La metafisica delle buche di Roma

di Lorenzo Pompeo

 ( Natale 2016, rovine della palazzina di via della Farnesina 5, misteriosamente crollata il 24 settembre dello stesso anno. Foto dell’autore)

Nel 1963 Rafael Alberti si stabilì a Roma, a Trastevere. Fuggito dalla Spagna a seguito della sconfitta dei repubblicani nel 1939, si rifugiò inizialmente in Francia (dove gli venne ritirato il permesso di lavoro in quanto “pericoloso comunista”), poi nel 1940 si imbarcò per l’Argentina, dove visse a Buenos Aires (nel 1946 fu per un breve soggiorno in Cile fu ospite di Pablo Neruda, dove conobbe Salvador Allende). Ma forse il richiamo del sangue (il suo nonno paterno, Tommaso Alberti Sanguinetti fu un garibaldino toscano), insieme ad altre ragioni di natura contingente, dovettero portarlo a Roma. Nel 1972 uscì nella collana mondadoriana “lo specchio” Roma, pericolo per i viandanti. dalla quale è tratta Notturno. Lo stesso Alberti, in una breve nota introduttiva al volume, raccontava:  «Scoprivamo il segreto delle insidiose viuzze, con le loro porte chiuse, i muri screpolati, i panni ondeggianti da balcone a balcone, le impreviste immondizie – un pezzo di motocicletta, un water-closet gettato dall’alto, un gatto morto gettato su un mucchio di rifiuti alla voltata d’un cantone… – vera atmosfera surreale, squassata, specialmente durante il bel tempo, dalla stridente musica che usciva dal bar, gli scappamenti assordanti delle moto sfrenate, dalle cariche cieche delle auto, dalle quali bisogna salvarsi toreandole come tori fuggiti Iddio solo da dove… insieme imparammo il nostro Trastevere, la sua sozza e sgangherata miseria, il suo mistero e incanto popolare, estatico e rumoroso, muto improvvisamente e solitario.»

 

 

NOTTURNO (1)

 

Di colpo Roma è vuota. Non c’è un’anima.

Soltanto pietre e crepe. Silenzio e solitudine.

L’implacabile madre dei rumori ora giace

davanti a me in un silenzio di cimitero.

Vo come un ubriaco, senza meta, arrembando.

Nel buio che m’attornia, son rimasto senz’ombra.

La cerco, non la trovo. In vita mia è la prima

notte ch’essa è fuggita dal mio fianco.

Non so più dove sono i muri, le porte.

Tutto è come un’immensa catacomba serrata.

L’acqua è morta, son morti voci e passi.

Non so chi sono e ignoro verso dove cammino.

M’empie la bocca il sangue.

Roma mi sa di sangue ed a fiotti la sputo.

Scricchiola, salta, si sfascia, vien giù, cade.

Solo una vuota buca m’avvisa nelle tenebre

di quello che mi aspetta.

 

Il poeta milanese Ermanno Krumm, nel 2005 (trentatré anni dopo Alberti), dedica a Roma un paio di poesie della raccolta Respiro.:La prima è Non finisce l’evo antico (2)

 

Fra 100, 200 anni, sotto onde

di mattoni che s’ingorgano, Roma

sarà ancora questa, ancora arco, domani

qui, da Caracalla al Circo Massimo,

saranno ancora chiese che scavalcano

Costantino e veleggiano in anni luce,

nanosecondi nascosti nell’ossatura d’un dio

e abbocca per dire che basta mettere

il piede su queste pietre perché

sia ancora tutto lì, non nicchie di morti

ma dappertutto il grande corpo

che si ricompone, secoli che s’affacciano

dentro splendidi palazzi nella testa

di milioni d’uomini e pezzi di tutto

che tornano da tutte le parti.

 

Oggi, trascorsi quarantasei anni dal Notturno di Alberti e appena tredici dalla poesia di Krumm, è possibile tracciare una linea che collega le due liriche e che arriva ai giorni nostri. Di certo quella Trastevere dove abitò Alberti non ha più nulla a che fare con quella attuale. Ma non ho nessuna intenzione di indurre nel rimpianto di tempi ormai lontani. Mi interessa invece estendere il discorso alla città di Roma nel suo complesso, alla sua identità infinitamente stratificata e al suo endemico deficit di razionale efficienza (che tuttavia continua a ispirare, e giustamente, i poeti di tutto il mondo). Il “l’atmosfera surrealista” descritta da Alberti in relazione a Trastevere (che era la realtà a lui più vicina in quanto vi abitò) sembra essere diventato con il tempo un elemento identitario permanente di tutta la città. Infatti qui il mito progressista non sembra aver lasciato un segno, non è riuscito a dotare la città di una spina dorsale identitaria. Le grandi opere pubbliche concepite e parzialmente realizzate nel ventennio fascista sono stata forse l’ultima scommessa, fallita però prima di tutto a causa della sconfitta del fondatore di quel regime. La città è cresciuta nel dopoguerra grazie a quel inurbamento in massa dalle campagne circostanti e dal Meridione che ha dato vita alla stagione delle cosiddette “borgate romane”, un fenomeno che la neonata Repubblica è riuscita appena ad arginare, a contenere nelle sue più estreme manifestazioni di degrado. Tutto ciò che appare “moderno” a Roma è disfunzionale proprio poiché non corrisponde a un progetto complessivo e coerente. La città in sostanza è come se si fosse ingrandita da sola, continuando per anni a divorare terreno semplicemente in virtù di una sua autonoma e misteriosa vitalità biologica. Viene in mente a proposito quanto scriveva Ermanno Krumm in Davanti a una chiesa antica (3):

 

Anche questo è Roma o Bisanzio:

il rampicante qui che non ha appoggio

ma carne, polpa e pelle vegetale

di cui è scritto – e credo si possa dirlo

anche di animali e piante –

che neppure un capello andrà perduto.

 

Ciò può essere ricollegato a quanto scritto dal saggista e poeta Guido Mazzoni in una sua recente intervista:.«Roma è, alla lettera, un palinsesto, una superficie raschiata molte volte sopra la quale la città moderna convive con le tracce di due fra i più grandi imperi di tutti i tempi, con i resti di molte società scomparse. In nessun’altra città al mondo il peso del passato è così ingente e così difficile da portare; in nessun’altra città al mondo quello che Nietzsche scrive sull’utilità e il danno della storia per la vita risulta vero a ogni passo (4)».

Il poeta romano Filippo Strumia in una recente intervista invece dichiara: «Roma è, a mio parere, una buona metafora dell’umanità. Un luogo di bellezza e sordida trascuratezza, eleganza e sciatteria. Per questo è il mio ambiente ideale, quello che meglio riflette le spettacolari contraddizioni che contraddistinguono l’animo umano. (..)Per rappresentare Roma, credo sia utile abbassare lo sguardo sulle cartacce, sui tombini, poi alzarlo ai passanti distratti, ai palazzi decadenti, alle chiese barocche, alle edicole religiose scolorite. E’ divertente includere, nello stesso giro ozioso in motorino, l’eleganza degli edifici barocchi e la percezione scarnificata, quasi metafisica, delle periferie. E’ un modo per accorgersi che siamo vivi, contraddittori e, in ultimo, inaccessibili senza un’attenzione estetica disordinata (5)».

Abbassare lo sguardo, come consiglia Strumia, è utile e forse anche necessario anche per evitare di cadere in quella che Alberti definiva «la vuota buca che m’avvisa delle tenebre/ di quello che m’aspetta». Ma se nello stesso tempo ha ragione anche Krumm, quando scrive che «qui neppure un capello andrà perduto» (nemmeno «un pezzo di motocicletta, un water-closet gettato dall’alto, un gatto morto gettato su un mucchio di rifiuti alla voltata d’un cantone» – scriveva Alberti a proposito di Trastevere) forse è proprio perché l’identità della città è racchiusa tutta nella sua complessa stratificazione. Come una barriera corallina che si è formate dalle incrostazioni dei microrganismi che si sono succeduti nel corso del tempo sulla sua superficie.  O se preferite un collage surrealista creato dal capriccio di una sconosciuta divinità.

Le buche di Roma non sono semplici cavità del terreno, appaiono piuttosto discontinuità del continuum spazio-temporale nel quale il passato e il futuro di ogni umana esistenza, la viltà e la gloria, il bello e il brutto si danno la mano («siamo vivi, contraddittori e, in ultimo, inaccessibili senza un’attenzione estetica disordinata» avvertiva Filippo Strumia).

I poeti di tutte le latitudini ne saranno forse irresistibilmente attratti, ma si consiglia comunque di fare attenzione per evitare di caderci dentro.

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1 Trad. di Vittorio Bodini, da Antologia della poesia spagnola e ispanoamericana, La biblioteca di Repubblica, Roma 2004, p. 389

2In Respiro, Mondadori, Milano 2005, p. 55

3Ibidem, p. 56

4Tratto da: La poetica della post-poesia di Guido Mazzoni con intervista esclusiva, apparsa sul blog «Ilvascellofantasma.it» pubblicato il 10/03/2018.

5Tratto da: Il mondo visto dal basso di Filippo Strumia con intervista esclusiva, apparsa sul blog «Ilvascellofantasma.it» pubblicato l’1/02/2018

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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