“Il modo in cui noi morti ci scriviamo”. Su Jack Spicer
Non doveva essere male fare il poeta a San Francisco tra la fine degli anni 50 e i primi 60.
A farmelo pensare è Jack Spicer (1925-1965) perché è uscita la prima traduzione italiana integrale del suo primo libro, del 1957: After Lorca. Con un’introduzione di Federico García Lorca, a cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini, traduzione e note di Andrea Franzoni, postfazione di Peter Gizzi, edizioni Gwynplaine e NieWiem.
After Lorca è un libro famoso per la sua natura di dialogo con un poeta morto da più di vent’anni e per diversi altri elementi che lo staccano dalle scritture più tradizionali: usando come cellula generativa la presa in giro di quella strana forma standard della poesia di oggi che è la Timida-Raccolta-del-Poeta-Esordiente corredata di Bonaria-Prefazione-del-Poeta-Affermato (in questo caso, un García Lorca palesemente seccato che gli si venga a rompere i coglioni anche nella bara), vi si alternano traduzioni vere e false (poesie di Spicer travestite), prose teoriche (lettere al poeta spagnolo, stillanti amore), trascrizioni di sedute spiritiche (l’introduzione) e infine (mi pare che questo elemento non venga ricordato spesso, non so perché) delle divertenti scenette teatrali fra l’assurdo e il surrealista che hanno per protagonista un Buster Keaton in grossa difficoltà con persone, oggetti, apparizioni divine, elementi naturali e chi più ne ha più ne metta, in un mondo decisamente complicato. Di queste pagine mi sono chiesto se Beckett le conoscesse; Film è del ’65, non mi sembra inverosimile.
Le biografie di Spicer ricordano che era stato amico di Philip K. Dick, frequentatore del suo gruppo di poeti; e sarebbe in origine di Spicer l’idea, che poi diventa centrale anche in Dick, della parola che non è “nostra” ma giunge invece come comunicazione da un altrove, come una trasmissione radio o un dialogo tra vivi e morti e fra tempi e spazi. È questo uno dei temi di fondo di After Lorca.
Dunque ho pensato che doveva essere bello fare il poeta a San Francisco se allora la poesia era ciò che dovrebbe essere: una punta di lancia che taglia in mille pezzi i veli del cosiddetto reale e dissemina il mondo di mille modi possibili per fare le cose, al servizio delle altre arti e di tutti gli esseri umani. Che bello doveva essere, allora, che ci fossero lettori in grado di interessarsi a questo, di capire che è importante.
Forse era ingenuo Spicer a pensare che ci fosse qualcuno che lo stava a sentire; ma io voglio esserlo ancora di più perché leggendolo molti nomi mi sono apparsi a lui legati, tutti come lui intenti a scrivere (a trasmettere) l’unica poesia universale, la miriade. Dunque adesso li elenco perché la rete di associazioni che leggere After Lorca ha generato mi ha fatto sentire un po’ meno solo, e questo adesso è molto.
1. Senza saperlo vi ero stato preparato da studente leggendo lo haiku famoso di Matsuo Bashō, quello del ranocchio che balza nello stagno, e oggi incontro questa poesia che si intitola appunto “Rana” e dove l’acqua viene capovolta in fuoco:
[…]
Ricorda
Che neri erano quei pini che bruciò il fuoco.
Tutta quella foresta nera. E il rumore
(Splash)
Di un singolo aculeo verde.
2. “Nazione Indiana” ha pubblicato un’intervista a Nathalie Quintane, che nel 2006 aveva introdotto le poesie complete tradotte da Éric Suchère. Proprio grazie a Éric avevo letto Spicer per la prima volta, senza capirci granché; e in questa intervista molto giustamente, molto acutamente Nathalie collega Spicer alla prima, la più anticipatrice, delle antenne radio del 900: il mio amatissimo Gérard de Nerval. Sì, proprio così: Baudelaire è un faro ma Nerval è una trasmittente. Meglio Nerval, no?
3. Poco tempo fa è uscita una bella antologia di Franco Beltrametti e in una poesia mi ha incuriosito trovare citato Spicer:
(e) un aldilà di questo (fichidindia
mandorli grandine muri siepi
(Jack Spicer Lew Welch e gli altri
(non c’è – spazio denso di cose: fatti
La poesia è datata 5 aprile 1970. Non conosco bene la biografia di Beltrametti, ma so che era stato in California e per quanto improbabile ho proprio voglia di pensare che potrebbe essere stato l’unico poeta italiano (o di lingua italiana, non mi interessano i passaporti) ad avere conosciuto Spicer di persona. Quasi certo, invece, che sia stato il primo a parlarne.
4. Il pensiero di Spicer è un pensiero intriso di traduzione, in senso radicale. È un bene che questa sua forma di radicalità stia poco a poco arrivando in Italia; grazie dunque a Adriano Spatola [edit 03.09.2018: in Cervo volante, 6, giugno 1981. Complimenti ad Andrea Franzoni per il ritrovamento], Luigi Ballerini e Paul Vangelisti (curatori di Nuova poesia americana. San Francisco, 2006 – scusate, non ho il volume a portata di mano e non ricordo chi vi sia il traduttore di Spicer), Lisa Sammarco (2009, traduzione parziale di After Lorca), Nanni Cagnone (I capi della città su fino all’etere, 2012), Marco Giovenale (Billy the Kid, 2014) e oggi questo After Lorca integrale a cura di Franzoni. Sia da lui sia da Sammarco sarei curioso di sapere perché hanno scelto di non tradurre il titolo del libro.
5. Ma Spicer, ora che so che esiste mi accorgo che nella mia vita è stato onnipresente. Conoscendolo a malapena di nome l’avevo già incrociato traducendo Bob Perelman e, più di sbieco, proprio Peter Gizzi che qui firma la postfazione. Ricordo bene quanto mi era piaciuto, lavorando su Gizzi, annegare in tutti quei colori e in quella forma ricorsiva; un procedimento tipico di Lorca e di After Lorca, questo, forse derivante da qualche tipo di forma-canzone ma che in Gizzi viene molto dilatato. E per associazioni successive penso al fatto che proprio Lorca è stato la matrice anche di uno dei dischi più belli di Tim Buckley, un disco creato nello stesso anno della poesia di Beltrametti e che, ne sono convinto, a Spicer sarebbe piaciuto.
6. Infine, soprattutto, mi accorgo di averlo letto senza saperlo a causa di questo suo brano, con cui si apre una delle lettere a Lorca:
“Caro Lorca,
Vorrei fare poesie di oggetti reali. Che il limone fosse un limone che il lettore possa aprire o spremere o assaggiare – un limone reale, come un giornale in un collage è un giornale reale [Spicer era fissato con i limoni, chissà perché – ne parla di continuo]. Vorrei che la luna nelle mie poesie fosse una luna reale, che all’improvviso possa essere coperta da una nuvola che non ha niente a che fare con la poesia – una luna completamente indipendente dalle immagini.”
A queste parole mi sono ricordato che nel 2005 avevo tradotto di Stéphane Bouquet, uno splendido poeta francese (e ottimo ballerino, se non mi tradisce la memoria di una festa a casa di S.), una poesia che ha per titolo “Poesia reale“. Leggetela, se volete, e vi sembrerà un testo di Spicer (o forse era lui che si portava avanti traducendo Bouquet, chi lo sa).
La stessa lettera si chiude così:
“Perfino queste lettere. Esse corrispondono a qualcosa (non so cosa) che avete scritto […] e, a sua volta, qualche futuro poeta scriverà qualcosa che corrisponde ad esse. Questo è il modo in cui noi morti ci scriviamo l’un l’altro.”
Quindi concludo evocando anch’io Federico García Lorca, perché mi impressiona sempre la sua bravura di pianista e perché ne ascolto le note come se fossero parole in un’altra lingua, prefigurazioni oscillanti di chissà che.
Forse della morte, l’inizio delle trasmissioni.
articolo appetitoso, che invoglia su Spicer ma anche, soprattutto su tutta la costellazione di poesie che si sono aggregate, ben saldate oltre le differenze, a formare “una punta di lancia che taglia in mille pezzi i veli del cosiddetto reale e dissemina il mondo di mille modi possibili di fare le cose, al servizio delle altre arti e di tutti gli esseri umani” – una bellissima definizione, davvero grazie
Ottimo intervento, grazie: fa quello che una recensione dovrebbe sempre fare: esplicitare il più possibile i collegamenti, richiami, echi che sono dentro i testi: tanto più in una poesia che sa di essere parola altrui
Top.
Grazie a voi.
Andrearà: hai aperto molte finestre. Circola molta corrente. Fa bene.
Andrea leggo solo oggi questo tuo interessante articolo, quindi scusami se solo oggi provo a risponderti. Come tu saprai Jack Spicer contribuiva personalmente alla composizione grafica delle copertine dei suoi libri, se non addirittura disegnandola come ad esempio in “Language”. La prima tiratura di “After Lorca” fu un vero esempio di collaborazione, come se andasse ad accordarsi con la natura stessa del libro. Robert Duncan lo battè a macchina con la sua Olivetti, Joe Dunn che intanto aveva iniziato ( pressato da Spicer) l’avventura della White Rabbit Press ne pubblicò la prima edizione (500 copie), Jess Collins ne disegnò la copertina a cui Spicer aggiunse il titolo tracciandolo probabilmente con un pennarello rosso o un rossetto. Insomma una bella storia dietro un libro che sembra avvalorare quello che tu dici introducendo il tuo pezzo “Non doveva essere male fare il poeta a San Francisco tra la fine degli anni 50 e i primi 60.”, ma vero non fino in fondo, non mancavano infatti veleni, moniti etc che sopratutto Spicer dispensava con le sue poesie- missive. Un mix di passione e delusioni che probabilmente contribuì a quegli eccessi che portarono troppo presto Spicer alla morte. Comunque sia, sì dietro i libri di Spicer si nascondono storie affascinanti, di quelle di cui mi è sempre piaciuto seguire la tracce, un po’ immedesimandomi e un po’ crogiolandomi, così quando decisi di tradurre “After Lorca” mi sembrò naturale lasciarne il titolo originale, poiché proprio perché tracciato da Spicer a mano oltre ad assolvere alla mera funzione di titolo era diventato altro, qualcosa che più idealmente investiva un piano estetico, con una sua valenza iconografica e musicalità. Con un po’ di presunzione e un po’ di romanticismo mi sembrò giusto ripristinare la connessione che si era interrotta con la morte di Spicer lasciando che fosse lui dalla sua tomba ad introdurre la mia traduzione.
lisa