Wu wei / Ugo Coppari
Wu wei
di Ugo Coppari
Stavamo fumando le nostre belle sigarette nell’unico spazio della casa a nostra disposizione, il bagno, mentre i nostri figli se ne stavano di là con le nostre mogli, noi professionisti spiegazzati non più trentenni ma neanche quarantenni, che quando ci vediamo per la solita cena settimanale – anche se è sempre più raro – fingiamo con piacere di essere ancora quel tipo di uomo villoso che viene meno ai doveri genitoriali, una finzione che dura il tempo di qualche tirata. È che se fossimo davvero quel tipo di uomo dovremmo parlare di calcio macchine e figa, e invece anche quella sera ci siamo ritrovati per l’ennesima volta a buttare lì qualche lampo di quello che ci aveva colpito nei giorni precedenti. In questo caso: la presunta inascoltabilità della trap, il fenomeno Liberato e il decrescente prestigio delle nostre professioni umanistiche.
Facevo notare quanto fossero più grandi le macchine degli invitati a un matrimonio a cui avevo partecipato nel fine settimana, e quanto fosse stata indifferente la reazione di questi impiegati geometri ingegneri e commercialisti nello scoprire che ero uno scrittore che insegna italiano a studenti stranieri. Dopo aver spento l’ultima sigaretta, il mio amico editore mi confessa che sarà anche vero che oggi gli insegnanti e più in generale le persone che si occupano di cultura contano meno di un sottobicchiere ma il bello di insegnare – come ora sta facendo lui, in un liceo – è che si viene pagati per poter continuare a studiare; il bello di lavorare nel mondo della cultura è poter continuare a cercare, mi ha fatto notare.
E allora andiamolo a vedere da vicino, questo mondo della cultura, mi sono detto. Uno degli amici del gruppo, che da qualche anno vive a Roma, mi è passato a prendere e all’alba siamo partiti per Torino, per fare un giro al Salone del libro. Alla cassa del bar incontriamo subito un autore che ci ha fatto discutere per un paio di settimane proprio su questo, sul nostro declino: Raffaele Alberto Ventura, nostro coetaneo. Quando gli vado incontro per fargli i complimenti, rimane sorpreso di essere stato riconosciuto: è che tempo prima avevo cercato la sua faccia in rete, volevo vedere come fosse l’aspetto di chi era riuscito a condensare in poche pagine la storia del nostro smarrimento. E visto che questo smarrimento ha a che fare con il nostro essere plurilaureati sottostimati, abbiamo continuato il nostro giro tra gli stand con il sospetto di aggirarci tra una marea di nostri simili, autori arrivati in fiera per trovare un appiglio che li faccia uscire dalla prevedibile normalità del destino; teoria confermata dalla presenza di una ragazza capace di portare al guinzaglio un maiale dal pelo maculato in cambio di un momento di visibilità.
Abbiamo visto Santoni, col suo abbigliamento da raver e uno zaino in spalla; Saviano, rinchiuso nello stand Feltrinelli come un pesce in via di estinzione; e Paolo Giordano, che avevo già avuto modo di conoscere tempo prima per questioni legate al mio ultimo romanzo. C’eravamo promessi di vederci per un saluto. E così è stato: gentile e affabile, è riuscito a divincolarsi dalle telecamere per riservarmi un saluto fraterno. Toh! Era questo il mio appiglio? Seicento chilometri per sentirmi incluso nel mondo che conta? E mentre ce ne stavamo là fuori a fumare tra fle di standisti esausti, il mio amico mi ha chiesto come mai da quando è a Roma né io né gli altri nostri amici siamo ancora passati a trovarlo per andare all’Olimpico. Abbiamo fatto seicento chilometri per venire a vedere dei libri – ragionava – e non siamo stati capaci di farne molti meno per andare allo stadio a urlare tifare e divertirci. Allora ha ragione Ventura?
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Poi ieri sono stato con mia moglie in un bar della provincia più siderale, una sosta immotivata al termine di una giornata di lavoro. Entrati per un cafè, ci lasciamo convincere dal barista a provare un cocktail analcolico fatto con verdure solitamente inaccostabili, frutto di continui esperimenti; ci ha parlato di Milano, della riviera Adriatica, del loro coraggio di sperimentare dietro a un bancone; e mentre questo barista ultracinquantenne ci raccontava il suo incessante lavoro di ricerca, invitandoci a ripassare per assaggiare il suo cafè alle rose, ci siamo chiesti dove trovasse tanta motivazione, alle sei di un pomerigio feriale, un hotel abbandonato e cadente dall’altra parte della strada.
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E solo ieri ho capito che è tutta questione di wu wei, un concetto che ho scoperto grazie al suggerimento di uno studente che mi ha parlato del Tao. Secondo questo antico precetto dovremmo essere in grado di capire quando agire e quando non agire, ai fini del mantenimento di un equilibrio con la natura a noi circostante. E se da un lato il non agire può essere ancora più opportuno dell’azione, dall’altro risulta dannoso inseguire obiettivi che non sono alla nostra portata, poiché il loro mancato ragiungimento può causare sofferenza. Servono piccoli passi. Ma soprattutto dovremmo essere adattabili come l’acqua, quadrati in un recipiente quadrato, tondi in un recipiente tondo, leggeri nell’essere goccia, forti nel saperci riunire in una sola massa, prendendo la forma che ci consenta di penetrare in qualsiasi spazio.
E quindi ora scriverò a Ventura per dirgli che una soluzione c’è: perché se dietro l’attività scrittoria di migliaia di giovani destinati al fallimento (troppa offerta, poca domanda) ci fosse la costante ricerca di un appiglio all’eccellenza dello spirito, potremmo tutti continuare a scrivere e a leggere e a passare alla fiera di Torino con lo stesso entusiasmo di un barista che alle sei di pomeriggio sperimenta cocktails di fronte a un hotel in rovina.
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Che bella sorpresa, questo testo.
Si, ma qui se vai dal panettiere un chilo di pane costa 7 euro.
Bello ragazzo ma quanti refusi ci sono?!?!?
mmm… come già dichiarato altrove temo che la colpa sia del mio pessimo copia-incolla da .pdf. scusate!