Post in translation: Jan Balabán
da Chiedi a papà
di
Jan Balabán
traduzione dal ceco di Alessandro De Vito
Hans aveva una specie di superstizione. Valutava il giorno che veniva dal fatto se al mattino incontrava più belle donne, o se ne incontrava più di brutte.
Per quegli occhi profondi sbirciati qua e là furtivamente, per quelle labbra sensuali, per quell’inclinare il capo o quel sorriso che attraversa il volto come un’affermazione della vita terrena Hans non rimpiange di stare in tram e non al volante del fuoristrada nero che in quel momento è fermo al semaforo rosso accanto al tram. Il conducente tamburella nervosamente con le dita sul cruscotto, visibilmente in preda alla rabbia perché l’incrocio lo sta tenendo fermo allo stesso livello di quegli sfigati che osservano la sua auto dai finestrini del tram. Ascolta il suo stereo ma non può vedere con quanta bellezza quella ragazza appoggia la testa all’asta di sostegno, non al lucente palo da striptease di un dancing bar, ma qui, di fianco alle porte di un tram. Lei ascolta la sua musica con le cuffie, appesa al giorno, senza sospettare che qualcuno sia così incantato dalla sua grazia. Hans sente il brusio delle cuffie e immagina come la musica a pieno volume si incanali nei suoi rosei canali uditivi, come con quella musica vibri tutta, e vibri il cerchietto argentato coperto a metà dai suoi capelli. Hans ci crede, a quell’istante. Non alla ragazza. Sa bene che può accadere che apra la bocca e che da essa fuoriesca qualcosa di volgare o di stupido. Hans crede di aver scorto il lembo tondeggiante della splendida giornata che oggi potrebbe essere, che certamente per qualcuno è.
Poi diventa verde. Il SUV nero in basso sotto il finestrino scatta con tutta la sua velocità, a capofitto e lesto come un maiale verso la greppia. La ragazza si gira verso Hans, lo guarda, poi si perde tra la gente.
Le cose stanno in modo del tutto diverso, gli aveva detto un giorno suo fratello minore Emil a proposito di quella sua indagine stregonesca. Statisticamente deve esserci ogni giorno più o meno la stessa quantità di belle e di brutte. Sono solo i tuoi occhi che a volte riescono a selezionare le belle, in quella massa di persone, e altre volte quelle che fanno schifo.
Che fanno schifo, così aveva detto, aveva usato quella parola. Diceva tranquillamente di una donna, solo così allo sguardo, che fosse uno schifo. Emil era fatto così già nell’infanzia. Tutte e tutti sono schifosi, per contro è bella solo quella a cui sta pensando lui. Così fantastica, che non può davvero esistere. Può presentarsi solo per un momento, solo per un secondo, e la cosa peggiore è che in Emil la delusione non arriva con la bellezza, ma la precede. E questo, Emil, sono di nuovo i tuoi occhi a farlo. Sono occhi che la bellezza non la vogliono vedere, ma vorrebbero lanciarla sulla gente. Un po’ come tu ti getti sulla gente, come un cane lupo su una recinzione sormontata da filo spinato.
Emil sarebbe stato d’accordo con quel cane. Sì, la bellezza deve ferire, strappare la cortina dell’indifferenza.
Ma questa cortina qualche volta è necessaria, perché l’uomo non si esasperi ed impazzisca. Perché, Emil, possa essere normale almeno nelle cose normali.
E cosa sono le cose normali? Hans richiamò alla mente l’aspetto furente – e la voce – di Emil. Il suo rancore verso tutto ciò che proprio in quel momento non è suo. Verso tutto ciò su cui non ha messo le mani da solo, come il cacciatore sul cervo.
Le cose normali non esistono. Solo un idiota può desiderare delle cose normali. Hans, tu lo sai cos’è che mi ferisce, per me non è così. Le tue persone normali vorrebbero vedermi rinchiuso in riformatorio, in manicomio, in caserma con una baionetta nel culo, legato stretto.
Emil era capace di mettersi subito a urlare e subito offendersi violentemente, a umiliarsi e a vendicarsi da solo di quell’umiliazione, e tutto in un solo minuto, in un solo secondo che non fosse dedicato a lui.
Hans prosegue verso il suo posto di lavoro, come ogni normale persona onesta, ma sente che gli è sfuggito qualcosa, di aver dimenticato di pagare, di compilare, di inviare, di dire qualcosa a qualcuno. Tutto ciò è probabile, ma non gli fa male. Neppure quella cosa della bellezza. A fargli male è l’angoscia di Emil. Il ricordo di quando ce l’avevano entrambi, insieme. Di quando tutti e due guardavano il mondo solo dall’angusta feritoia di una cittadella solo loro. Gli fa male come il ricordo di una vecchia consuetudine. Il ricordo di un uomo che è morto, di papà, sulla cui tomba la terra non si è ancora assestata. E come la prendeva lui? In realtà più come Emil, ma ha trascorso tutta la vita nell’idea che il mondo è buono, per via del Signore.
Il tram si fermò al parco nella piazza. Un tempo qui avevo l’ufficio, ma non mi è andata bene. Hans si ricorda di come restava in attesa di un lavoro qualsiasi per giorni interi. Controllava la posta nevroticamente, ogni ora. Telefonava. Stupidamente domandava alle segretarie dei suoi perlopiù ex clienti se non avessero qualcosa per lui. Fingeva di non essere sul lastrico, e con sempre maggiore difficoltà allontanava la voglia di fare un salto attraverso il parco al negozio a prendere una bottiglia. Non ne aveva i soldi, o meglio, non ne avrebbe dovuti avere, dato che gli mancavano per l’affitto di casa e per le tasse.
Una volta, finalmente, dopo una giornata del genere uscì da quella trappola del lavoro senza lavoro e incontrò al parco, sotto un alto pioppo nero, una ragazza che risplendeva nel suo sorriso. Sorrideva così pienamente e completamente, come se in effetti le fosse riuscito qualcosa, come se si fosse proprio innamorata. Dei grandi occhi scintillanti. Poi la ragazza si pulisce il naso col fazzoletto, che tiene, un po’ curiosamente, nella manica del cappottino rosso. Ed ecco che sorride ancora di più, perché non si tratta di un fazzoletto, ma di un sacchettino di plastica con del solvente. È così bella che tutto dovrebbe finire proprio adesso. La vita e il mondo. Adesso, e non chissà quando in ospedale, tra bende e garze e sputacchiere, o attaccati a qualche terribile macchinario che delle spietate infermiere ti lasciano squittire vicino alla testa per tutta la notte.
Hans scese dal tram. Il pioppo nero non può certo sfuggirgli, in quella luce mattutina. È dalla morte di suo padre che ci va, è una specie di totem. Il suo tronco alto e imponente è incurvato come una fiamma per una ventata. Quando il vento si placa la corona torna indietro, anche se il tronco resta ancora sbilanciato nella direzione del soffio. Un magnifico arco che resiste lì da almeno quarant’anni. I pioppi neri crescono velocemente e muoiono, come fanno le persone. Quarant’anni è durato il vento che ha incurvato il tronco, il vento che ha piegato mio padre, la mia gente e il mio paese, e ora vorremmo credere di poter tornare di nuovo verticali? Quell’albero è un monumento al nostro tempo e ai suoi piedi c’è una giovane ragazza, quasi ancora bambina, con la sua droga e gli occhi spalancati sull’universo, che sorride più di quanto sia mai possibile.
Il pittore Hans ripiegò il suo blocco con diversi schizzi di un’unica immagine, chiedendosi tra sé come sarebbe stata quella bella giornata.
Nota al romanzo del poeta e amico Petr Hruška
«La morte osserva le nostre vite.
L’evento centrale dell’ultimo romanzo di Jan Balaban è l’agonia e la morte di un uomo, ma ciò che racconta davvero è l’impegnativa ricerca della vita. Poiché questa deve sempre essere trovata nella profondità di ciascuno. E poi di nuovo reinventata. In un certo senso siamo tutti simili ai personaggi della meravigliosa storia di Jan Balabán, traboccante di conversazioni, di soliloqui e silenzi. Una storia in cui si cerca la verità, e si trova la sincerità. Tutti noi, nella nostra parabola mortale, cerchiamo di scoprire qualcosa sull’essenza della realtà, o almeno trovarci per un un momento vicino a qualcosa di importante.
È quasi impossibile, perché ne sappiamo terribilmente poco. La nostra mente è sopraffatta da domande e dubbi, sfiducia e incredulità, nervosismo e aggressività. L’energia viene sprecata nel cieco affanarsi quotidiano. Le parole si ribellano in una inesattezza maligna, le mani sono corte…
Abbiamo ancora un cuore.»