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La custodia dei cieli profondi

di Raffaele Riba

(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo le prime pagine del romanzo di Raffaele Riba, La custodia dei cieli profondi, 66thand2nd 2018)

Quando il sole blu sorge e inizia a contaminare la luce, gli animali smettono di muoversi. Passano 7 secondi in silenzio (uno, due, tre, quatto, cinque, sei, sette); poi tutto riparte: le cicale ricominciano a frinire, le poiane a volare, i vermi a scavare la terra. Speravamo non tornasse, e invece torna puntuale quando all’altro sole, quello che conoscevamo, mancano un paio d’ore al tramonto. Tra i due si percepisce una distanza siderale, il cielo pare avere una dimensione in più, ma da qui li posso vedere senza muovere il capo. Se allungo il braccio e col pollice copro il sole, basta aprire il palmo e col mignolo riesco a coprire il sole blu. La mia spanna, adesso, occupa uno spazio profondo centinaia di anni luce.

*

Per qualche istante stanno alla stessa altezza sulla linea dell’orizzonte; poi mentre uno sale, l’altro scende. Sembrano due sovrani che si cedono la volta celeste, e noi: sudditi alieni increduli che non si facciano la guerra. Perché quaggiù è un susseguirsi di luci cosmiche che abbagliano gli umani, i galli, i fiori, che infatti cominciano ad annerirsi. Ci sono soltanto tre ore di buio e tutto se ne sta andando.

Tuttavia, capire cosa succede in cielo sarà più facile che ricostruire cosa è successo qui, su questa porzione di terra che, una volta, aveva una densità di persone e di legami che ne facevano una casa. Questa è una sapienza da raggiungere studiando il dolore, qualcosa che ha a che fare con la dispersione.

 

***

Parte prima – il legame anteriore

Cascina Odessa è stata costruita qui a seguito della decisione che mio nonno prese il 27 settembre del 1936, all’ombra della terra che lo aveva momentaneamente sepolto. La storia di cosa era successo – lo spavento, l’agonia, la tristezza, la determinazione, tutto insieme – è stata la preghiera che ogni santo giorno ci recitava per penitenza a una colpa che non ha mai sentito di avere estinto. L’ho ascoltata migliaia di volte da una voce che nel tempo è diventata roca, fino a uscire tanto flebile da non essere più in grado di ricordare, chiedendo allora che fossimo noi a farlo. Così spesso che in certi momenti mi sembra di aver vissuto quel giorno.

C’erano stati due anni di forte siccità. Qualcuno ancora li ricorda e dice che fu quello il motivo. Mio nonno arrivò in auto con il cane sul lato passeggero, la 515 aveva una crepa sul parabrezza che andava da parte a parte e rifrangeva la luce, disturbandogli la visuale. Sta – va seduto allungando schiena e collo, ma all’epoca le auto erano quelle che erano. Parcheggiò qui che il sole aveva cominciato a valicare le montagne, illuminando il bosco che scendeva fino alla pianura.

Questo bosco, questo inizio di pianura.

Non c’era acqua nel Roburent, e anche lui pensava a quella stranezza mentre attraversava il letto del torrente senza gli stivali che da anni utilizzava per guadarlo. Il Roburent era un confine che superava per perdersi, per diventare un raccoglitore. Da lì in poi, grazie alla conoscenza di una vita sui luoghi giusti e sulle specie buone, iniziava la raccolta dei funghi che per tutta la settimana mia nonna avrebbe cucinato e messo in conserva. Qualcuno, ancora, dice che la siccità avesse prosciugato un piccolo bacino sotterraneo, profondo tre, quattro metri e largo poco più di sei. Prima s’era svuotato completamente dell’acqua, perdendo pressione interna; poi, pian piano, anche la terra che lo conservava come un segreto aveva perso umidità, elasticità e compattezza risultando friabile. Le radici di arbusti ed erba tenevano insieme la superficie aggrappandosi l’un l’altra come dita allo stremo.

Odessa, il setter irlandese di mio nonno, camminava sempre due o tre passi davanti a lui, mai di più. Era un cane diligente e aveva un olfatto delicato. Cadde lei per prima, mio nonno nell’istante successivo. L’abbaio diventa guaito e poi si strozza perché il corpo di mio nonno cade sopra il suo. Tutto nello spazio di un secondo. «Non so se è stata la sensazione di vuoto, il colpo e lo spavento o se ho perso conoscenza: è stato tutto istantaneo come spegnere e riaccendere un interruttore » raccontava mio nonno. «Di certo c’è stato qualcosa in mezzo, tra un prima e un dopo. Un prima in cui io ero su, stavo passeggiando contento verso il sole che si infiltrava tra i castagni, con il mio cane. E poi un dopo in cui l’avevo schiacciata e uccisa, non vedevo nulla, sentivo la polvere entrarmi negli occhi e nella gola e un fischio che arrivava nelle orecchie dopo aver rimbalzato nella cavità. Quando il rumore e lo spavento passarono, e il pulviscolo scese a terra come neve secca, finalmente vidi il buco illuminato da cui eravamo caduti. La luce era omogenea, senza ombre».

Mio nonno si mette a sedere, prende Odessa e la tira verso di sé. La accarezza lasciandole indietro le orecchie, chiudendole gli occhi. La accarezza dalla testa fino al collo perché non ha il coraggio di scendere sul torace. Fino al collo il suo cane sta dormendo. La bacia sulla nuca, la pettina come fosse una bambina, e solo quando decide di lasciarla pensa a come fare per uscire. Scala il terreno e con qualche pugno fa crollare altro soffitto, la terra, le radici, mangiando polvere e cominciando a ricoprire il corpo per il quale questa casa sarebbe stata il tumulo abitato e folle che ho protetto come ho potuto.

Questo è il posto sopra cui vivo.

Ho abitato a Cascina Odessa per più di trent’anni, salvo qualche breve intervallo. Io derivo da questo posto, e per ogni cosa fatta dopo sono partito da qui. Se scavassi nel terreno, se facessi il lavoro di mio nonno al contrario, probabilmente troverei una stratificazione di sedimenti diversi. Qui sono passati adulti, bambini, animali, alberi. Qui sono morte due persone della nostra famiglia, sette cani, due gatti e poi chissà. Insetti, uccelli, bisce d’acqua, foglie, alla ricerca dell’equilibrio chimico, della dissolvenza.

Voglio solo dire che la casa è pelle, che la casa è cognizione, che la mia casa è un modo che ho per dire qualcosa di me.

Il primo nome che mi hanno dato è Gabriele, una mattina di aprile del 1980, ma è accaduto spesso che quel nome si sia disperso in un marasma di altri meno evidenti. All’inizio mi hanno chiamato figlio, poi fratello, poi il Custode; infine l’Eremita o il Matto. È stato un processo lento e graduale, questo disperdersi verso il non me, come se tutte le persone che ho conosciuto avessero prima o poi preso un treno e, affacciati ai finestrini, mi avessero salutato allontanandosi. È un fatto che le loro voci non solo si siano abbassate di volume e poi perse nel viaggio, ma che anche la semantica dei nomi usati per salutarmi si sia allontanata via via, diventando più rarefatta, più impersonale. Dall’essere chiamato figlio e fratello all’essere additato come matto, la prossimità è diventata deserto.

Andati via tutti, alla stazione di partenza non c’ero più nemmeno io.

Adesso, infatti, vedere cosa sono stato e quale stravaganza le persone si inventeranno per indicarmi da lontano non è più possibile. I soli ballano, c’è un senso di fine. Sotto di loro i fiori di tarassaco non si chiudono, gli insetti e gli animali notturni escono per mangiare ma finiscono ammazzati da qualche predatore diurno. Tordi e poiane volano su una benedizione che ha sconvolto il ciclo circadiano. Infatti li si vede sfiancati. La luce continua, la notte non arriva, gli animali non dormono, io non posso più fischiare per far tacere i grilli. Mi facevo compagnia così.

La prima volta che ho avuto coscienza di questo posto è stato il giorno del mio settimo compleanno, quando per l’occasione mia madre ha ritenuto necessario invitare qualche amico. Aveva chiesto consiglio alle maestre perché probabilmente io non ero mai stato capace di informarla a riguardo: chi mi piaceva, con chi passavo il tempo a scuola, chi mi faceva ridere. Tutti e nessuno. Non ero in grado, allora, di scartare alcuna ipotesi.

Per non darle fastidio mentre preparava i panini e metteva le bevande in frigo, mi aveva mandato a spazzare le scale. Tredici gradini di marmo che all’ottavo diventavano triangolari per assecondare la curva di novanta gradi che porta all’ingresso. Le spazzai con molta cura e alla fine ne ero ammaliato. Non le avevo mai notate prima di allora. Ma erano sempre state le mie scale. Ed erano di pietra millenaria, levigate, solide, fatte su misura. C’era tenerezza e senso di possesso.

La festa passò, tutto sommato divertendoci, coi regali, le candele spente, i giochi organizzati e regolarmente sabotati per correre fino allo sfinimento e senza troppa logica dietro un pallone. L’attenzione per le scale, invece, rimase come una sorta di risveglio responsabile, e sensoriale. Quello che imparai il giorno del mio settimo compleanno non fu solo la dedizione ai particolari, ma la costanza con cui si consumano e la sostanza con cui vengono offuscati. Guardandole a fine festa restai sorpreso dal poco tempo che la polvere, la terra, gli insetti morti, le foglie ci avevano messo per ridepositarsi. A sette anni forse immaginavo che non sarebbe più accaduto.

Ogni due, tre giorni, allora, prendevo la scopa e spazzavo, partendo dall’ultimo scalino per arrivare al primo, da destra verso sinistra, facendo scorrere i residui fino al punto in cui li spingevo a cascata nella paletta, posizionata sullo scalino sotto.

Poi tutto ricominciava da capo.

Ero un piccolo Sisifo che invece della roccia trasporta carcasse organiche e polveri sempre più sottili. In poco tempo mi resi conto della condanna enorme che stava dentro quell’accanimento. La polvere si accumula in casa, la frutta marcisce, le crepe si formano, la muffa dietro ai mobili si espande, i fili di tungsteno si consumano, le stoviglie si sporcano. Una specie di inflessibile legge dello sfaldamento da una parte – la polvere che cade – e l’asfissiante resistenza al declino dall’altra – lo spazzare le scale. Faticoso, costante e snervante mantenimento dello status quo per non cedere all’erosione. In definitiva una condanna alla saggezza, alla pazienza.

Mi ero preso in carico le scale e l’ho fatto per un po’ quando ero bambino. Da adulto ho intensificato il mio impegno, sono diventato il Custode, ma è comunque arrivato il giorno in cui mi sono sentito stanco. Ed è da qui, da questa stanchezza che ho smesso di guardare dietro di me e ho cominciato a osservare il cielo.

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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