Do you remember Praga? Jan Němec
L’invasione di Praga, un regista coraggioso e la staffetta italiana
21.08.1968 / 21.08.2018
Nota di Alessandro De Vito
Non desta grande sorpresa che il cinquantesimo anniversario dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che fece schiantare contro il muso dei carrarmati la Primavera di Praga, non sia stato ricordato quasi per nulla sulla stampa italiana, a differenza di molti altri paesi europei. Probabilmente il rumore di fondo del chiacchiericcio social e la politica a colpi di tweet a torso nudo fa sembrare remoto anche un evento di soli sei mesi fa (e questo “attualismo” di brevissimo respiro è forse un problema serissimo del nostro tempo).
Allo stesso tempo, in Repubblica Ceca infuriano le polemiche per gli atteggiamenti “filorussi” del vecchio presidente socialdemocratico (postcomunista) Zeman, che ha glissato sulla ricorrenza, e negli ultimi mesi ha consentito il rientro al governo per la prima volta dopo l’89 di un partito dichiaratamente comunista.
Il Novecento non è sepolto e la Storia non è affatto finita, come teorizzava qualcuno dopo l’89. E anche i fatti di Praga del ’68, dall’esperimento dubčekiano del “Socialismo dal volto umano” alla sua repressione militare da parte dei “popoli fratelli”, solo apparentemente si possono derubricare a evento secondario di un secolo definitivamente chiuso, di cui a stento le nuove generazioni potranno capire la grammatica delle idee e delle passioni pubbliche.
E se allora fosse andata diversamente, se la Primavera avesse vinto e avesse contagiato tutto il “campo socialista”? Come sarebbe cambiata la storia dell’Europa, e della Sinistra, fino al presente che viviamo, con un ’89 anticipato di vent’anni?
A 50 anni da allora, a quasi 30 dalla caduta del Muro di Berlino, e nel pieno di una situazione socio-politica instabile che spesso fa rivivere i fantasmi del passato, fa un certo effetto il racconto di quella giornata, da testimone e protagonista, dell’estroso regista ceco Jan Němec. Fu l’unico a riuscire a girare immagini dell’invasione, e riuscì rocambolescamente a portarle in occidente il giorno stesso, a Vienna, con l’aiuto di un italiano e della sua bella fidanzata ceca. Perché la passione totale per l’arte può essere unita a quella per la libertà, e in fondo per le donne, per la vita, con un mettersi in gioco (e in pericolo) di persona che spesso oggi manca.
Per cosa, e come, lottiamo, se lottiamo?
La staffetta italiana
da Volevo uccidere J.-L. Godard
di
Jan Němec
(traduzione dal ceco di Alessandro De Vito)
Il 21 agosto 1968, dalla notte all’alba, e fino a giorno, ha sorpreso ciascuno di noi in modo diverso. Il folklore letterario riporta che un amico bussò alla porta del celebre scrittore Milan K. in quel giorno fatale, urlando: « Milan, perdio, alzati, svegliati! », e lo scrittore di fama mondiale nonché erotomane gridò dal letto, dove non era solo: « Che cazzo ti viene in mente di svegliarmi così presto? ». « Milan, non fare lo stupido, – continuò l’amico, disperato – alzati, scappa! Le strade sono piene di carrarmati russi! » A queste parole Milan, sollevato, rispose con allegria dall’interno della sua garçonnière: « Ah, allora tutto a posto, va tutto bene. Pensavo fosse mia moglie… ».
Questo almeno è quanto riportano i pettegolezzi dei bassifondi letterari.
Stendhal, e dopo di lui Mario Puzo nel romanzo Il padrino, hanno detto che ogni buona storia comincia con un delitto. Io ci vedo, invece, un nesso diverso: la donna è stata, è e sarà sempre sullo sfondo della maggior parte dei momenti topici della storia. Eva, per esempio. È lei che ha sedotto il serpente, la storiella della mela è un’idiozia. Secondo me Adamo si è messo d’accordo con il Signore per gelosia, non poteva tollerare la concorrenza, il gelosone, e da allora tutti ci troviamo a strisciare nella polvere terrena. Oppure prendiamo Leoš Janaček: andò così a lungo a passeggio per parchi con l’oggetto del suo desiderio sentimentale e sensuale, finché non si prese un raffreddore e morì, senza poter finire di comporre la parte seconda della Sinfonietta.
Ma la vera eroina della storia è Jana, una ragazza molto cool. È un’eroina, perché ha trasformato in eroe il suo amante e successivamente marito, un alto italiano dai capelli neri di nome Enrico. La ammiravamo tutti, Jana, e tutti eravamo innamorati di lei. In confronto a lei, Brigitte Bardot era uno straccio di donna… La stessa statura, labbra sensuali e un viso meraviglioso, ma in più un’intelligenza e uno spirito fuori dal comune. L’amante di Jana, e suo futuro marito, giocò il ruolo chiave di “ staffetta italiana ”, grazie alla quale la Cecoslovacchia dopo il 21 agosto 1968 non fu annientata in un lampo. Degli italiani si dice che sono belli, maschi, amanti del vino e delle donne, e da un altro punto di vista su di loro domina il pregiudizio che non siano per nulla eroici, anzi, un po’ vigliacchi.
Il nostro eroe, Enrico, era un collaboratore di Petrarca, un funzionario all’Ambasciata italiana a Praga.
Il 21 agosto 1968, verso le tre del mattino, il mio assistente Petr mi svegliò, annunciandomi seccamente che i carrarmati sovietici si stavano dirigendo dall’aeroporto di Ruzyně verso il centro di Praga. Immediatamente misi in moto la mia cabriolet Fiat 850, carrozzeria Bertone, strappai la nostra bandiera dalla recinzione e mi avviai incontro agli intrusi. Si stavano avvicinando alla cosiddetta piazza Rotonda, a Dejvice.
Per un momento la mia piccola Fiat tagliò la strada ai tank, poi realizzai che di lei, e di me al suo interno, nel giro di poco non sarebbe restato che un po’ di lamiera e una macchia a imbrattare il selciato. Fatta eccezione per la bandiera cecoslovacca. Feci inversione, e per tutte le strade che percorrevo urlavo: « Sveglia gente! Son qua i russi! ».
« Stupido ubriacone, va’ a dormire! » rispondevano i cittadini svegliati. Nessuno mi credeva, e così Praga, intorno alle dieci del mattino del 21 agosto, venne occupata in modo definitivo.
Davanti al palazzo della radio, dove era cominciata l’insurrezione contro i nazisti nel maggio ’45, si era radunata una folla sterminata. La gente lo difendeva con il proprio corpo dai tank e dai soldati sovietici, che si diceva sparassero solo alle finestre, ma intanto uccisero dei civili disarmati – una scarica colpì direttamente in faccia un assistente cameraman. Nessuno di noi, davanti alla radio, aveva armi.
Molto velocemente riuscii a mettere insieme una piccola troupe cinematografica, per filmare l’eroico glorioso giorno della collaborazione internazionale tra cinque stati del Patto di Varsavia. L’obiettivo della cinepresa può essere una piccola mitragliatrice, o cannone, e la verità, impressa sulla pellicola, può avere una forza, difensiva o offensiva, maggiore dei proiettili. Non a caso, qui da noi in America, usiamo la stessa parola per “ sparare ” e “ girare ”: shoot!
Nella mia borsa avevo 23 minuti su negativo del fraterno aiuto sovietico. Alle due del pomeriggio del 21 agosto 1968 si pose la maledetta domanda del buon Jan Neruda: dove portarlo[1]? Non potevo certo supporre che il maresciallo Grečko e i suoi invasori, per quel materiale, mi avrebbero insignito del premio Stalin. Quella testimonianza poteva avere solo un senso: portare l’informazione nella parte del globo ancora libera.
Ma come fare a portare fuori il negativo?
Donna, sopra ogni cosa bella e intelligente, sempre sia lodato il tuo nome, Mamma mia, Gelsomina morta. Mi ricordai di Jana e del suo prestante Enrico. Telefonarono a Petrarca, impiegato dell’Ambasciata italiana, che gli diede un’informazione importantissima: la frontiera, per uscire, fino a quel momento era ancora aperta. Per gli stranieri. Diversi italiani erano già passati.
La mia piccola cabriolet Fiat bianca italiana, carrozzeria Bertone, mi catapultò immediatamente nel nido d’amore di Jana ed Enrico. Il negativo, con quei 23 minuti di invasione sovietica, era in una borsa sportiva sporca. Enrico, innamorato pazzo, ma anche addestrato alla diplomazia – suo padre era stato ambasciatore italiano a Praga, motivo per cui era riuscito a far cadere nelle sue grinfie l’adorata Jana, sottraendola a noi tutti – quell’Enrico sul momento si rifiutò di portare fuori dal Paese il negativo simulando una missione diplomatica. Jana prese a urlargli contro: « Tu, vigliacco! A te quei maledetti russi non faranno niente! ». Enrico non si lasciò smuovere dal temperamento slavo, né si lasciò commuovere dal torto che ci era stato fatto. Forse ricordava l’insegnamento della storia: quando i soldati italiani avevano massacrato gli Abissini, il mondo non aveva fatto più di uno sbadiglio. « Non pretendete da me azioni eroiche, quando si usa la forza e durante un’invasione militare sono proprio i diplomatici a destare sospetti. Non voglio morire, sconosciuto eroe italiano, schiacciato da un carrarmato sovietico in una terra di cui, a parte Jana, non mi importa nulla ». Povero piccolo, mi sono detto. Un tipico italiano. Molto rumore e smanie dietro le gonne delle donne, e quando il gioco si fa duro, la tremarella. Gli ricordai subito il popolare libro per ragazzi Cuore, di Edmondo De Amicis. Storie eroiche e patriottiche di giovani ragazzi italiani che hanno sacrificato la vita per la loro patria. Mi misi quasi a piangere, raccontando una storia dopo l’altra, mentre continuavo a sbirciare l’orologio calcolando il tempo necessario per raggiungere in auto la frontiera tra Cecoslovacchia e Austria, dove era ancora consentito il libero transito per gli Italiani.
« Sei un uomo, Enrico, bello, alto, seducente e anche coraggioso. Ricordi? Hai recitato brillantemente un episodio nel mio film La collana della malinconia, con una coppa di champagne in mano mentre Marta Kubišová canta quella canzone straziante, Una lampada solo per te. Allora, mi presti il tuo passaporto, così posso uscire e consegnare al mondo il film? » gli gridai.
Jana lo abbracciò, e pronunciò le parole della madre nell’omonima commedia di Čapek: « Devi, caro! ».
In quel momento per noi luttuoso saltò fuori lo spirito da operetta di Enrico. Cominciò a macchinare. Al passaporto non volle rinunciare, ma come documento italiano mi propose il suo libretto militare. Lo accettai con grande piacere. La fotografia dell’alto e bell’italiano corrispondeva meravigliosamente alla mia faccia, pallida come una ricotta. L’abbraccio appassionato di Jana aveva infervorato Enrico; propose che se Jana fosse venuta con lui in quella missione mortale, a me avrebbe fatto guidare la sua auto, con targa di Roma, e lui si sarebbe seduto al volante della mia piccola Fiat. Insieme avremmo provato ad aprirci una strada tra le colonne sovietiche fino alla frontiera austriaca. Dovevamo spacciarci per tre italiani: ci avevano rubato la macchina compresi i due passaporti, e con quell’auto presa in prestito volevamo solo tornare a casa in Italia, non ci interessava altro.
La borsa col negativo era buttata nel bagagliaio della loro auto, sommersa di cianfrusaglie. E così ci mettemmo in marcia. Vorrei augurare questa esperienza a tutti gli amanti dei libri e dei film di fantascienza. Immaginate l’invasione di centinaia di migliaia di cavallette. Una terra presa d’assalto da milioni di api oscene. Strade, stradine, incroci, svincoli, paesini e cittadine traboccavano di maledetti russi. Erano ovunque.
Recitare la parte degli italiani impauriti funzionò a meraviglia. In principio al posto di guardia i sovietici non vollero lasciarci andare, e cacciarono le nostre auto in un campo. Dapprima Jana, italiana isterica, le tette che così per caso quasi uscivano dalla camicetta, si mise a piangere, chiamando la sua mamma italiana lontana. Enrico gridava lamentoso in corretto italiano, lingua di cui io conosco solo i titoli e alcune frasi dei più famosi film, che mi si sono fissati nella memoria. Ve la immaginate la scena? Nella terra di nessuno – nowhere – nei campi accanto alla strada per la frontiera austriaca, tra migliaia di calmucchi sovietici, ci sono due Fiat abbandonate e tre italiani impauriti che vagano per i prati piangendo. Piagnucolano, e per carità vogliono solo pregare: Mamma mia, Madonna mia, Roma città aperta, Gelsomina è morta, La dolce vita, Federico Fellini, La notte, Arrivato Zampanò, La strada…
Gli ufficiali sovietici avevano l’ordine rigoroso di non sparare agli stranieri, e di impedire ai loro soldati di violentare le donne cecoslovacche. E così la nostra interpretazione a braccio riuscì a raggiungere il suo scopo. Sul finire del giorno giungemmo al confine.
I carrarmati erano fermi nel crepuscolo, le formalità di frontiera le svolgevano le guardie cecoslovacche. Tutti costoro, un giorno, meriterebbero un riconoscimento. In America esiste un ordine che si chiama Purple Heart, e viene assegnato per il coraggio dimostrato nel salvare il prossimo sotto il fuoco nemico. In quell’occasione i russi non sparavano, è vero, ma avrebbero potuto farlo in ogni momento, e in quella situazione i nostri doganieri, ufficiali e soldati di frontiera permisero a molti cittadini di uscire dal Paese, con documenti di ogni genere. La sera del 21 agosto 1968, giorno funesto, li lasciarono uscire da un inferno che sarebbe durato molti anni.
Davanti ai nostri, non fu necessario che noi tre recitassimo la parte dei falsi italiani. Entrambe le auto passarono liberamente, e mentre diventava completamente scuro e guardavo il profilo degli scellerati tank sovietici, salutai con la mano una delle guardie di frontiera cecoslovacche, che un tempo, durante la Primavera praghese del ’68, aveva creduto come noi tutti a quell’assurdità del socialismo dal volto umano. O forse in qualcos’altro, quello che avrebbe potuto essere la Primavera di Praga anche sotto le torrette dei carrarmati o sotto il tiro delle mitragliatrici. Lascia andare la mia gente: Let my people go.
Quella notte stessa il negativo del film fu sviluppato alla televisione austriaca, montato, commentato e firmato da me, e dalla mattina del 22 agosto cominciò a essere trasmesso ovunque e a circolare incessantemente rimbalzando da un satellite all’altro. La propaganda sovietica aveva già pronti filmati in innumerevoli versioni, cinematografiche e televisive. La più ridicola era stata fatta con riprese del maggio ’45, quando i carrarmati sovietici erano stati accolti con i fiori. Una seconda, molto più pericolosa, mostrava una messinscena di assalti armati contro l’esercito sovietico.
La verità l’ha potuta vedere tutto il mondo sugli schermi televisivi il 22 agosto: la prepotenza dei sovietici, la protesta non violenta di milioni di cittadini sgomenti, gli spari sui civili. Poteva finire in un massacro, chi può dirlo?, come in Ungheria nel ’56. Allora la televisione non aveva ancora quella forza. È possibile che dopo la diffusione del filmato i sovietici abbiano dovuto cambiare un po’ i loro piani, la loro strategia. Chissà se questo è un ragionamento sensato o no. Ma se lo è, tutto parte dal fatto che nella nostra bella terra che abbonda di latte e miele nasceranno sempre le più belle ragazze del mondo, che nelle circostanze più critiche riescono a convincere quel tal loro ignavo italiano a rischiare la vita, per far sì che la verità impressa su pellicola possa venire alla luce, impedendo ai barbari ulteriori e peggiori massacri.
[1] Letteralmente “ Dove con lui? ”, dal titolo di un celebre feuilleton dello scrittore Jan Neruda, Kam s ním?, uscito a puntate negli anni Ottanta del xix secolo, e portato sul grande schermo nel 1922.