneità censite da Ricci, Gli Invernali appunto, che costruisce narrazioni di antropologia fantastica intorno al tema della coppia, dell’amore, delle relazioni di forza (possesso, dipendenza) nelle infinite declinazioni dell’eros (la cui massima perversione, come è noto, sta nella monogamia). “In definitiva ciò che attira con tanta esclusività e con tanta forza due individui di sesso diverso l’uno verso l’altro è la volontà di vivere dell’intera specie la quale anticipa un’oggettivazione della sua essenza corrispondente ai suoi fini nell’individuo che quella coppia può generare”, e ancora: “L’impulso che nella coscienza individuale si manifesta come istinto sessuale in generale, e non si indirizza verso un determinato individuo dell’altro sesso, tale impulso è, in se stesso e fuori dal fenomeno, la semplice volontà di vivere. Invece l’impulso che appare nella coscienza come istinto sessuale rivolto a un determinato individuo, tale impulso è, in sé, la volontà che un ben determinato individuo ha di vivere. Ora, in quest’ultimo caso, l’istinto sessuale, che pure è in sé un bisogno soggettivo, sa assumere molto abilmente la maschera di un ammirazione oggettiva e riesce così a ingannare la coscienza: la natura ha bisogno infatti di questo stratagemma per realizzare i suoi fini”. Sembra un cinico filosofema di quelli che, solitamente, gli amanti di Ricci si mettono a fare a letto, monologando con le partner dopo un rapporto, invece è la voce di Shopenhauer. Il molestatore del nostro racconto riflette sulla perversione più grande che l’uomo abbia mai inventato, un atto di palese violazione di tutte le regole imposte da madre natura, cioè la monogamia, il decidere di vivere tutta la vita con un’unica persona; risuonano anche qui le pagine Schopenhauer: una natura che ci guida e ci tiranneggia. Quando Ricci fa dire al suo molestatore che la nostra follia sta nell’avere innescato – ingannati dall’eros – “il processo generativo” e non c’è modo di tornare indietro di “riportare il seme dentro i coglioni”, esprime in realtà questa vertigine: la consapevolezza che in ogni scopata fecondativa siamo scopati dalla Natura stessa. In questa illusione di seduzione vi è qualcosa di profondamente simile al meccanismo seduttivo della scrittura, al potere seduttivo che l’autore vuole esercitare sul lettori. Molto dense e perfettamente cesellate, poi, sono le pagine dove viene evocata la galleria di fantasmi dei progenitori dai quali deriviamo, e la nostra progenie come risultato ultimo di questa selva di fantasmi scomparsi (riemerge qui il tema, già presente in Manganelli, della famiglia come “associazione a delinquere”). Segnalo, a margine, alcune pagine di densa prosa poetica del racconto: un monologo del nostro protagonista intrecciato allo studio della tabellina del nove da parte della figlia prima di entrare a scuola, pagine che – a mio gusto – valgono l’acquisto del libro.

C’è una certa continuità tra i monologhi sul sesso, sulla coppia, come se queste coppie di amanti trasmigrassero tra i letti nelle stanze di alberghi tra un libro all’altro per proseguire un unico trattato teorico (vedi la figura bianciardiana di uno dei racconti de I difetti fondamentali, ma anche certe pagine de Gli autunnali) per le quali si può dire che esista un unico libro che Ricci sta scrivendo, tessendo, con ostinata vocazione. Al recensore si chiede, di solito, di dare anche un accenno di trama senza rovinare il gusto della sorpresa, e allora dirò solo che c’è una ragazzina violenta e nichilista che si fa molestare in metropolitana, uno sporcaccione fedifrago con moglie, figlia e amante storica che molesta la ragazza per un confuso male di vivere, una città capitale morale (ora non ricordo bene i dati sul consumo di cocaina a Milano, ma fa niente…) ritratta nel precipizio del Natale, distopia dei buoni sentimenti commerciabili, con una luce esatta (ecco un altro tratto caratteristico di Ricci: usare la luce per descrivere l’urbanità).

Nell’epoca del #metoo, quale migliore occasione che scrivere una favola natalizia scura che abbia come protagonista un molestatore? E riuscirà il nostro autore a difendersi dalle accuse di misoginia, sessismo, istigazione alla violenza di genere? Il recensore lo spera, appellandosi alla libertà della creazione letteraria e all’intelligenza, ormai poco diffusa, di capire che l’autore – in virtù di quella libertà – non necessariamente coincide con le azioni e i pensieri dei personaggi che s’inventa. Ma, si sa, viviamo tempi un poco dogmatici e scarsamente intelligenti, per questo abbiamo un gran bisogno di buona letteratura.

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2 Commenti

  1. Lo leggerò, prprio per fare una comparazione con “le cose dell’amore” di U,Galimberti, che sto leggendo. Comunque, complimenti al recensore

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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