Intervista a Laura Martignani

 di Nicoletta Prestifilippo

Il termine persona ha origini profonde, da condurre alle forme mutevoli della maschera nel teatro, e dunque a un ruolo estraneo al proprio essere, a una tensione che muove il dentro fino al fuori, verso un punto massimo che è di ispirazione e immedesimazione. Vi è un tempo per tutto: per la crescita, il confronto, la prova che segna l’eccezione e affianca la regola; quest’ultima vede nella ripetizione, un meccanismo utile all’apprendimento. Serve molta calma, e la capacità di scegliere ciò che è giusto o sbagliato per il proprio essere, anzitutto: da sempre vi è chi manovra e chi si lascia manovrare. Chi muove i fili, a scapito di tristi burattini che si rivelano depositari del soffio della vita solo in casi fortunati o tenaci, sono le cosiddette personalità forti, illustri; sono i presuntuosi, sono i forti, quelli che si mostrano tutti d’un pezzo e intanto crollano alla prima contraddizione, al primo cenno di ragionamento non del tutto slegato dalle emozioni. Siamo una macchina umana, per alcuni; per altri un groviglio di sensazioni, una massa confusa e trascinata fino ai bordi delle scelte assennate e un po’ più in là, alla deriva. Le mezze misure non attraggono più, chi tentenna è ritenuto un perdente ancora prima di dare forza alle parole: bisognerebbe chiarirsi le idee, ma non c’è tempo, non c’è posto per tutti, ciascuno arraffi ciò che può, e chiuda la faccenda.

Le eccezioni ci salvano sempre. Tra queste fa capolino Laura Martignani, per la bellezza e l’acume dei pensieri confluiti in un piccolo e prezioso saggio pubblicato dalla casa editrice Divergenze, intitolato L’indebolimento dei Legami Umani, ovvero Come la competizione ha progressivamente ridotto la solidarietà.

Leggere non è mai un esercizio sterile, e di domande, quando un testo risulta valido, si fa sempre una buona scorta: la mia, ho potuto dividerla con l’autrice dell’opera citata.

Nell’eccessiva fretta dei tempi odierni, pieni di sviste e di (false) priorità, si può ancora scansare l’approssimazione in favore di un contatto autentico con sé stessi e poi con gli altri? Cosa favorisce questa condizione, secondo te?

Io credo che si possa ancora. Le nostre giornate sono piene di impegni da sbrigare, di persone da contattare, di eventi a cui non possiamo mancare. Eppure io credo che sia sempre necessario trovare un momento per noi stessi, un momento nel quale ci ritroviamo faccia a faccia con il nostro io interiore e nel quale possiamo permetterci di riscoprirci. Le distrazioni sono dietro l’angolo, per cui è difficile mantenere il focus sul nostro obiettivo, che sia la meta della giornata, del viaggio o della vita. Per farlo, è dunque importante prendersi i propri istanti di solitudine. Puoi farlo sfogandoti in cucina, andando a correre di prima mattina quando tutti sono ancora immersi in un sonno profondo, puoi farlo semplicemente con la musica alle orecchie, quella che più ti ispira, oppure, ancora più genuinamente, sedendoti e pensando. Può sembrare stupido per alcuni, banale per atri, ma mi capita spesso di volermi prendere qualche minuto unicamente per pensare. Mi capita più che altro prima di dormire, quando metto la sveglia e appoggio il telefono sul comodino, e allora sono finalmente da sola con me stessa, a pensare alla giornata appena trascorsa, a ciò che mi ha resa soddisfatta e a ciò che, invece, avrei voluto migliorare o cambiare. Penso ai miei progetti, ai miei sogni, immagino dialoghi con le altre persone che vorrei si realizzassero. Insomma, sogno ancor prima di sognare. E questo esercizio mi aiuta a liberare la mente e a conoscermi ogni volta un pizzico di più. Il segreto sta nel trovare il tempo dove sembrerebbe che il tempo non ci sia. E prima lo troviamo per noi stessi, prima riusciremo a capire chi e quali sono le nostre priorità.

Impariamo il senso largo e confortante del plurale, sapendo che il due, nei casi più fortunati, è unione salda che non esclude la particolarità dell’individuo. Il legame madre-figlio è forse il più antico e durevole: nessuna teoria può avvicinarsi a ciò che si avverte in maniera così radicata e istintiva, anche e soprattutto nei gesti. Ma i legami sono persino con la terra: i luoghi d’origine, e quelli sconosciuti e poi esplorati che sono rimasti dentro, per qualche motivo. Quali sono i tuoi punti cardine, la culla, le derive e gli approdi, i confini che vorresti attraversare per la prima volta, magari la seconda, o infinite volte ancora?

Ho il pregio, forse in parte il difetto, di affezionarmi a qualunque luogo abbia significato per me un momento di serenità. Oppure un momento di riflessione, a volte persino di confusione o difficoltà. Perciò sono infiniti i posti che mi hanno lasciato qualcosa, ma ce ne sono alcuni in particolare che, nell’istante in cui io ho lasciato a loro una parte di me, hanno ricambiato arricchendomi di qualcosa di più prezioso. Ma parto dall’origine. Bologna è la città che ho sempre considerato casa, pur avendo vissuto lì solo i primi due anni di vita. Non è solo la mia città natale, ma anche quella dei miei genitori, che si sono conosciuti poco fuori Bologna e che, in quell’ambiente, hanno vissuto tutta la loro infanzia ed adolescenza. Non ho ricordi nitidi della piccola me bolognese, ma tante foto nel vecchio appartamento a due fermate dal centro e qualche flashback sbiadito del cortile di casa. Nulla di più. Eppure, ogni volta che torno nella patria delle lasagne, ogni volta che, guardando fuori dal finestrino, vedo San Luca che spunta dai colli, mi sento a casa. Così, se non lo sapevate, è per tutti i bolognesi. Se vedi il santuario sulla cima di una delle colline, sai che sei al sicuro, che non manca tanto al tuo nido.

A due anni e mezzo, ci siamo trasferiti in un paesino in provincia di Ferrara, Santa Maria Codifiume. Allora di abitanti se ne contavano massimo 2500, ma nel corso degli anni sono almeno raddoppiati, così come l’estensione della zona. E basta attraversare il fiume Reno per essere già in provincia di Bologna. Quindi non abbiamo pienamente tradito la patria, non sia mai. E come se già il posto non fosse già abbastanza sconosciuto ed isolato, i miei genitori hanno scelto una casetta di un Borgo a cinque minuti dal centro, se così si può chiamare, del paesello. Oggi questo è il mio Borgo, e la nostra casa, come dice sempre mio papà, è la base. Io sono una vagabonda, non mi piace stare ferma, ma quando torno, qui mi sento in pace con me stessa e posso prendermi tutti i momenti per pensare di cui ho bisogno. L’amore per il silenzio e la tranquillità l’ho ereditato da entrambi i miei genitori, e, al ritorno da un viaggio o dalla frenesia della città, da una giornata di lavoro o da una serata con amici, questo è il nostro posto felice.

E pensa che, a 16 anni, ho deciso di abbandonare il mio posto felice per 10 mesi. E ho dovuto trasferire la sua localizzazione a circa 8000 chilometri da qui. La Cina è il confine che mai avrei pensato di attraversare. E non parlo del confine fisico, ma di quello mentale. Non pensavo che la mia timidezza e il mio attaccamento alla quotidianità mi avrebbero mai permesso di compiere un tale passo, eppure oggi sono qui a ringraziare per la milionesima volta la me di 4 anni fa. In seconda liceo avevo preso il primo aereo della mia vita per uno scambio a Bordeaux, e ti confido che i primi tre giorni piangevo in camera da sola perché sentivo la mancanza di casa. Ma alla fine di quella settimana avevo legato molto con tutta la famiglia francese e mi ero detta, che dopotutto, quell’esperienza mi era proprio piaciuta. Poi in terza liceo una nuova avventura a Brighton e il mio sogno inglese che si realizzava. E poi tanti piccoli viaggi con i miei. Insomma, avevo capito che mi piaceva andare alla scoperta di ciò che stava fuori dal mio borgo, e, presa da un memento di pura pazzia, il quarto anno l’ho trascorso interamente in terra di ravioli al vapore. Perché la Cina? Studiavo il cinese a scuola e volevo impararlo come si doveva. Solo quando ero là, ho capito che la lingua era l’ultimo dei miei obiettivi (e i volontari di Intercultura, l’associazione che mi ha permesso di partire, me l’avevano sempre detto). Prima volevo capire la mentalità dei cinesi, che cosa amassero e come vivessero la loro routine, volevo trascorrere il mio tempo con le sorelline ospitanti, vederle giocare e fare i compiti, imparare a fare i ravioli con la nonna e andare a fare compere con la mamma. Volevo assistere all’apertura del ristorante di mio papà, viaggiare per la Cina con i miei amici italiani, assaggiare ogni piatto tipico che fosse commestibile, fare tutto quello che mi era concesso fare in 10 mesi di vita e tornare a casa con una vita da raccontare. Alla fine la lingua à venuta da sé. Senza che io me ne preoccupassi troppo. E anche la nuova me è venuta da sé. Al diavolo quella timidezza che mi aveva sempre contraddistinta, al diavolo la paura di sbagliare, al diavolo il piatto pronto. Mese dopo mese si sono fatte spazio la determinazione, la voglia di fare, la necessità di trovare sempre una soluzione o un piano B. Non mi sono mai dovuta adattare, perché ho apprezzato ogni singolo istante di quell’esperienza che mi ha davvero cambiato la vita. Se non fosse stato per quell’atto di coraggio, non mi sarei nemmeno trasferita per l’università. Ora vivo tra il mio borgo e Verona, che è diventata la mia seconda casa, solo in un borgo un po’ più grande e meno silenzioso. Ma è una città che mi trasmette pace ugualmente, e che non cambierei per nessuna al mondo, in questo lasso di vita. I confini che voglio varcare sono tantissimi, impossibile da elencare uno per uno, ma per me il viaggio è arricchimento, condivisione, avventura e cambiamento. Quindi non voglio fermarmi. Al primo posto c’è la Thailandia. Ma per il momento sto bene dove sono, sia che io mi trovi nel borgo, sia che io mi trovi nella città di Romeo e Giulietta. Ora non c’è nulla che vorrei cambiare.

Ne L’indebolimento dei Legami Umani parli della competizione come di una forza che in alcuni casi, sa di buone promesse: solo quando si chiama per nome i propri limiti si può arrivare a superare certe resistenze, e a fare leva su fondamenta solide, sulle quali basare le scelte più importanti. Lasciarsi muovere esclusivamente dall’insicurezza, e dunque permettere agli altri di definirci, non è forse la maniera più rapida di dare a quella stessa competizione, dei connotati negativi?

Come spiego nel mio saggio, la competizione è spesso inevitabile nella maggior parte dei contesti in cui ci troviamo, perché in ognuno di quelli abbiamo il dovere o la possibilità di porci fianco a fianco con altre persone, o faccia a faccia con altre realtà. Se si viene a creare quella competizione sana, il cui unico scopo è quello di spingerci a dare il meglio di noi, allora niente paura, non dobbiamo sconfiggerla. Ma se si tratta di una competizione malsana, mossa dall’invidia, dal desiderio di distruggere il prossimo per apparire migliori o di vincere utilizzando scorciatoie e giochi sporchi, allora è perché siamo noi i primi a farci prevaricare dall’insicurezza. Convinti di non potercela fare con le nostre sole forze e di non poter dare il meglio senza farci sopraffare da una concorrenza sleale vero gli altri, finiamo per sfociare proprio nell’indebolimento dei legami umani, appunto. Tutto sta nel ricercare un equilibrio in cui diciamo sì alla competizione che ti arricchisce e ti spinge a fare di più e no a quella che ci allontana dall’obiettivo personale per lasciare spazio alla distruzione del prossimo. Dopotutto, ognuno di noi sta gareggiando contro se stesso, se è almeno un poco determinato, per raggiungere mete sempre più grandi e soddisfacenti, quindi perché gareggiare anche contro gli altri?

Per associazione mentale, ti viene in mente un libro, un dipinto, uno scatto, dove i concetti di legame umano, di competizione e solidarietà che compaiono già nel titolo della plaquette a cui ti sei dedicata, prendono corpo ed espressione?

Senza pensarci troppo, mi viene in mente L’urlo di Munch. Il protagonista del quadro è angosciato e i due personaggi poco distanti da lui si fingono sordi al suo urlo e sembra quasi vogliano uscire dal dipinto. Racchiude proprio il titolo del mio saggio, perché è il chiaro esempio di legami umani indeboliti, di solidarietà che viene a mancare. Oggi non c’è tempo di stare ad ascoltare gli altri, non c’è tempo di provvedere a bisogni che non siano i nostri. Non c’è tempo per persone angosciose che chiedono aiuto. Viviamo ogni momento all’estrema velocità, e non siamo disposti a fermarci un attimo ad osservare. Vediamo ma non guardiamo. Non ci soffermiamo. Non lo facciamo quando si tratta di noi stessi e delle persone che ci vogliono bene, figurarsi di chi vediamo passando di sfuggita. Proprio come quei due uomini nel quadro di Munch.

Sapresti scegliere una riflessione, tra quelle che hai scritto, che senti tua più di altre?

“Il confine aiuta a proteggersi dalle delusioni, però al tempo stesso frena la continua ricerca di affetto: non lascia più neppure la possibilità di tentare, che vi si ha già rinunciato”. L’ho imparato col tempo, anzi, lo sto imparando tuttora e ho ancora tanto da imparare. Ho abbattuto tanti confini e ne vado fiera, ma ce ne sono altri che mi sembrano ancora invalicabili. Ce sono alcuni che non mi spaventano più, come quello del viaggio e della scoperta di una cultura completamente diversa dalla mia, o come quello del contatto con uno sconosciuto. Fino a pochi anni fa facevo fatica a relazionarmi con persone nuove, a mostrare il lato solare di me. Tendevo a restare troppo sulle mie e a non farmi mai apprezzare a primo impatto. Oggi quel guscio è sparito e nella mia quotidianità mi capita quasi tutti i giorni di trovarmi di fronte ad amici di amici, a persone che incontro per caso o che non vedevo da molto tempo e non avere problemi nell’allacciare o riallacciare quasi immediatamente un dialogo vivace e aperto. Lo stesso guscio, però, non sparisce quando si tratta di mostrarmi ad una persona che mi interessa, che mi piace. Faccio fatica a lasciarmi andare perché so che, quando lo faccio, do tutta me stessa. Le delusioni ti insegnano a non commettere di nuovo gli stessi errori, dunque quando incontro qualcuno che suscita la mia curiosità, rimango sempre fregata da una vocina che mi ripete “Attenta, ci sei già passata, non vorrai mica ripetere lo stesso errore!”. E così puntualmente mi freno, un po’ presa dalla paura, un po’ dall’insicurezza di non essere ricambiata, e questo mi porta ad assumere un modo di fare che io stessa non sopporto. Quindi le cose vanno così: rinuncio senza nemmeno tentare.

E’ una parte del mio carattere su cui sto cercando di lavorare, perché mi rendo conto di rischiare di perdere occasioni irripetibili. Anche se con la scusa del destino, mi dico che se son rose… fioriranno!

Il punto di forza del tuo scritto, è nell’evoluzione: sono molti gli spunti da raccogliere, e i pensieri continuano poi, ramificati e vivaci, anche a libro chiuso. Dove vorresti arrivare, con quelli? Hai stretto più legami con la fantasia, oppure coi piedi ben piantati al suolo, coi passi curiosi ma essenziali e misurati?

Come ti dicevo all’inizio, per me il pensiero è parte integrante della mia quotidianità. Ci sono certe occasioni in cui mi dico che dovrei pensare meno e agire di più, ma posso dirmi abbastanza soddisfatta della quantità di pensiero che metto in ogni azione che faccio. Penso che prima di raggiungere qualsiasi meta con i propri piedi, sia necessario farlo con la propria mente. Se puoi immaginarlo, puoi farlo. Le mie riflessioni mi portano spesso molto lontano, a volte anche fuori dalla realtà, ma al tempo stesso mi tengono con i piedi per terra. Insomma, non è che prendo e vado, ecco. Esamino prima i pro e i contro, ragiono, calcolo, ma poi aggiungo sempre quel pizzico di pazzia ed imprevedibilità che rende tutto più magico. I miei passi, hai detto bene, li definisco curiosi e misurati, perché so dove voglio andare, ma so anche dove posso andare. E non sempre i due verbi coincidono. Poi, come dico spesso, le sorprese arrivano quando meno te lo aspetti. E lì non c’è bisogno di alcuna razionalità, le cogli al balzo e le vivi in tutta la loro novità. Per i legami, invece, non viaggio quasi mai di fantasia. Tendo a tenermi sulla difensiva, a rafforzarli giorno dopo giorno e ad osservare attentamente il comportamento dell’altro.

Chi ha detto che le persone non si finiscono mai di conoscere, ha tutta la mia ragione. Perciò non c’è spazio per la fantasia, ma solo per gesti concreti, pensieri che trasmettono fiducia e legami basati sulla conoscenza profonda l’uno dell’altro. Valgono le esperienze vissute insieme, i momenti di difficoltà che si sono superati insieme, valgono gli interessi e i valori comuni. Bisogna andarci piano prima di parlare di Amicizia, di affetto o di Amore. Che quando inizi a voler bene, poi fai fatica a smettere. Un po’ come le sigarette.

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3 Commenti

  1. Più di 40 anni fà : ” Caduta dei tessuti connettivi ed emarginazione… ” tra gli altri Egle Becchi.

  2. Se si parte dal lemma persona…..’origini pofonde da ricondurre alla maschera del teatro…..’
    Iniziando con ordine ‘persona’ viene da iper sonare e cioé utilizzando come amplificatore dl suono la maschera utilizzata nel teatro…Ergo ‘persona’ si individuava per…..si distaccava….Un attacco siffatto sarebbe servito a….

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mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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