Vorrei che tu fossi qui

(Sergej Roić è un amico scrittore croato/ticinese. Ha  scritto un romanzo lo scorso anno per Mimesis che parla di intelligenza nell’universo, principio antropico, università di Camberra, elefante meridionale, Syd Barrett e tanto altro. Sergio – così lo chiamano gli amici – ce ne regala un estratto. G.B.)   

di Sergej Roić

Puoi liberare te stesso abbastanza da vivere la realtà del mondo mentre la vita scorre davanti a te, con te, e tu ti muovi in avanti con essa? Puoi farlo? Perché se la risposta è no, rimarrai per sempre al punto di partenza, fino alla tua morte. So che potrebbe sembrarvi un’idiozia, ma è di questo che parla la canzone

Un ragazzo e il suo doppio

Due ali aveva questa sfera di pura gloria, due ali d’argento chiaro, che si esaltavano sempre all’arrivo del Dio: e ora dall’ombra si alzarono piume immense, una a una, fino a dispiegarsi per intero; mentre ancora l’abbacinante globo si teneva nascosto, in attesa del comando” trova sottolineato a matita sul libro di poesie di John Keats nello studio del padre.

Lì accanto, un foglio sostiene “Oggi Roger torna dalle vacanze”. Nel quaderno dove il padre annota gli argomenti su cui riflettere la risposta a una sua domanda telefonica: “Dire a Roger che la vita umana è un palazzo dalle molte stanze. La prima di cui varchiamo la soglia la chiamiamo la camera dei bambini, o la camera senza pensieri. Ci rimaniamo un lungo tratto, e nonostante la porta della seconda camera rimanga aperta non ci interessa affrettarci verso di essa, ma vi siamo spinti dal risvegliarsi del principio di pensiero dentro di noi. Non appena entriamo nella seconda stanza siamo pervasi dalla luce e dall’atmosfera, non vediamo nient’altro che piacevoli meraviglie e pensiamo di attardarci lì per sempre estasiati”.

Girando la pagina, legge un pensiero a proposito di un vaso greco disegnato in tutti i suoi particolari dalla ferma mano del padre: “Oh, forma attica! Posa leggiadra con un ricamo d’uomini e fanciulle nel marmo, coi rami della foresta e le erbe calpestate. Tu, forma silenziosa come l’eternità, tormenti e spezzi la nostra ragione”.

Syd esce di casa, si precipita in strada. Percorre le vie di Cambridge, umide e nere, ritrovandosi nell’incerto territorio che confonde la veglia col sonno – è rientrato nel cuore della notte e non ha visto, non ha salutato nessuno. Vi è mai capitato, la mattina presto, trovandovi nell’incerto territorio che confonde la veglia col sonno, pensa, compone, di incamminarvi per strade umide e nere – lo spicchio d’arancia che fa capolino dietro l’angolo è il camion della nettezza urbana – di leggere, gli occhi improvvisamente spalancati, particolari fin lì invisibili di parlanti estroversi palazzi? Percorrete la vostra via per la prima volta; avete una grande immaginazione; potreste giurare di aver vissuto una vita sorprendente e improbabile, non vi riconoscete. Siete chiunque, siete quell’uomo uscito or ora dall’androne – uscito, si vede, a comperare le sigarette. Chi crede di essere?

Il ragazzo si mette a correre e durante la corsa, tangibile, reale, che si tocca con mano, che si aspira e poi rigetta fuori dai polmoni assieme al fiato, vede davanti a sé la forma attica, la forma di quel vaso greco. Mio padre vuole parlarmi, mio padre vuole parlarmi, ripete in mezzo alla strada, all’alba, a Cambridge, a due passi da casa. Due ore dopo è di nuovo a Londra. Compone, pensa.

Ora scendete nel tunnel della metropolitana. Che parla dell’audace colpo dei rocker che all’alba, proprio qui sotto la vostra strada, hanno ribattezzato cielo e inferno la fermata del metrò della terribile battaglia di Waterloo. Ristabilito l’ordine, tutto il tunnel continua a parlarne.

Correndo Roger “Syd” Barrett pensa, compone. Più corre veloce e più calda, liscia, svelta, calma, giusta è la melodia che lo accompagna.

Vi guardate attorno e nella vostra carrozza, dall’altra parte del corridoio – com’è svelto e passionale il mondo – un giovane nero inforca il vis-à-vis di una donna bionda. Si guardano. Lui attacca bottone mentre una frotta di militari in piedi presso la porta – militari dagli sguardi d’acciaio, i capelli a spazzola – emette un trattenuto muggito di rivolta. Lei gli tocca la coscia. È veramente una bella bionda. I capelli vaporosi, il seno protuberante, è molto intraprendente. I militari ululano la loro disapprovazione. Un vecchio tignoso vomita con sincopato accento del Nord “Ai miei tempi, queste cose…”. Il nero rilancia e ora la sua mano si fa largo ben oltre l’orlo della gonna. Una sorda eccitazione si impadronisce della carrozza: ora tutti sono per l’ordine e la morale. I militari, l’uomo del Nord apostrofano la donna: “Puttana, vai a battere da un’altra parte”. “Jimmy, no” tre soldati trattengono il commilitone alto e secco dal volto scrofoloso. Jimmy-il-soldato vorrebbe – grida – farla finita. “Diamogli una lezione” barrisce il vecchio. I due ragazzi (sì, certo, se astraete dal trucco di lei sono giovanissimi) si guardano, il treno ferma, le porte si aprono, loro sgattaiolano verso la sicurezza della pensilina lì fuori urlando “Syd Barrett, Syd Barrett, vieni con noi!”. Così non vi rimane che seguirli, così verrete a sapere – in un bar, davanti a un caffè – che sono studenti di recitazione, che nel metrò alberga un pubblico feroce e che i loro compagni – lui bianco, lei di colore – ottengono un effetto uguale e contrario, anzi, vengono portati in trionfo.

Ottengono un effetto uguale e contrario, anzi, vengono portati in trionfo lo ripete e ripete davanti al giovane nero e alla ragazza bionda finché il refrain si materializza, si aggiusta, coglie al volo quella storia per farne un viaggio, una canzone, una battaglia.

A mezzogiorno di una qualsiasi giornata d’estate Syd Barrett, il cantante e paroliere dei Pink Floyd, e colui che lo accompagna sempre, l’altro sé, pensa e compone: è seduto su una panchina della metropolitana di Londra e non vede una ragione di essere lì piuttosto che in qualsiasi altro luogo che conosce.

Chi sono? Dove mi trovo? Eccomi per la prima volta in me stesso come in un incredibile paese straniero dice, e poi lo canta, a tutti e a nessuno lì nel metrò. Si siede di fronte a una ragazza. Si alza e anche lei si alza. La segue lungo un primo, un secondo cunicolo. Lei sceglie la “veloce” per Wimbledon e lui dice “peccato”. Se invece avesse svoltato a sinistra verso l’uscita, l’avrebbe raggiunta lì, proprio nel punto dove inizia la piazza, in cima alla scalinata. Cosa le avrebbe detto? “Per gioco, posso parlarti?”. E non poteva seguirla e chiederglielo a Wimbledon? “No, ogni gioco ha le sue regole”. Barrett lo dice, lo ripete, parla a se stesso, la gente nel metrò non ci fa caso. Lui è Roger, Syd per gli amici, Barrett, il cantante, il genio, e sta diventando pazzo.

Non vede

            una ragione

                            di essere lì

                                            piuttosto che in qualsiasi

altro luogo che conosce.

Non vede una ragione.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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