Ciao, Maestro. à Bernardo Bertolucci
Intervista a Bernardo Bertolucci
di
Olivier Maillart
Traduzione di Francesca Spinelli
(Pubblicata su Sud n°2, numero dedicato ai maestri)
Olivier Maillart: Mi sono spesso interrogato sulla possibilità di avvicinare i suoi film alla lettura che Kundera propone del romanzo,quando lo definisce l’arte ironica per eccellenza, che ci svela il mondo come un carnevale di verità relative. Lei stesso si è spesso descritto come il cineasta dell’ambiguità. Eppure non ha fatto altro che ricorrere a dei discorsi (politico, psicanalitico) che sembrano bandire l’ambiguità in quanto propongono una lettura totale, non romanzesca della realtà.
Cosa le sembra prevalere nei suoi film: un principio di scoperta del mondo nella sua ambiguità attraverso i procedimenti dell’estetica, o la messa in scena di saperi precostituiti (marxista o freudiano, ad esempio)?
Bernardo Bertolucci: Ricordo che quando dovevo parlare di Prima della Rivoluzione,cioè molto tempo fa, la prima cosa che mi veniva da dire, spontaneamente, era che Prima della Rivoluzione era un film ambiguo sull’ambiguità. Oggi noto la doppia negazione, ma all’epoca, penso, intendevo dire che si trattava di un film lucido. Mi sembrava che lo Stato, negli anni 1963-1964, non accettasse l’idea di ambiguità. Ci fu subito una sorta di sospetto nei confronti di quel film, che inoltre diceva di essere ambiguo. E che non era un film collocabile nella linea politica nata dal neorealismo.
Penso che né Rossellini, né De Sica – forse Visconti– fossero membri di un partito, ma il loro cinema era in gran parte politico. E nel periodo in cui uscì Prima della Rivoluzione, il cinema politico era Rosi, Lizzani…tutto il cinema italiano. Rosi era il più interessante. In quel cinema, nato dal neorealismo (ma tutto il cinema italiano derivava dal
neorealismo), c’era sempre più politica e sempre meno cinema. La ricerca sul cinema, su quello che c’era di interessante da scoprire e da dire sul cinema, passava in secondo piano. In compenso, e in questo gli italiani erano davvero forti, in Italia c’era un partito comunista molto importante, glorioso, con un suo passato, c’era stata la Resistenza…un partito robusto, al quale ci si poteva attaccare, legare. Ma erano gli anni Sessanta, cioè il periodo in cui ho fatto una parte di quei film politici. Era un periodo in cui, qualunque cosa si facesse, anche una cosa senza
senso, era politica. E in qualche modo era vero, perché la congiuntura tra ciò che facevamo e la realtà ci diceva che accettare o rifiutare le convenzioni date dal Sistema (come veniva chiamato), le interpretazioni della realtà, che erano dei clichés dati dal Sistema, tutto questo rappresentava una scelta politica.
Formavamo un gruppetto che era un’entità estetica più che politica, e che tentava di reinventare il cinema…Eravamo gli ultimi sul treno della Nouvelle Vague, eravamo sparsi in Italia, Brasile, Canada, Inghilterra. All’epoca c’erano molti amici cineasti. Nei film di quel periodo si vedeva molta politica e pochissimo cinema, e si arrivava a dei veri e propri paradossi…Se ci ripenso, la cosa mi sconvolge. Finivamo col dire certe di quelle cose… Già in Prima della Rivoluzione, il cinefilo (Gianni Amico) fa delle affermazioni abbastanza pesanti, che condividevo in pieno. Questa, probabilmente, è una delle differenze principali tra il presente e quel periodo lì, ma forse si tratta anche della differenza tra l’avere 62 anni e averne 23: negli anni Sessanta, quando prendevamo posizione, eravamo talmente sicuri di noi stessi, talmente privi di dubbi. Alla fine degli anni Sessanta questa era la nostra visione politica, che doveva diventare rivoluzione nel cinema, rivoluzione nel film, rivoluzione nel linguaggio, nel mododi affrontare la storia, e in tutto il resto…
Questo, da un lato,e dall’altro,la completa assenza di interlocutore. Se ci fosse stato un Dogma Sessanta, una delle
regole sarebbe stata: «L’unico modo di rispettare il pubblico, è di non pensare mai che esiste un pubblico». E c’era,
da parte mia, un certo sospetto verso i film di successo. Nel 1969 arrivammo a pensare che Z fosse un film politicamente irrilevante, dicevamo che era un film commerciale… Circolavano delle battute molto stupide, come quella che diceva che i tank russi avevano invaso Praga perché non apprezzavano il cinema cecoslovacco, Forman e gli altri.
È solo alla fine di quel periodo che per… irritazione nei confronti dei miei amici filo-cinesi mi sono iscritto al Partito Comunista. Perché sentivo nelle loro iniziative un profondo anticomunismo. Mi dicevo, c’è qualcosa che non va.
OM: Come in Dreamers, la discussione tra il giovane Francese e l’Americano riguardo il Libro Rosso…Ricorda alcune discussioni che lei avrebbe potuto avere con Godard, ad esempio, o con altri filo-cinesi. Un modo di opporsi al tempo
stesso politico ed estetico, nel 1968 e negli anni che seguirono.
BB – È vero,sì. Ci sono stati molti errori, da parte mia, a volte da parte degli altri. Poi si arriva a Novecento. Già ne La Strategia del ragno e nel Conformista, erano presenti i segni di una stabilità molto più forte. E riesco a fare Novecento in preda a una specie di sensazione catartica, politica e culturale, rivendicando una cultura popolare che già iniziava a scomparire. Ma nella figura di Berlinguer (come anche in quella di Moro), si vedeva già qualcosa di estremamente nuovo. Poi Moro è stato ammazzato, e Berlinguer si è ucciso qualche anno dopo… forse. Si tratta, per me, di un film quasi religioso, in cui la politica diventa quasi religione. Nel realizzare Novecento, il mio era un sentimento di pienezza religiosa. La cultura popolare era il luogo in cui si ritrovava ciò di cui parlava Pier Paolo Pasolini negli ultimi anni della sua vita: parlava della società consumistica come di un fascismo, un fascismo di gran lunga più pericoloso del precedente.
OM: Appunto, rispetto alle posizioni pasoliniane di quello stesso periodo, negli Scritti corsari o nelle Lettere luterane, c’è, nell’ottimismo di Novecento, l’idea che grazie al comunismo si possa ancora salvare la cultura popolare.
È un’idea che trovo molto bella, questa di salvare il retaggio del passato (la cultura popolare, i valori) attraverso un discorso marxista. Anche Pasolini ha sostenuto un’idea simile, ma verso la fine era molto più pessimista. È
proprio a quel punto, infatti, che gira Salò, parla della società consumistica come del vero fascismo e scrive che «nessun uomo deve essere mai stato normale e conformista quanto il consumatore»…
BB – Già, e ha girato… non ricordo più, quale film ha girato prima di Salò?
OM: La Trilogia della vita, se non sbaglio…
BB: – Sì, ha ragione… E poi rinnega la Trilogia della vita, con quella specie di sorriso amaro da martire. Dice: «mi sono sbagliato», scrive queste parole,queste parole così crudeli, ma crudeli verso se stesso. E parla dei giovani che
lo fanno vomitare, che non sanno più ridere, che fanno le smorfie. Non ricordo, era negli Scritti corsari?
OM: Sì, mentre è nelle Lettere luterane che troviamo l’abiura della Trilogia della vita. Lei, invece, proprio nello stesso periodo vede le cose in modo diverso, sembra credere che sia ancora possibile fare qualcosa…
BB: Assolutamente, sarebbe stato impossibile girare Novecento senza crederlo.
OM: È vero. Ed è solo in seguito, nella Tragedia di un uomo ridicolo, che ha sviluppato una visione molto più vicina a quella di Pasolini, riprendendo alcuni dei suoi testi sui giovani, ad esempio in quello che dice Ugo Tognazzi…
BB: Era strano sentire Tognazzi dire quelle cose. Quando parlava dei giovani, parlava di suo figlio Ricky, che stava crescendo in un certo modo… Perché poi quei giovani di cui parla Pasolini sono anche delle vittime. Ma quando giravo Novecento, ci credevo davvero. Per farle un esempio, all’inizio volevo creare, attraverso il film, un dialogo tra USA e URSS. La parte del padrone doveva essere recitata da un attore hollywoodiano e il contadino doveva essere russo, sovietico. Mi misi in contatto con la Mosfilm, ma furono sollevate tante di quelle difficoltà, dicevano che dovevano approvare la sceneggiatura etc…
OM: Per Novecento lei parlava di un senso di religiosità, e su questo aspetto ci sono state molte critiche: il film imporrebbe al pubblico una verità, una chiave di lettura della storia… Ma se si cerca di capire quale sia il principio dominante del film, principio ironico o principio politico, ci si accorge che si tratta di un film che si contraddice continuamente.
BB: E’ basato sulla contraddizione.
Scherzo e ironia
BB: E questa contraddizione, per l’appunto, non viene superata. Alla fine del film c’è quella scena del processo che sembra dare un senso generale all’insieme, eppure lei aggiunge un’ultima sequenza in cui ritroviamo Alfredo e Olmo che continuano a battersi in eterno. Sono l’uno il doppio dell’altro e questo basta a relativizzare tutto ciò che poteva somigliare a una lettura troppo lineare di quanto precede. E il film funziona così, dall’inizio alla fine, facendo scontrare degli elementi ideologici con quanto li contraddice: l’intimità, la relazione ambigua tra i due eroi. Pur essendo un film molto politico, sostenuto da quella pienezza religiosa di cui si parlava, tutto vi è relativizzato, in modo affine al principio romanzesco di cui parla Kundera.
OM: Si ma vorrei tornare a ciò che lei intende per ironia… Nell’Arte del romanzo, Milan Kundera definisce il
romanzo l’arte ironica. “L’ironia irrita. Non perché si faccia beffe o attacchi, ma perché ci priva delle certezze,
svelando il mondo come ambiguità” e rifiutando di scegliere tra le verità, tutte relative, che vi si affrontano. E in Prima della Rivoluzione, in Novencento e di nuovo in Dreamers, trovo molto interessante questo trattamento ambiguo, ironico del racconto, perché ogni volta lei vi inserisce la politica e i suoi discorsi, in particolar modo il discorso rivoluzionario, che poi è quello che tende maggiormente a bandire l’ironia, chefavorisce la distanza mentre la rivoluzione esige che si faccia causa comune.
BB: Ricordo che Pier Paolo Pasolini diceva di non amare l’ironia, che qualcosa di un po’ troppo facile, e che l’ironia era un atto borghese: le preferiva la facezia, lo scherzo. Ma credo che l’ironia sottile di cui parla Kundera fosse quella che più detestava. Kundera rivendica anche il retaggio di Rabelais, dello scherzo, del riso che relativizza… Ma in effetti, nella distinzione fatta da Pasolini (che ricorda la distinzionepopulista di Victor Hugo), da un lato doveva esserci la sana risata del popolo, dall’altro l’ironia dei maestri…
OM: Già, c’è proprio uno sguardo ironico, distaccato (ma al tempo stesso riesce ad essere colmo di empatia per i
personaggi), probabilmente perché il tempo è passato. Il film risponde a Partner, che invece era immerso nel ’68,
lirico e rivoluzionario. E’ una risposta anche perché in entrambi i film troviamo Cocteau, ma in modo completamente diverso. In Partner, Cocteau è presente dalla parte del sogno, del passaggio attraverso gli specchi, del doppio, della figura del Poeta… Mentre in Dreamers, si avverte l’eco dei Ragazzi terribili più che di Orfeo: soprattutto nel restringimento sulla segreta dimensione incestuosa, la regressione verso il guscio intra-uterino, la grotta nel salotto), l’appartamento diventato “roulotte”…
I gemelli, il Padre
BB: Qui c’è un equivoco sull’incesto. Come si possono accusare d’incesto dei gemelli? Dopo che hanno vissuto nove mesi nel ventre materno, nel guscio come ha detto. Insieme. Se c’è stato incesto, deve essere stato in quel periodo lì. Poi sono cresciuti l’uno di fronte all’altro, perché sono fratello e sorella, sempre insieme. In una specie di familiarità, di intimità. Un’identificazione dell’uno con l’altro. Eccolo, l’incesto.
OM: L’incesto è anche la perdita delle differenze strutturanti che accompagna lo sgretolamento della figura paterna, enunciatrice della Legge. Dreamers è un’opera talmente ironica e romanzesca in quanto presenta il maggio del ’68 (un avvenimento che in Francia viene spesso sacralizzato, o demonizzato, il che è esattamente la stessa cosa) in modo sia critico che empatico: siamo al fianco dei giovani, condividiamo le loro esperienze estetiche e sensuali ma nel film, il Maggio del ’68 è anche il giorno in cui i genitori se ne vanno in punta di piedi, lasciando un grosso assegno.
BB: Questo padre in un certo senso è un “maestro” per i suoi figli. Deve avergli dato da leggere Bataille, Sartre, la Storia di O. Così, quando i figli gli si ribellano contro, quando li vede abbracciati, non può far altro che andarsene in punta di piedi. Trovo che i genitori siano i personaggi più simpatici del film. Ma comunque sia, e questo vale per tutti i miei film, io amo tutti i miei personaggi, sono in ognuno di loro. In Renoir accade la stessa cosa: ogni personaggio ha le sue ragioni.
OM: La scomparsa della figura del Padre è rintracciabile in molti dei suoi film, sia per parlare del fascismo (La strategia del ragno, Novecento) che di fatti più contemporanei.
BB: Nell’Ultimo Tango a Parigi, per esempio quando Marlon Brando si mette il cappello del Padre che Maria Schneider gli spara.
OM: Vorrei tornare a Dreamers. E’ un film che trovo molto baudelairiano, per il modo in cui ha inserito gli spezzoni
di film: servono sia a caratterizzare una sensazione, un sentimento che a rappresentare una memoria, un legame con l’arte e il passato, l’emozione estetica. Troviamo al tempo stesso l’eterno e il transitorio, e i due si ricongiungono nel momento in cui un soggetto li chiama a sé per esprimere le sue sensazioni e dispiegare pienamente l’animo.
BB: Sì, è così… Sa, l’ultimo libro pubblicato da mio padre s’intitola Ho rubato due versi a Baudelaire. Quello che lei dice sull’istante presente, lo troviamo anche nei Miti d’oggi di Barthes, in cui si parla della pubblicità, della moda, dello strip-tease… Insomma, una altro modo di individuare nel transitorio la caratteristica di un’epoca. Lo stesso vale per i film di Godard: li si poteva datare in base al mese di uscita, uno esprimeva perfettamente il luglio del ’62, un altro il febbraio del ’65…Ho notato la stessa cosa nel suo ultimo film, Eloge de l’amour, che mi è piaciuto come da tempo non mi piacevano più i suoi film, da allora. La prima parte ricorda Alphaville, la seconda… Godard usa il video come un pittore dilettante, eseguendo ampie tinte piatte di colore con un’apparente ingenuità.
Un film allegro
OM: Sempre in Dreamers, troviamo di nuovo la figura dello straniero, spesso anglosassone, già presente in Ultimo
tango a Parigi, La Luna, Bellezza rubata… Con la conseguenza, tra l’altro, che tutti parlano inglese.
BB: Faccio fatica a sopportare la lingua italiana, che non trovo nobile (forse sublime). E’ un difetto frequente in molti film; anche con un’ottima regia. Se si considerano quelli di un maestro insuperabile come Michelangelo Antonioni, sono stupendi ma ci si accorge che non appena i personaggi aprono bocca, rovinano tutto. Ma, fondamentalmente, ho la passione della differenza dell’altro. Non tanto perché mi senta altro io stesso, ma perché amo molto il passaggio attraverso uno sguardo straniero. In Dreamers poi, il personaggio dell’Americano permetteva di introdurre un contrappunto al discorso dei parigini, e cioè il pacifismo. Ero stato molto colpito dalle immagini di quei giovani Americani che, alla fine degli anni Sessanta, bruciavano la loro cartolina per non partire in Vietnam. C’erano degli
enormi falò, alla frontiera con il Canada. Il personaggio permette di esprimere quel tipo di atteggiamento.
OM: Permette anche di introdurre la contraddizione, come sempre irrisolta. Alla fine, ad esempio, quando si oppone
a quello che vuole lanciare i cocktail Molotov. Finché ci si ritrova in un confronto tra la gioventù eroica e i poliziotti
cattivi e fascisti va tutto bene, perché il fascista è sempre l’altro. Ma la contraddizione all’interno della gioventù stessa vi costringe a considerare la possibilità del male in noi stessi, e l’ambiguità, ancora una volta,
ricompare.
BB: Eppure mi sembra che in questo film sia cambiato qualcosa… anche se poi i cambiamenti non esistono,
poiché tutto cambia e tutto sembra non cambiare… Ma credo che ci sia stato un cambiamento nel cinema (e qui torniamo alla psicoanalisi), nel senso che il film ha un corpo. Quindi ha anche un inconscio. E trovo che in Dreamers ci sia una fusione tra l’inconscio del film e il pubblico. E’ come se le dicessi che il suo corpo funziona come un inconscio, che sono la stessa cosa. Guardando Dreamers penso di aver capito che il corpo è l’inconscio, e che in questo modo (parlo per me, non ne faccio una regola generale) c’è un inconscio che salta à pié pari la fase razionale: si passa dall’oscurità dell’inconscio all’oscurità del corpo. C’è come un’unione, una fusione. E quello che succede nel film, e credo che per questo si tratti di un film allegro.
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Grazie, Francesco, per questo bel pezzo. Nonostante sia una cinefila maniacale, Bertolucci non l’ho mai approfondito, mea culpa e culpa anche dei canali migliori che passano pochissimi suoi film. Forse è stato un regista scomodo, non del tutto inquadrabile. M’interesserebbe vedere i suoi film più politici, “Il conformista” a parte, che conosco. Comunque, grazie.