Tasàr. Animale sotto la neve
di Francesca Matteoni
C’è un rifugio, c’è un monte lì vicino. C’è un campo, qui vivono confusi i solitari. Ogni tanto gli esseri salgono sul monte per guardare dall’alto la terra di Zard all’orizzonte.
Così inizia il nuovo libro di Ida Travi, quinto e ultimo capitolo di una vera e propria saga poetica che ha per protagonisti i Tolki, i parlanti (dall’inglese talk), coloro che hanno un corpo di parola. Abitano la terra di Zard, familiare e ignota al tempo stesso; parlano da un vuoto, uno spazio innevato, portando le cose in essere, quasi a dare senso a un mondo disgregato e, soprattutto, al tempo.
Ti ricordi le rose? Ti ricordi
Quando c’erano le rose?
Un altro tempo racchiuso nel fiore, un tempo forse solo in attesa di tornare dopo un lungo inverno. Scrive Daniele Barbieri nella sua nota conclusiva al libro: “Non è mai chiaro del tutto che cosa distingua il mondo dei Tolki dal nostro (…). Attraverso tutte le cinque raccolte la sensazione che qualcosa di terribile possa sempre accadere; che si viva, insomma, sull’orlo dell’abisso. Non se ne parla mai, in verità. Il discorso è sempre legato al dettaglio, alla situazione del momento, alle piccole paure o necessità del presente. Ma è forse il tono a tradire la potenzialità della tragedia: non quello che le parole dicono, insomma, ma il modo in cui lo dicono”.
I versi sono frammenti di dialoghi fra i personaggi – mormorano nel campo, sulla neve, nel casolare, dall’orizzonte indefinito di luogo ai margini della civiltà, poco prima dei boschi, o di pianura da cui salire, ma dove è facile smarrirsi e il cielo è lontano.
Saliremo sul monte
la neve sopra di noi
l’asino sotto di noi
e intorno le volpi
gli angeli, gli spiriti, i villaggi.
Variano dall’asserzione alla domanda, trascendono il quotidiano cui pure fanno continuo riferimento, diventano lingua spirituale, scarna – la lingua di chi deve stare nella verità. E la verità è sempre insostenibile, va detta sghemba, suggeriva Emily Dickinson, evocata nelle cose povere di una vita – un pettine, una brocca, del pane, un bottone, un chiodo. Reliquie che assicurano il vivente umano della sua presenza, che sembra sempre minacciata e cerca conforto nell’altro cui si rivolge. Noi non leggiamo semplicemente i versi, li udiamo e vediamo, siamo portati dentro da Katrin/Katarina, Fedòr, Ur, Kraus, Sunta, in modo “affilato e vorticoso”, per parafrasare una definizione di Alessandra Pigliaru, fin dall’inizio attenta osservatrice dei Tolki. La poesia della Travi scava in responsabilità antiche (qualcosa è stato fatto e non si trova riparo), così come nei desideri, nel vagheggiare un passato incollocabile, che ci riguarda. Non seguiamo una storia, siamo afferrati da un discorso che ci travalica, travalica l’ordinario in un sogno lucido dove avviene di incontrare cosa non siamo mai stati, sebbene ci assomigli. Questa sospensione dell’incredulità, un incantamento reale, è la stessa che riconoscerà chiunque abbia sentito Ida Travi dire le sue poesie. E per me è impossibile scindere i libri dalla voce di Ida, ferma, gentile, straniante a tratti oracolare, che rende dignità al nominato e nominabile. Un invito a credere e ricordare, quasi fossero infine lo stesso verbo. Ma chi, cosa?
Forse, mi sono detta più volte, la terra di Zard non è altro che quel paese dell’infanzia divenuto inaccessibile a causa del tempo, eppure fisso, tradotto in modo sciamanico negli oggetti. C’è un bambino prezioso, Antòn, verso cui la poesia si raccomanda:
Devi trattarlo come un uomo, il bambino
devi trattarlo bene, fin dalla nascita
come se avesse la sua volontà
C’è la neve, epifanica e totale, che azzera e spinge lo sguardo verso l’esperienza interiore.
In questo libro tuttavia affiora a tratti quanto è avvenuto in un momento antecedente, una regione e un vivere da cui i personaggi sono stati costretti a partire o che hanno volontariamente lasciato indietro. Siamo alla conclusione e quindi a una risoluzione, per quanto intuitiva e aperta.
Scrive Alessandra Pigliaru: “Diversamente dalle sillogi precedenti, qui i Tolki acquistano la struttura temporale di un tempo trascorso prima che viene restituito a una modernità nota, seppure abbandonata”. Si parla di schermo, giostra, accendino, automobile oggetti che infrangono la dimensione arcaica e ci riportano al contemporaneo, di cui i Tolki sono consapevoli. E insieme ai relitti del moderno appare l’animale, l’asino Tasàr, memore del fratello Balthazar nel film di Bresson. Zampa, coda, muso: attraverso di lui l’immobilità in cui sembra immersa la terra cede, si infrange; verso di lui c’è un moto affettivo, che dà un nuovo valore alle cose.
C’è del sentimento nella neve,
ed ha consistenza e respiro: è nell’occhio animale, nella sua sopravvivenza, nel suo portare, senza lamento, un destino.
L’animale è sacro, non dovete
trattarlo così. Non lo vedete il lampo?
Il diluvio sta per venire
ed è per cattiveria, è solo
per la vostra cattiveria
Ha due occhi come voi
ha il naso come voi, come voi
quando portavate gli zoccoli
Ha la fronte, come voi, e dietro
la fronte si stende il cielo nero
E le nuvole, e il volo degli uccelli
e l’amore che arriva di notte
l’amore che arriva di notte
e si siede sulla branda
non appena si spegne la luce
Non appena si spegne la luce
Come voi, come voi
Tasàr, è con voi, nelle tenebre.
Grazie al raglio di Tasàr cade il velo illusorio, perfino i nomi rivelano la loro natura di compromesso col reale; l’asino fa la carità ai personaggi,
Voi non sapete da dove venite
E no, tu non sei Katarina
e Fedòr non si chiama Fedòr
chissà come si chiama Fedòr.
Essi tornano, si spogliano grazie all’animale, possono finalmente restituirsi al fiume, alla pietra, alla terra. Può la poesia liberare se stessa dal senso e dalle spiegazioni, per dare solo una piccola luce, il piccolo coraggio di guardare.
Nell’asino si condensa tutta la capacità di provare compassione, di difendere quel che resta del bene, un’accettazione dell’esistenza e della sua grazia, più grande dei personaggi che parlano, più grande degli umani che si affannano e perfino più umile e quieta. La parola viene data quindi a chi parola non ha, a chi sta e spera speranze semplici, impronunciabili.
Il bambino verso cui bisogna essere responsabili si avvicina all’animale su cui gettiamo fatiche e crudeltà, e che pure resta accanto: l’altro, l’altra vita, la fratellanza del tempo d’oro, che forse non si può riattuare, ma chi chiede di essere protetta, preservata, ultimo e definitivo dei doveri, prima e più forte delle bellezze.
Il bambino e l’animale
sembrano fratelli, sono uguali
aspettano così tranquilli
Li chiamo, e non girano la testa
sono d’oro, sono nel tempo d’oro
io non li stacco dalla loro eternità
Dovrebbero farci scuola, dovrebbero
dirci cosa c’è nell’oro
perché io l’ho perduto l’anello
e tu?
Ida Travi, Tasàr. Animale sotto la neve (Moretti & Vitali, 2018)
E tu?
Sono un Suo mancato emulo . Interessi culturali in comune ,sessantaquattrenne ex fuori corso , scrivo anch’io .Psicoanalisi , psicologia analitica ,psicologia , psichiatria ,Propp ,Grimm ,Andersen , sono tra i miei attuali interessi .Eex attore di teatro e cinema vivo a Prato .Per affinità elettive Le chiederei AMICIZIA FACEBOOK . Sono in FACEBOOK .Comunque grazie .
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