Villa Borsani a Varedo
di Gianni Biondillo
Un intero inverno senza precipitazioni e il giorno che decido di prendere un treno per Varedo nevica. Va bene, me lo merito. Pago lo scotto del tipico milanese che appena esce dalla città gli sembra di andare nel deserto dei Gobi. E invece si tratta solo di venti minuti di treno, praticamente una tratta urbana.
Sono venuto qui a cercare una storia. Da architetto conoscevo i prodotti della Tecno, oggetti di un italian design che ha fatto il giro del mondo, da scrittore non immaginavo ci fosse alle spalle una storia familiare degna di essere raccontata. Una storia che ripercorre il novecento, descrivendo in maniera esemplare lo spirito imprenditoriale di questa parte di Lombardia, che ha fatto del lavoro una bussola esistenziale, una ragione vitale. A raccontarmela, questa storia, ci pensa Tommaso, che è venuto ad accogliermi sulla soglia di casa.
È da Gaetano Borsani, il patriarca, che dobbiamo inziare, quando un secolo fa, proprio qui a Varedo, fonda un altelier di arredamenti. Oggetti unici, raffinati, dal gusto mitteleuropeo. “Mobili in stile” che nel tempo si evolvono e assumono forme più moderne, contemporanee, senza perdere in raffinatezza. È stato questo il laboratorio immaginifico del figlio Osvaldo, fin da ragazzino, quando frequentava gli artigiani del legno, i decoratori, gli intagliatori. Una scuola pratica, sul campo, prima di frequentare prima l’accademia di Brera e poi il Politecnico. Ché anche Osvaldo, figlio di cotanto padre, bruciava le tappe, irrequieto. Si laurea in architettura nel 1937, ma già quattro anni prima, ancora studente, era stato premiato alla mitica V Triennale per la realizzazione di una “Casa minima”, manifesto edificato di adesione ai dettami razionalisti della migliore avanguardia dell’epoca.
Tommaso mi apre la porta di casa, abbandono cappotto e ombrello e mi guardo attorno. “Questa non era la casa di Osvaldo”, mi spiega. Qui abitava Fulgenzio, il gemello omozigote. La casa è del 1944. Gli Arredamenti Borsani Varedo (ABV) viaggiavano a pieno regime, i due figli di Gaetano collaboravano attivamente col padre. Il giovane Fulgenzio aveva bisogno di una casa per la sua famiglia, a due passi dai laboratori. Osvaldo ebbe l’intelligenza di non riproporre per il fratello un oggetto radicale, come quello della Triennale, ma una casa che riuscisse ad essere raffinata e moderna, elegante e domestica. Quella che ora sto attraversando.
Mi soffermo sui particolari, gli infissi, i marmi. Da un punto di vista decorativo sento come una risonanza, un’attenzione al modello di casa borghese che in quegli anni Piero Portaluppi stava sviluppando a Milano. Planimetricamente invece, nella distribuzione degli spazi e dei volumi, Osvaldo guardava verso Vienna, al raumplan di Loos. Ma le due spinte non cozzano, non c’è contraddizione. In fondo questa casa non doveva essere un manifesto, un esperimento, una teoria applicata. Doveva essere una casa per suo fratello. Probabilmente discussa assieme, attorno ad un tavolo, bevendo un caffè.
Perché assieme, i due gemelli, hanno fatto molto. Tutto. Finita la guerra erano abbastanza adulti e consapevoli da capire che l’Italia andava ricostruita, che il prestigioso atelier paterno aveva bisogno di diventare qualcosa di più: un luogo dove produrre a una scala più ampia, passando dalla grande tradizione artigianale alla produzione industriale di serie, dato che con il boom economico alle porte, la domanda sarebbe stata enorme. Fondano la Tecno. Era il 1953. Il sito della fabbrica era qui, alle spalla di questa casa, l’ufficio progetti e lo show room in via Montenapoleone a Milano. Come ebbe a dire una volta Fulgenzio, con praticità brianzola: “Lui disegnava e io facevo i conti”.
Tommaso fa scorrere un’anta in legno intagliata e mi porta nella zona a giorno. Campeggia un camino intarsiato da ceramiche di Lucio Fontana. Resto senza fiato. “Fontana era un amico di famiglia”, mi spiega Tommaso. Aveva frequentato l’Accademia con Osvaldo e non si erano mai persi di vista. D’altronde era nella natura di Osvaldo incontrarsi con altri talenti dell’epoca e collaborare con loro, che fossero artisti, fotografi, designer, architetti. Il gusto non era cosa che restava costretta in una disciplina, ma si moltiplicava nel continuo confondersi con le altre forme d’arte. Negli anni Osvaldo ha progettato gli appartamenti di molta della meglio borghesia meneghina, dove non era raro che il soffitto o le pareti fossero decorate dagli artisti amici suoi. Nomi come Fontana, appunto, Pomodoro, Spilimbergo.
Riconosco alcuni pezzi d’arredo della Tecno, ma non sembrano qui a fare bella mostra di sé, come in un museo. Passo una mano sul tessuto di una poltrona, è leggermente lisa. Da quanto tempo, chiedo, non è più abitata?
“Sono circa dieci anni”, mi risponde Tommaso, “da quando la zia non c’è più”. Sento dell’affetto in queste parole. Tommaso Fantoni non è solo un architetto che mi sta facendo visitare una bella casa del secolo scorso. È anche il depositario di una memoria familiare. Non c’è angolo della casa che non sia luogo dove le migliori menti di una generazione si incontravano e dove contemporaneamente le piccole storie famigliari riprendono vita. Come nel giardino che sto attraversando, oggi sommerso dalla neve. “Qui”, mi racconta, “da bambino pedalavo in bicicletta avanti e indietro immaginandomi al giro d’Italia”.
Questo unire lavoro e famiglia, casa e bottega, lavoro e amicizia è stata la forza dei Borsani. Fulgenzio da casa sua con uno sguardo vedeva la fabbrica. Osvaldo invece viveva all’ultimo piano dell’edificio di via Montenapoleone, riprogettato nel dopoguerra come vetrina dei prodotti Tecno (e i soffitti in vetro che permettevano la visione anche dei piani superiori lasciavano a bocca aperta ogni passante che si fermava ad ammirare il modo “moderno” di abitare, di arredare un appartamento).
Ho visitato e studiato Casa Boschi-Di Stefano e villa Necchi-Campiglio. Due modi di interpretare l’abitazione borghese del novecento a Milano. Ma – non ostante l’indiscutibile bellezza – l’eccessiva musealizzazione, le rende fredde, sacrali, distanti. Qui, a differenza, si respira ancora aria di casa. Lo specchio della toeletta in camera da letto sembra sia stato appena alzato dalla proprietaria, la cantina ha ancora bottiglie impolverate di Barolo, nello studiolo pare ancora di sentire gli echi delle discussioni fra Gio Ponti e i fratelli Borsani.
L’intera Varedo, che fu per decenni città-fabbrica, mi viene da dite “Tecno-Città”, cresciuta sempre più, sembra abbracciare affettuosamente questa villa suburbana ormai immersa nella enorme metropoli lombarda. E persino la neve, a ben vedere, mi appare come un dono del cielo. Prometto di tornare a visitare casa Borsani, a primavera, col sole e il verde rigoglioso degli alberi del giardino. Ma ora, sotto questa coltre imbiancata ho come la sensazione che la casa galleggi in un tempo sospeso, in letargo da dieci anni, in attesa di risvegliarsi, ospitale. Forse non più per accogliere i talenti che fecero la rivoluzione del gusto del secolo scorso, ma per aprirsi ai nuovi, giovani talenti che vogliono venire a visitarla, assieme a tutti i curiosi che desiderano imparare come ci si sentiva “a casa” quando, nel passato, si sognava il futuro.
(pubblicato precedentemente su The Fashonable Lampoon n.13 aprile 2018, le fotografie inguardabili le ho fatte col mio pessimo cellulare)