Storia di Abdelali migrante
di Marco Rovelli
(Nazione Indiana ha compiuto quindici anni a marzo, da allora molte persone e molte cose sono cambiate; testimonianza molto importante, e talvolta emozionante, di questa lunga storia è il suo archivio, del quale abbiamo deciso di ripubblicare alcuni post, che riteniamo significativi. Oggi proseguiamo con un brano di Marco Rovelli, in passato redattore di nazione indiana. La redazione) Questo articolo è statp pubblicato su Nazione Indiana da Sergio Baratto l’8 settembre 2004.
Uno sguardo azzurro, sorpreso da una foto tessera. Gli anni – diciannove – che non compaiono sul volto. Ma stanno tutti dentro, e sono molti di più.
In Marocco quegli anni non c’erano ancora. Abdelali se li è venuti a prendere in Italia. Ha raggiunto il padre, che si è messo in regola. Anche lui può stare qui, adesso.
Abdelali fa amicizia, s’impara presto a stare nelle strade di una città nuova che ti nutre. Abdelali impara a stare nei carruggi di Genova. E’ un ragazzo come gli altri, agli altri è legato dall’età, il confine di stato si fa presto a dimenticarlo. Basta un gesto per abbatterlo, e Abdelali ne fa tanti di gesti che lo accomunano agli altri. Come quello di arrotolarsi una sigaretta di hashish, come quello di comprare un po’ di più di fumo per rivenderlo e potersi permettere qualche piccolo piacere. Tanto più che il corpo di Abdelali comincia a prendersi anni troppo velocemente: lo stomaco a volte si piega dal dolore, e vomita sangue. In ospedale lo trattengono, e per un po’ quella è la sua dimora. Lo operano in fretta, gli aprono la pancia, poi lo sottopongono a sedute interminabili.
Chemioterapia. Dolore. Fatica. Abdelali esce dall’ospedale senza sapere bene cos’abbia, non si può credere di morire a diciott’anni. Intanto dimentica il dolore con i suoi piaceri.
Ma la legge non conosce piacere né dolore. E non le piace essere ignorata. Si presenta in divisa, e gli rovescia le tasche.
E rovesciano anche lui, con lo stesso gesto, anche se ancora Abdelali non lo sa. Glielo dicono dopo pochi mesi, ed è una catena di parole in rapidissima sequenza che gli sbattono in faccia, e gli chiudono la bocca: permesso di soggiorno revocato, ed espulsione. Tutto in un solo gesto rovesciato, tutto in fretta, più in fretta dell’operazione che lo ha aperto all’ospedale.
Si ritrova in una stanza fredda della Questura di Genova, quarantott’ore a pane e acqua, senza sapere cosa gli accadrà. Sa solo che ci sono delle persone delle quali adesso è in pieno potere, che possono disporre di lui come vogliono. Aspetta, e intanto vomita sangue.
Ma il suo sangue è uno spiacevole incidente per la legge, se la legge avesse vene non ci passerebbe sangue, ma la legge non ha vene, solo corde e funi. Così qualcuno pulisce il sangue di Abdelali, e in fondo gli va bene che non sia lui a dover pulire là dove ha sporcato, come sarebbe giusto.
Alla fine vengono a prenderlo, lo caricano su una camionetta dai vetri oscurati, nessuno sa se ad Abdelali siano venuti in mente i vagoni piombati che portavano nei campi gli indesiderabili, forse no, Abdelali è ancora troppo giovane, pensa solo al suo dolore, e al piacere che adesso non potrà più avere per far fronte a quel dolore.
Il viaggio è lungo, e non si può nemmeno guardar fuori. Ci sono solo le voci forti e scandite degli uomini in divisa, la voce di marmo della legge che riporta le cose al proprio posto, come nel cosmo dei greci ogni cosa ha il suo luogo proprio, e quello di Abdelali è fuori di qui, anche per il suo sangue non c’è posto, è stato già pulito, e anche quello vomitato nella camionetta verrà pulito al più presto.
Il luogo di passaggio tra il dentro e il fuori è il nulla di un campo. C.P.T., si chiama, centro di permanenza temporanea, ma Abdelali non conosce ancora così bene l’italiano da far notare l’incongruenza dell’espressione alla legge che lo custodisce. Che importa, adesso è a Brindisi, e tra poco sarà rimesso al suo posto, appena passato il mare. Il mare nostrum, non lo si scordi.
Per venti giorni Abdelali non merita l’ospedale. Vomita sangue, e gli danno Valium e Tavor. Tanto lo stomaco è già andato, che stia tranquillo per questo tempo che gli resta. Lo va a trovare un avvocato genovese, una ragazza dal sorriso amoroso. Prova a spiegare che il suo corpo cede, che lì non può stare, lo porta davanti al giudice, alzati la maglia, gli dice, il giudice vede lo squarcio nella pancia, e non solo la magrezza del corpo. Sono un giudice, non un dottore. Sono un giudice, così ha detto il giudice. E’ la legge.
Poi, quando il suo dolore grida troppo, lo portano all’ospedale. Abdelali ormai sa che lì lo cureranno quanto basta per alleviargli il dolore, e poi lo rimanderanno al campo, e di lì in Marocco. Abdelali scappa. Riesce a uscire senza farsi notare, e arriva alla stazione. Telefona all’avvocato dal sorriso amoroso. Vieni da me, gli dice lei. Lui arriva a casa sua, e l’avvocato dal sorriso amoroso quando gli apre la porta si spaventa, sotto l’azzurro degli occhi non c’è più quasi nulla. Andiamo in ospedale, gli dice. Aspetta, risponde Abdelali. Ho dei debiti, prima li voglio pagare. Dopo qualche ora Abdelali ritorna. Andiamo, dice. L’avvocato lo porta in ospedale, poi avverte il padre.
Voglio vedere la mamma, chiede Abdelali, non la vedo da quattro anni. Voglio vedere anche la mia sorellina che ho visto appena nata. Ma l’ambasciata italiana in Marocco non lo vede, quello sguardo, quell’azzurro che diventa sempre più azzurro su quel corpo che sta finendo di sostenerlo. I visti per la madre e le sorelle non arrivano, e Abdelali continua a vomitare sangue, a perdere peso e parola. Bisogna insistere. Bisogna gridare. L’avvocato lancia un appello su internet e sui giornali – pochi, solo quelli che riescono a dar voce al dolore senza farne trofeo. Mandate fax all’ambasciata, fate i visti alle donne di Abdelali. Nell’attesa, è l’avvocato la madre di Abdelali. E’ lei che passa i giorni all’ospedale con Abdelali, è lei che chiameranno in caso di morte. Abdelali si sta spegnendo, non si alza più dal letto, è un corpo chiuso, rinserrato. E’ solo dopo due settimane – alla fine del mese di febbraio – che Abdelali ha le sue donne. E le sue donne si fanno canali di un miracolo: Abdelali si fa trovare in piedi, e pare sano. Abdelali resta sano per una settimana, nell’incredulità dei medici.
Il padre ha rimesso il figlio alla Volontà di Dio. La morte – il suo quando, il suo come – è stabilita da Dio in un momento preciso quando il bambino è ancora nella pancia. Non si può che accogliere la Volontà, che arriverà quando Dio l’avrà deciso. Il medico non è d’accordo, Abdelali dovrebbe sapere che ha ancora non più di dieci giorni di vita, e regolare i suoi conti, se ne ha da regolare. Non si preoccupi, risponde il padre. Tu sei nelle mani di Dio, dice al figlio, che si accorge di un’altra verità. Mi stai mentendo, dice al padre, mi nascondi qualcosa. Ma le due verità non stanno insieme, quella del dottore e quella del padre, il padre non gli stava mentendo, gli diceva la sua verità, Abdelali capisce e accoglie la verità del padre. E accoglie il suo dolore, e il suo amore, e il dolore e l’amore della madre. E accoglie la sua morte.
E pure, ha ancora una richiesta. Voglio morire in regola, dice. Voglio il permesso di soggiorno. L’avvocato supplica la legge, Abdelali sta morendo, non soggiornerà a lungo ormai. Riesce a ottenere il permesso. Glielo portano in ospedale il 12 marzo, e Abdelali riesce ancora a immaginarsi un avvenire.
Il 17 marzo, di notte, Abdelali muore.
I commenti a questo post sono chiusi
Requiem.