La linea automatica produce trecento piani cucina
di Francesco Terzago
La linea automatica produce trecento piani cucina
al giorno, ogni giorno, senza sosta. Ventiquattro ore
su ventiquattro. Trecentosessantacinque giorni
all’anno (o trecentosessantasei, se necessario) – le lastre
di pietra da tre-quattrocento chilogrammi sono mosse
dai bracci meccanici con la stessa semplicità
con la quale io posso sollevare un giornale
o una corteccia di betulla e usarla come
un ventaglio; il foro dove sarà ospitato il lavello
è ricavato con un getto largo come uno spillo,
un getto d’acqua ad alta pressione
e graniglia: sabbia né troppo sottile, né troppo spessa,
quella che ho davanti a me è rossa
come un tramonto sulle Azzorre. La provenienza
è incerta: l’universo – almeno quello, il letto
di un fiume immobile. La sabbia si origina per la frizione
tra ghiaccio e pietra e onde, e rocce su rocce,
le mani di qualche divinità senza nome che si sfregano
a vicenda; catene montuose, lineamenti del tutto scomparsi
i cui brandelli ricuciti senza ordine danno
qualche remoto fondovalle alpino invaso dal caprifoglio,
dai laterizi e da quei turisti che amano camminare
per tutto il giorno e intravedere il balzo delle trote,
la stasi dei tritoni, infine le libellule molto aggressive.
*
Il mese scorso siamo stati in un altro paese
e il prossimo ci torneremo per installare
un ulteriore impianto; poi diventeranno
tre, quattro, solo nell’arco di un trimestre.
Se questo è l’indirizzo del mercato ogni
giacimento disporrà delle nostre attrezzature,
granito o legno fossile non fa alcuna differenza.
Al centro di un fegato di chiome nere
c’è l’altopiano, nel mezzo poi una radura
con erba dolce e acqua che si muove
gialla come burro. Lo scenario è suddiviso
da segni di nuda terra, strisce rosse
come carta abrasiva che si intrecciano
quando le si vede dall’alto: sono le cave.
Avrebbero voluto scendere sempre più giù,
nella roccia, i nostri clienti, rimuovere
metri cubi e metri cubi di materiale,
interrompere la continuità con la dinamite,
estendere il varco con il filo diamantato.
Sapevamo questo. Ed è questo che abbiamo
creduto che stessero facendo quando non abbiamo
più ricevuto le loro telefonate. Non una richiesta
di intervento, nemmeno più i video o le fotografie
dei matrimoni dei dipendenti; l’altare di plastica
giallo e lucido eretto nel capannone con le offerte
di riso e i pomelo, il dio guerriero ha le sembianze
di un personaggio dei videogiochi; le immagini
dei figli, bambini grandi come una mano aperta
davanti a una finestra coperta dalle rane di cera;
della mensa, delle partite a badminton, degli utensili
da taglio arrivati lì, con il corriere, da un continente
diverso. Forse ci ricontatteranno quando lo scavo
avrà raggiunto la giusta quota e se, nel frattempo,
non si saranno persi nel buio. A quel punto
spetterà a noi raggiungere il fondo del catino
scendendo con i verricelli, laggiù il cielo
è un asterisco e le pareti sono lucide
come vetro meteoritico o la gola di un vitello.
Da quel punto inizierà la nostra, di ascesa,
piano dopo piano per i trenta complessivi
della struttura d’acciaio zincato che sarà nostro
compito installare. Su ogni piano disporremo
le cremagliere – l’una sull’altra con quattro metri
a separarle. Infine i robot faranno avanti
e indietro su di esse. Mentre gli uccelli
insediati e le volpi volanti, a poca distanza,
copriranno con i loro versi il fischio delle fresatrici
assicurate al polso degli stessi robot. Così si scolpirà
il Buddha con gli occhi chiusi e la pietra
polverizzata precipiterà giù, nel ruscellamento
inesauribile della pioggia e della falda mischiandosi
al guano, ai minerali, e ai residui della papaia,
dei frutti stella, e dei dispersi. Oltre cento metri di Buddha
con gli occhi chiusi. Quando e se sarà ultimato, il colosso,
potrà essere visibile solo a poche decine di persone
all’anno, chi giungerà in quel punto
su espresso invito di un ministro. Attorno
alla voragine erigeranno una palizzata
mentre, le fessure tra i tronchi, saranno chiuse
con fango rosso e foglie di banano ancora verdi.
*
Abbiamo già percorso settanta chilometri
e ancora non sappiamo dove comparirà
una luce naturale; le nuvole sono una caverna
di ghiaccio sporco; una struttura mobile
dove, tra alcune ore, si registrerà
la fosforescenza che non dà ombre;
forse, avrà smesso di piovere. Pare
che siano freddi chicchi d’uva, quelli
che raggiungono il tetto del furgone,
che si schiantano sui vetri; infinite
frasi d’amore in morse sarebbero distinguibili
se solo disponessimo della potenza di calcolo
sufficiente, quella delle nostre macchine;
ridiamo delle disavventure di uno di noi tre
e parliamo della ragazza di un conoscente
che abbiamo in comune, lei si sta impratichendo:
spende le domeniche di novembre
senza guadagnare niente. Glieli portano
in tarda mattinata o nel pomeriggio
prima che il sole sia percorso da crepe
come un uovo precipitato – anche tre
o quattro in un giorno. Lei farebbe di tutto
per ricomporli, affinché, nello spazio da cui
se ne sono andati, tornino gli organi avvolti
in uno straccio rischiarato dalla lampada
scialitica. Si stringono i nodi per rimediare
alla deriva del derma e dell’anima,
poi si pulisce il banco dal sangue chiaro.
La ricompensa è fumarsi una sigaretta,
riempirsi le narici di osmanto senza
accorgersene. Guardare le tapparelle
abbassate dell’asilo. I cani da caccia
non retrocedono mai così, i cinghiali,
con le loro zanne, li lanciano per aria
come cuscini rossi. La schiena fa male
quando si consumano le ore su questi sedili ma
c’è l’antidolorifico in busta. Le strade
che percorriamo hanno origine latina
o precedente. Il cemento armato poggia
su ostie di granito trascinato sino a qui,
in epoche irriconoscibili. Non c’è tempo
per un caffè alla stazione di servizio,
alle otto di mattina dovremmo essere
nel punto in cui convergono, davanti ai cancelli,
gli autotreni e, grazie a loro, i nostri robot. Abbiamo
lasciato le nostre case quando era buio, sarà buio
quando ritorneremo e questo ci darà la sensazione
che sia stato tutto un sogno ad occhi aperti.
*
Il numero degli addetti dovrà crescere
per dare assistenza continua ai nostri clienti
distribuiti in oltre ottanta paesi, con linee
di produzione che non devono mai arrestarsi.
Dovremo essere a disposizione
in ogni momento. Con la luce, con il buio.
Fine-settimana inclusi. Potrebbero raggiungere
l’ufficio, gli incaricati, con turni mobili. Entrando
– giorno dopo giorno – con due ore di scarto
(e lo stesso varrebbe per l’uscire, è chiaro).
Si dovrebbero considerare analoghe modalità
per il riposo settimanale, una sequenza: domenica,
lunedì, martedì (e così via). L’eterogeneità delle
celebrazioni globali non consentirebbe soste
natalizie o per il giorno dei morti. Le ferie, tuttavia,
se concordate in largo anticipo, riceverebbero
l’incoraggiamento dalla proprietà. Si eviterebbero,
in questo modo, gli accumuli e le complicanze
che ne derivano. Il consiglio, vivissimo,
sarebbe quello di rimanere a casa. O, tuttalpiù,
raggiungere, per brevi soggiorni, località attigue
al domicilio (l’Italia è così ricca di scorci
che gli stranieri ci invidiano); una città d’arte,
un rifugio alpino o pelagico – trascorrere il proprio
tempo sul divano va pure bene. Guardare la TV,
corse di moto e automobili e sport esotici che noi
stessi abbiamo praticato fino alla maggiore età.
Una breve nuotata gioverebbe, se la superficie
del mare è chetata dalla stessa brezza
che lenisce il dolore alle tempie o,
perché no, una passeggiata quando il sole
non scotta; tra pini e castagni raccogliere
quelle tre varietà di funghi che conoscono
tutti quanti. Concedersi tepidari; cercare asparagi
selvatici e staccare, dagli alberi, i frutti
non ancora maturi. Di anno in anno, chi ha
un po’ di terra, potrebbe sostituire gli sbarramenti
di biancospino con nuove varietà di melo,
gruppi di piante stolide. Le api, e gli altri insetti,
andrebbero, così, a radunarsi altrove e il margine
interpoderale sparirebbe dalla morfologia
(non dal catasto) e così ogni intralcio
per i tosaerba automatici a guida satellitare.
E persino i vicini potrebbero prendere
la strada più breve, una linea retta, dalla loro
alla nostra abitazione passando per i campi
se l’allarme suona e noi siamo in trasferta.
*
Francesco Terzago (1986) ha pubblicato Caratteri (2016, autoproduzione) raccolta di poesie finalista al Premio Villalta Giovani 2017 e progetto di mail art. I suoi versi sono presenti in: Nuovi Argomenti, Smerilliana, Italian Poetry Review, e ClanDestino. Ha scritto di poesia di strada estreet art per Boll ‘900. Fa parte del collettivo Mitilanti della Spezia e del comitato di ricerca sulla creatività urbana Inopinatum. Collabora con Argo – di cui è responsabile creativo per l’Annuario di poesia e del sito poesiadelnostrotempo.it. Con Galerie21 ha scritto di artisti come CCH ed Elio Marchegiani. Su atelierpoesia.it sono disponibili alcune sue traduzioni, dal cinese, delle poesie di Ren Hang. È presente in varie antologie, ultima delle quali è Voci di oggi, Istos. Ha pubblicato tre racconti fotografici: Euridice, su leparoleelecose.it; La mobilità del marmo, In Pensiero e, con il fotografo Jacopo Benassi, Anche loro sono riders, Riders.
Il suo sito è francescoterzago.it
complimenti a francesco, belle parole e belle immagini