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Les nouveaux réalistes: Alexandra Petrova

tratto dal romanzo Appendix (NLO, 2016).

di

Alexandra Petrova

 

Alex me fecit Mario

 

 A tutti gli scomparsi nelle acque
del Mar Mediterraneo e in quelle
dell’oblio questo libro è dedicato

 

 

La nuova leggerezza di Mercurio

(traduzione di Valentina Parisi)

 

No, non mi sarei dovuta abbuffare. Ma si erano abbuffati tutti! Gli ospiti, mia madre, mia sorella, la nonna e la zia.

“Mamma”, una voce strozzata mi uscì finalmente dalla gola secca, “là, per favore”. E con lo sguardo tentai di indicare la direzione. “Prometti di seppellirmi sotto quella betulla”. Gli alberi si chinavano su di me e frusciavano, la penombra mi rinfrescava la pelle.

I miei occhi misero a fuoco una macchia, mia sorella che si stava avvicinando. Con lo yo-yo in mano andò alla finestra, la spalancò e guardò in basso, nel nostro cortile-pozzo sempre un po’ torbido. Si sedette di lato sul davanzale e cominciò a giocare con lo yo-yo. I suoi calzettoni bianchi si confondevano con i tronchi delle betulle.

“Qui non ci sono betulle”, disse.

Provai ad alzarmi, ma fui assalita da un altro conato. I tentacoli appiccicosi e le lame ricurve da pirata che quella notte qualcuno mi aveva cucito nella pancia stavano cercando di uscirmi dalla gola. La bambina che avrebbe trovato la forza di ribattere alla vena polemica della sorella ormai era trapassata.

Il giorno prima, quando mi ero svegliata, era ancora buio, e sotto le mie palpebre si era intrufolata l’ombra mattutina di un enorme vaso di tulipani. Possibile che quel momento fosse davvero arrivato? Con cautela avevo lasciato penzolare una mano per tastare i regali. Ne avevo afferrato uno e lo avevo avvicinato a me, tentando di indovinarne il contenuto, ma mi ero addormentata di nuovo.

Alle nove ormai il sole si configgeva nei vetri delle finestre lavate da poco, riflettendosi nelle larghe assi del parquet tirato a lucido per la festa, e fissava insieme a me i pacchi e pacchetti scartati, sparsi sul pavimento. Alle dieci stavamo già preparando un antipasto dietro l’altro, mia madre batteva la carne e la infilava a pezzetti nel tritacarne, facendo uscire dai buchi pallidi vermiciattoli rossastri.

Nella mia pancia erano finiti parecchi morti ammazzati. Parti di maiale e di mucca, di aringa e di gallina, e poi l’oca dal cui fegato ingrossato si otteneva un prelibato patè. Galleggiavano in mezzo al purè, alla panna, alla gelatina, al pan di Spagna ammollato, ai succhi gastrici e anche a quello di mela, versato dal grosso barattolo da tre litri, con il coperchio di latta e l’elastico che odorava di acido.

Gli ospiti se ne erano andati, eppure restava ancora un’intera montagna di insalata russa, un po’ di quella di barbabietole e qualche fetta di torta. Dopo aver svuotato le insalatiere, finii anche il dolce, continuando a sparecchiare.

La fine di una festa è sempre ripugnante. Com’era stato bello invece quel mattino, e ancora più bella la notte prima, al chiaro di luna, con la carta da regalo che mi balenava di continuo davanti agli occhi.

L’impressione era che a inventare la vita fosse stato un essere del tutto privo d’immaginazione: inizio-fine, mangiare-cacare, bere-pisciare, giocare-dormire, mamma-papà. Oppure per esempio le case, che crescevano tutte in altezza, come tanti cubetti. Quando riuscivo a individuare delle eccezioni, anche minime, mi ci affezionavo subito come ai miei amici prediletti, e capivo che in realtà le possibilità erano molte di più. Ma fermarsi di colpo, quando uno sta già rotolando giù, richiede uno sforzo troppo grande, e molto spesso non ha neanche senso farlo.

La tovaglia cosparsa di macchie di vino e di barbabietola fu tolta e il pesante tavolo di quercia ripiegato da braccia femminili. La stanza divenne all’improvviso più grande e vuota. L’angoscia prese ad avvicinarsi sotto forma di ruttini rancidi.

Mia sorella accese la radio. Come sempre, attese l’inno dell’Unione Sovietica e poi andò a dormire. L’inno le dava una certa sicurezza. Io invece non ero sicura di niente, né dell’inno, né dell’asino di peluche che mio padre mi aveva regalato prima dell’inizio della scuola e che abbracciavo mentre dormivo, forse perché era l’ultimo regalo di mio padre. Non ero neppure certa del fatto che un bel giorno il nostro palazzo, e insieme a lui anche il resto del mondo, non sarebbe fragorosamente crollato. Ero scesa apposta dalla vicina del piano di sotto a vedere dove sarei finita se a un tratto fosse venuto giù il pavimento e, per ogni evenienza, avevo spostato il mio letto in modo tale da ritrovarmi direttamente nel suo. Non riuscivo mai a ricordare cosa dicessero alla radio, né a cogliere il senso dei discorsi degli adulti. Finito di leggere un libro, non ero in grado di dire di che cosa parlasse. Il succo delle cose, la logica della banalità mi sfuggivano, come se il mio organismo non fosse capace di assimilarli e li rigettasse, proprio come faceva adesso con i piselli, i cetrioli e i pezzetti di prosciutto che schizzavano fuori dal mio stomaco e che, chissà perché, non potevano più ricomporsi in un maiale o in una gallina, e neppure ridiventare una meravigliosa insalata nella sua insalatiera di vetro, ornata da mazzetti di aneto. Perché ero proprio io a soffrire questi dolori schifosi? Proprio io, mentre mia sorella, con i suoi calzettoni bianchi, se ne stava seduta sul fresco davanzale a giocare.

Non temevo affatto la morte, anzi in quel momento mi sembrava perfino rinfrescante, come l’acqua.

Quando finalmente mi trascinai giù per la nostra interminabile scala fino al cortile eternamente in ombra e mi misero sulla barella dell’ambulanza, prima che chiudessero di colpo lo sportello vidi per la prima volta che la porta della nostra casa era dipinta di grigio e che la vernice screpolata lasciava intravedere un altro colore, più chiaro.

E checché ne dicessero, nel cortile che credevo di lasciare per sempre si levavano i tronchi sparsi di alcuni alberi bianchi, sormontati da una rete di rami su cui si erano impigliate le prime foglioline primaverili. E anche se qualcuno non li vedeva, non significava affatto che non potessero esserci, benché fino ad allora non avessero trovato nemmeno una manciata di terra nell’asfalto.

La scala dell’ospedale, invece, la salii orizzontalmente. Ero pesante, il giorno prima avevo compiuto pur sempre dodici anni.

La pancia non mi faceva più male. Indossavo la camicia appena ricevuta in regalo da zia Ljalja, che mia madre chiamava “sottoveste”. Verde malachite, trasparente, con i pizzi – una cosa così non ce l’avevano né mia madre né mia sorella. Mia madre, con l’aria lievemente sprezzante e distaccata che aveva sempre quando parlava della famiglia di mio padre, aveva osservato che quella “sottoveste” non era adatta per la mia età, ma io avevo deciso di tenerla anche per la notte, perché mi conferiva particolari poteri magici.

In ospedale nessuno pensò a togliermela, in compenso, ahimè, i medici-assassini mi avevano sfilato le mutandine e adesso un dottorino dalle guance rosee mi stava trasportando premurosamente in braccio, con la passera all’aria su cui spuntava già una peluria scura, appena visibile. Mi trasportò così fino al quarto piano, l’ascensore non funzionava e io non dovevo assolutamente camminare, sennò dentro di me si sarebbe potuto rompere qualcosa.

Nella sala dei riflessi, tutta vetri e metallo, mi deposero su un catafalco gelido, sempre con la sottoveste indosso. Solo a quel punto venne fuori che non potevo nemmeno muovermi. I medici si affaccendavano intorno a me e, prima che riuscissi ad aprire bocca, mi misero una mascherina-museruola. Sospirando, mi accorsi che già al secondo respiro le voci volavano via chissà dove, lontano, in alto, sempre più in alto, finché non si fusero in un unico brusio, nel vuoto.

Da lì a un attimo riaprii gli occhi. Ero in una grande corsia, la pancia mi bruciava e mi faceva male, molto male. Urlai.

I medici accorsero e, fingendo di tastarmi, mi fecero un’iniezione. Quando mi risvegliai, mia madre, di nuovo china su di me, mi disse che avevo dormito molto a lungo, che l’operazione era durata quattro ore e che mi avevano ripulito tutto l’intestino. Avevo un’appendice enorme – diciotto centimetri, una cosa incredibile per la mia età. Sebbene fosse scoppiata, l’avevano messa in un barattolo pieno d’alcol e da quel momento in poi sarebbe rimasta lì, in mostra nel museo dell’ospedale. Avevo sempre indosso la mia “sottoveste”, che adesso era tutta sporca di qualcosa di marrone sulla pancia e, per colpa di questo schifo, aveva certamente perso gran parte della sua magia.

Ma, ancora di più, mi spiaceva per l’appendice. Eppure me l’avevano sempre detto: “Non mandare giù i noccioli, togli la buccia dei semi di girasole prima di infilarteli in bocca, altrimenti ti verrà l’appendicite”. Io però, di nascosto, inghiottivo non solo i noccioli delle ciliegie, ma anche le pagine dei miei libri preferiti (non a caso dicevano che li “divoravo”), oltre a perline colorate e manciate di terra – in generale tutto ciò che era meraviglioso e non pericoloso. Mi piaceva l’idea che tutto sarebbe rimasto dentro di me, in un sacchetto nascosto.

Una volta al cervo di Münchhausen era spuntato un albero in testa da un nocciolo di ciliegia. Per cui era assolutamente possibile che anche dentro di me si celassero i germogli di arbusti che potevano spuntar fuori in ogni momento, spandendo il loro profumo nel bel mezzo delle occupazioni quotidiane. I passaggi più spaventosi delle fiabe o quelli che mi piacevano di più rimanevano dentro di me per poi, un bel giorno, venir fuori del tutto inaspettatamente. Il luccichio delle perline di vetro levigate rischiarava l’oscurità delle mie viscere.

Un tempo i nostri antenati si nutrivano esclusivamente di erba e radici, per questo il loro intestino era molto più lungo. L’appendice era la testimonianza materiale di quell’epoca. Poi gli esseri umani avevano preso gusto a bere il sangue e a masticare la carne di esseri quasi uguali a loro e un tubo così lungo per la digestione dell’erba era diventato inutile, ma per qualche strano motivo, forse per rammentare l’innaturalezza del mangiar carne, l’appendice aveva continuato ostinata a spuntare a tutti. La definivano un atavismo. La vergogna può trasformarsi senza nessuno sforzo in un atavismo. Una volta la scuola ci aveva portati a visitare un campo di concentramento. La gente abitava lì vicino, armeggiava in cucina, faceva la fila per il pane, più o meno come allora, quando l’aria era irrespirabile per l’odore penetrante delle carne ebrea e rom bruciata. Forse a qualcuno veniva un po’ di nausea, ma già non ci si interrogava più sulla causa di quella reazione.

Anche se grazie all’evoluzione l’appendice non mi serviva più, avevano pur sempre tagliato via un pezzo di me. O meglio, pensavano che non servisse più, ma io sapevo già da tempo che, mettendosi dietro gli striscioni con gli slogan, si potevano leggere cose inimmaginabili. La gente guardava il mondo senza notare la sua multisfericità. Appena usciti dall’infanzia, iniziavamo ad assomigliare sempre di più l’uno all’altro . Si riusciva quasi sempre a indovinare come finivano le frasi degli adulti alla terza o addirittura alla seconda parola. In un universo simile bisognava per forza inventarsi un trampolino, un dirigibile, un bunker o un nido, o anche solo imparare a correre velocemente. Più veloce dei motorini e della luce. Nella borsetta-appendice erano custoditi tutti i materiali indispensabili per costruire macchine volanti, quella era la mia dote. Grazie agli oggetti che conteneva avevo capito, come per magia, che a mezzanotte non doveva per forza risuonare l’inno, che non era sempre necessario chiedere il permesso di alzarsi da tavola o limitare l’estate a soli tre mesi – un’estate relativa, per di più. In realtà, al mondo non esistevano nemmeno i mesi, oppure, se alle volte proprio ne capitava uno, allora poteva essere maprile, maggggio o serpentario. Ma ecco che il mio sancta sanctorum, il mio trampolino, il mio lanternino era finito in un barattolo, esposto alla curiosità generale. Da quel momento in poi la mia forza sarebbe rimasta lì, nascosta in un museo anonimo, non mi apparteneva più. L’appendice era mia, le perline e le pagine delle fiabe dei fratelli Grimm al suo interno erano mie, eppure non potevo più vantare alcun diritto su di loro. La mia vita precedente mi era stata tolta per sempre, con un taglio netto.

In quella nuova, successiva all’amputazione, cominciò a farmi male come un arto fantasma tutto ciò su cui avevo potuto contare fino a quel momento – la sicurezza del giocatore d’azzardo al pensiero del suo conto svizzero o quella del criceto mentre fa provviste di semi nella guancia. Allo stesso tempo iniziai a sperimentare un’ignota leggerezza. Perdere i bagagli fa spuntare le ali dietro la schiena o sui sandali, come accadde a Mercurio.

Insomma, bisognava rinunciare all’accumulazione diretta (che poteva sempre interrompersi tragicamente) e ricominciare da capo, contando solo su me stessa.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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