Parole e basalti

di Romano A. Fiocchi

Ezio SinigagliaEclissi, Nutrimenti, 2016.

Ci sono libri che si legano reciprocamente attraverso un’immagine:

1) “Passarono alcuni minuti prima che qualcuno accorresse in aiuto dell’uomo che si era accasciato su un lato della poltrona”

2) “Lo trovarono così, aggrappato a se stesso come una roccia, qualche minuto dopo che la luce era tornata sul mondo, e che gli uccelli avevano ripreso a gracchiare e a cantare”.

Si tratta di due finali, la descrizione dell’avvenuta morte dei due rispettivi protagonisti. Il primo, memorabile perché ormai cristallizzato nella categoria dei classici. Il secondo, di pari bellezza, memorabile per quei pochi che hanno avuto la fortuna di leggerlo e di poterlo così associare al primo. Titoli e autori: Morte a Venezia di Thomas Mann ed Eclissi di Ezio Sinigaglia. Il Gustav Aschenbach di Thomas Mann muore così, contemplando la bellezza di Tadzio. L’Eugenio Akron di Sinigaglia, trovando la risposta alla domanda che lo assilla da cinquantun anni e due mesi.

Ma al di là di questa analogia, ad accostare i due testi è un insieme di fattori: la compostezza e l’eleganza stilistica, il fluire lento del ritmo narrativo, la solitudine interiore dei protagonisti, la lettura attenta e indagatrice dell’ambiente circostante, la capacità, infine, di creare un racconto dall’azione quasi nulla ma di straordinaria atmosfera.

Torniamo alla morte di Akron, immagine potente che da sola merita la lettura di tutto quanto la precede. L’architetto triestino Eugenio Akron muore nel buio, nel silenzio dell’eclissi, nella consapevolezza di farsi “un duro, muto, ottuso basalto”, di impietrirsi nell’attesa dell’ultimo istante. Nelle battute che precedono il momento finale la voce narrante inocula il sospetto che possa accadere qualcosa di improvviso, che Akron possa inciampare sul castello di poppa del peschereccio e cadere accidentalmente in mare, estinguendo finalmente l’antico rimorso in quel morire annegato come l’amico Beniamino. Invece Sinigaglia opta per una soluzione tutt’altro che eclatante: Akron se ne va seduto su uno sgabello, con una compostezza appena appena disturbata da “quel morso di belva nel petto”, si piega in avanti, si aggrappa a se stesso come una roccia, e si impietrisce nell’attesa del momento supremo quasi fosse una nuova eclissi – dopo aver colto la luce nell’oscurità dell’eclissi in corso.

A fare da contrasto alla staticità della scena è la figura di Mrs Clara Wilson, ottantenne ed eccentrica vedova americana, con le sue iridi d’erba che si riempiono di lacrime alla vista dell’immobilità innaturale di Akron. Mrs Wilson è un personaggio singolare, pedante e nel contempo poetico, e un inconsapevole deus ex machina in grado di dare una svolta al dramma interiore di Akron. Ma soprattutto è il personaggio che permette a Sinigaglia lo strano gioco linguistico del dialogo tra i due, con Akron che parla in inglese e Mrs Wilson che risponde in italiano. Un italiano anglicizzato, pretesto per giochi di parole e ironie di pronuncia. Gioco linguistico anche le battute in dialetto triestino che Akron scambia al telefono con il figlio, e quelle che tornano nei ricordi della sua amicizia con Beniamino, nei loro incontri sulle banchine del Porto Vecchio, nelle uscite in barca a vela, nell’osservare il cielo notturno sopra Trieste. Non sembra, ma queste incursioni in altri moduli linguistici alleggeriscono i dialoghi e li arricchiscono di immagini vivaci e di musicalità. C’è tutto il gusto di Sinigaglia per la parola, per il rapporto significante-significato, per le corrispondenze nascoste, come i diminutivi Ben e Eu (Beniamino e Eugenio) con cui i due amici rincorrono “attraverso la fausta parentela dei significati un arcano vincolo di sangue o un destino gemellare”. Infine il gusto per il suono della voce umana, da qualsiasi parte del mondo provenga.

Ma veniamo all’ambientazione. L’intera vicenda si svolge in una sconosciuta isola nordica, “latitudine sessantadue gradi dieci primi Nord, longitudine pochi gradi meno di zero”. Toponimi e nomi di monumenti possono essere danesi norvegesi svedesi (Mikkelkirke, Storbygd, Nykonnergily) ma non esistono. Eppure tutto è di una concretezza e di una solidità tridimensionali, come la descrizione del paesaggio:

“I basalti emersero nudi e crudi in tutta la loro bellezza. Visti da lontano apparivano lisci, come immensi animali di favola, più grandi e possenti del più gigantesco titano, che dormissero torpidi e sazi, con la pelle ben tesa, solo punteggiata di pori e solcata di rughe sottili, il muso puntato all’oceano, stirandosi inerti nel piacere inatteso del sole. Ora invece, venendo incontro alla prua a pochi metri dagli occhi, mettevano in mostra la trama variegata e complessa della loro primordiale tessitura: quella levigatezza apparente era fatta punto per punto di grumi, di nodi, di buchi, di dolci fossette che sembravano scavate da un dito e di cavità più profonde che aprivano squarci nella materia e rami di vuoto nel pieno”.

Già, i neri basalti. Sono il leitmotiv di tutto il libro. Non solo, sono metafora della scrittura di Sinigaglia. Anch’essa “levigatezza apparente” ma in realtà scrittura granitica, incisa nel nero basalto. Una scrittura dove forma e sostanza si fanno un’unica materia che non si può plasmare ma solo scolpire. Appunto come il basalto. Una scrittura elegante e carica di energia. Mi si consenta di parafrasare De Sanctis: la grande maniera di Sinigaglia.

E qui tocchiamo un tasto che lascia perplessi. Più sopra ho parlato di “quei pochi che hanno avuto la fortuna di leggerlo” perché Sinigaglia, forse per la sua riservatezza e il suo essere controcorrente, è autore misconosciuto. Il suo esordio letterario risale a oltre trent’anni fa con Il Pantarei, una sorta di metaromanzo sul romanzo del Novecento. Il testo, dopo aver collezionato decine e decine di rifiuti, uscì nel 1985 per una piccola casa editrice di Milano, SPS, poi Sapiens. Qualche apprezzamento, quindi più nulla. Sinigaglia ha continuato a scrivere e a svolgere varie attività nell’ambito editoriale e educativo senza più pubblicare un solo volume. L’uscita di Eclissi per l’autorevole editore Nutrimenti l’ha riportato alla ribalta, tant’è che Il Pantarei verrà ripubblicato da TerraRossa Edizioni nei primi mesi del 2019 (Nazione Indiana ne parla qui). Non so se servirà a rilanciare la figura di questo straordinario scrittore, ormai settantenne, ma so che tra gli scaffali della mia libreria il suo nuovo Pantarei ha già uno spazio riservato.

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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