Tracciare l’Aracneo – gli autismi secondo Fernand Deligny
di Giorgiomaria Cornelio
“L’autismo è la malattia del secolo” dice Grillo, e sarebbe l’ennesima ciancia se non fosse che tutto attorno sono accorse reazioni di protesta che ripropongono la medesima violenza istituzionale paraventata dietro il pretesto riabilitativo, come se il nucleo del discorso fosse sempre quello di garantire ai bambini autistici un’inclusione imposta nella nostra moderna società, una specie di urgente soluzione educativa che ci sollevi dall’obbligo di un confronto che altrimenti indisporrebbe la solida misura degli umani-che-siamo:
Sta di fatto che innovare non ha niente a che vedere con il trovare una soluzione. È forse semplicemente cambiare progetto, lasciar perdere il pedagogico o il terapeutico. Ed è proprio perché si tratta d’altro che l’innovazione può avvenire.” (Les Enfants et le silence)
Queste parole sono di Fernand Deligny (1913-1996), incontenibile compagno dei bambini autistici non-verbali che insieme a loro ha tracciato sino alla fine della sua esistenza il modo d’essere della rete, le lignes d’erre dell’educatore senza metodo o chiusa scienza. Non ci sorprenderà dunque la pressoché totale irreperibilità dei suoi libri nella nostra fiacca editoria, dal momento che accostarsi a Deligny significa quanto meno negarsi la compiutezza di un sistema, scacciare quell’ombra riparativa e teleologica che ha accompagnato la questione dell’autismo sin dalla sua formulazione.
Comunista primordiale e vagabondo efficace (come recita il titolo di una sua opera), Fernand Deligny ha trascorso parte della vita tra i monti della Cévennes, dove su invito di Félix Guattari trasferì -a Monoblet- il suo progetto residenziale, i suoi tentatives di restituire un luogo, un’esternità a quei bambini immobilizzati perché da (per) sempre esclusi dal patto del linguaggio eppure addentro alla società, come irreparabili -ma necessarie- eccezioni, “anatroccoli a cui è stata rubata l’acqua”:
;“[…] E quando lo spazio diventa un campo di concentramento, il formarsi di una rete crea una specie di esternità che permette all’essere umano di sopravvivere.” (L’arachnéen et autres textes).
Già prima del fondamentale incontro con Janmari (dodicenne autistico e muto tracciatore del di fuori), Deligny si era occupato di giovani “irrecuperabili”, sempre cercando di togliersi all’ordine della contenzione e di rifiutare quella norma statistica -riproducibile ad oltranza- che viene camuffata sotto il nome di educazione. Piuttosto che ricorrere al fantasma parentale o alla fissazione biografica (“che cosa è mancato?”), Deligny si chiede attivamente che cosa manchi al momento, quale sia lo spazio da progettare affinché l’essere di questi ragazzi possa tornare ad avere luogo. Occorre, insomma, restituire un lago agli anatroccoli, e se è certo che “nessuno rifarà la mappa del mondo perché un bambino autistico è attratto dall’acqua che danza in un lavabo di pietra che appartiene a qualcun’altro” (Ce voir et se regarder), la verità senza scopi dell’agire di questi bambini diventa -per Deligny- il punto nodale della sua pratica e un disconoscimento della gabbia volitiva in cui l’uomo “integrato” si costringe.
Lontano dunque da qualsivoglia psicologia della comprensione, Deligny incomincia a trascrivere -insieme agli altri operatori della comunità- i tragitti dei bambini non verbali con cui vive a Monoblet, e ne fa un assemblaggio nomade di linee, zuppa di anguille (le affinità con Warburg sono molteplici), erbario palmare e mappatura sempre incostante che lui battezzerà L’Arachnéen (L’Aracneo), inaugurando così il quasi-prototipo dell’era dei nati sotto il segno del ragno (dove il parlare e la volontà non sono più imperativi). Quando Deligny si rivolge al linguaggio lo fa solo per ararne l’orizzonte indicibile, e tutta la sua opera scritta è un aprire fenditure nella continuità del dizionario: ponendosi sul bordo in cui esterno e interno vengono a confondersi, egli srotola il fondamento paradossale dell’agonismo comunicativo, e la sua pretesa totalitaria.
Rispettare i bambini autistici non significa dunque ricondurli nel recinto atrofico degli umani-che-siamo, ma piuttosto concedere alla rete di tessersi da sola in uno spazio adeguato e in cui la definizione di uomo s’incrini a tal punto da dissomigliare a quanto è stato sino ad ora concepito. È qui -nel modo infinitivo del tracciare- che il progetto di Deligny diventa traiettoria sperimentale, edificazione di un altro mondo in terra laddove il materialismo aveva finito “per non sapere più che farsene del corpo” (L’humain et le surnaturel).
In questa costellazione del ragno chiameremo anche Bartlebly, lo scrivano di Melville divenuto tavoletta per scrivere, e a proposito del quale Giorgio Agamben commenta:
[…] non è ormai nient’altro che il suo foglio bianco. Non stupisce, quindi, che egli dimori così ostinatamente nell’abisso delle possibilità. La nostra tradizione etica ha spesso cercato di aggirare il problema della potenza riducendola nei termini della volontà e della necessità: non quello che puoi, ma quelli che vuoi o devi è il suo tema dominante. È quanto l’uomo di legge non cessa di ricordare a Bartlebly. (La formula, o della potenza)
Differendo ugualmente la circoscrizione pedagogica e l’apriorismo astratto dei funzionari della cultura, Fernand Deligny è stato l’instancabile cercatore di un vivere in comune che resista all’intrusione del linguaggio, di un comune cioè che neppure comunichi, di un luogo dove Bartlebly possa finalmente scampare agli uomini di legge (“Ma cosa può essere detto a proposito di una libertà che non dica di sì e non dica di no? Essa perde il suo nome” scrive Deligny in La liberté sans nom).
Torniamo a stamparlo e a leggerlo, allora. Scopriremo così che l’autismo non è “la malattia del secolo “, ma piuttosto il contrattempo, l’orizzonte nomade dal quale far ripartire la nostra moderna interrogazione sull’uomo.
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