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Francesco Filia – Parole per la resa

di Daniele Ventre

L’attività poetica di Francesco Filia, che prende le mosse da un’aurea silloge del 2012, La neve, (Faraeditore), ed è proseguita con la visione etico-politica de La zona rossa (Il laboratorio ed. 2015) tocca con Parole per la resa (CartaCanta 2017) un’ulteriore fase evolutiva.

“Parole per la resa” è un’opera amara e stratificata, che non smentisce la continua tensione innovativa dell’autore, sia sul piano formale, sia sul piano dei contenuti. Nel suo stile scabro e abrupto, questa poesia rivela così un’inesauribile potenzialità di parola creatrice, senza che si ricada mai nel seriale, al di là dell’apparenza ricorsiva di determinate strutture interne al suo dipanarsi.

Sin nel titolo, ambiguo, l’orizzonte poetico dei nuovi versi di Filia si determina all’interno di una rete di parole chiave ominose. Leitwort latore di presagio, la “resa”, che è lo scopo insito della parola, la cui funzione così viene riscoperta, oscilla fra la volontà di “rendere” e articolare il mondo, che nell’atto della sua rinominazione poietica viene così restituito, rettificato, la necessità di trasformare quest’atto di rendere in parole il mondo in una compiuta hermeneia, interpretazione, traduzione, codificazione, stile, e la coazione ad arrendersi al mondo, che la parola deve subire, sia in senso positivo, come resa latrice di refutazione, correzione e futura acquisizione di forza conoscitiva, sia in senso negativo, come accettazione stoica di una sconfitta necessaria (1).

Momento cardine di questo dipanarsi della resa, dopo la sezione introduttiva che all’opera dà il titolo, la seconda sezione della raccolta, Diario di una vacanza, procede essa stessa, nei sub-titoli dei singoli mini-capitoli in versi, fra “l’azzurro cupo di questa stanza”, dove “cupo” è il tono di fondo della realtà locale dell’esistenza, e “l’immenso che ci travolge”, un infinito senza scopo, non rassicurante, ma annientatore, in cui “l’ordine” (che dà il titolo alla terza sezione) è una parentesi breve prima della “memoria del vuoto”, punto d’approdo della chenosi, dello svuotamento dell’essere originario, e de “l’inizio rimasto”, punto d’avvio dell’essere che è anche, nello stesso tempo, fenomeno residuale e terminale. Se, come per Dante, “non è sanza ragion l’andare al cupo”, e se la chenosi è al contempo svuotamento deiettivo dell’esistente, ma anche svuotamento mistico dell’io lanciato verso l’indiamento al culmine della sinderesi, ecco allora che la duplicità intrinseca della resa a cui il titolo allude, finisce per identificarsi compiutamente in un discorso poetico che nelle sue tappe si configura al tempo stesso come inabissamento ed elevazione, in una coincidentia oppositorum debordante e anomala.

Le parole votate alla resa si rivelano così piene e vuote al contempo, in equilibrio drammaticamente precario come il funambolo di nietzscheana memoria. E di questo equilibrio dialettico precario, incerto, incompiuto, senza sintesi superatrice e senza spiraglio di rivoluzione, sono spia anche le dinamiche relazionali dei referenti pronominali in cui l’io autoriale si frammenta, e in cui si rispecchia ed è rispecchiato, riflette ed è riflesso.

Corollario di questo quasi neoleopardiano oscillare fra resa a restituzione, questa stanza e l’immenso, l’abisso e la sinderesi, è l’impiego di verbi come “stridere”, “spezzarsi”, “staccarsi”, “sbriciolarsi”, “scavare”, “implodere”, “amputare”, “divorare”, “spazzare”, “pietrificare”. Sono verbi che toccano il nodo essenziale dello status ambiguo del poeta, delineandolo con ruvidezza, sia nell’impasto fonico dissonante e aspro, sia nel senso, correlato al semantema dello squartamento, ed evocano, com altri hanno già avuto modo di rilevare, il tema della parola dilaniante, di cui alle Lebensschatten di Erich Fried (Ein Dichter/ist einer/den Worte/noch halbwegs/zusammenfügen//wenn er Glück hat /Wenn er Unglück hat/reißen die Worte/ihn auseinander “Un poeta / è uno / che le parole / grosso modo / assemblano / se ha fortuna / Se è sfortunato / le parole / lo squartano”). (2)

Questa ambiguità dilaniata e dilaniante si riflette in modo organico nella forma versale del testo. Per quanto l’ordine ritmico della poesia di Parole per la resa sia di fatto dominato da strutture versolibere, quando non atonali, Filia vi trasfonde in modo originale e autonomo quella tendenza all’emersione nel testo di cripto-endecasillabi. Alla parola che rende e si arrende si imprime così un ritmo sotterraneo, che della sua duplicità è misura.

In tal modo si condensa l’atmosfera di una resa prossima all’abbandono, ma anche, nello stesso tempo, la natura aberrante di chi, facendo poesia, si trova nella condizione duplice di essere lacerato e di fondersi con un assoluto, la cui connotazione resta peraltro da precisare. Fra questo prometeismo del quotidiano e la benedizione della rinuncia, la poesia filosofica di Filia trova così la sua intima consistenza e la ragione ultima del suo impegno ontologico (3)

_____________________________________
(1) Così Maria Anna Curci su Poetarum silva
(2) Così Giulio Mafii su Carteggi Letterari
(3) Così Gianni Montieri su La balena bianca
* * *

Da Parole per la resa, di Francesco Filia, CartaCanta, Napoli, 2017

Intorno alla natura delle cose non diremo parola
di troppo, dimoreremo nelle radici
di un ulivo secolare, nella terra penetrata e madre
nel fruscio verde-matto di questa stagione.
Ci ritroveranno nel silenzio di un frutto
caduto. Il cerchio dei giorni macina limpido olio
e morchia.

*

C’è qualcosa che preme le tempie
le schiaccia, dopo una prima
accennata resistenza, le penetra
come un chiodo che affonda
nel cavo di un mattone e il dolore
si fa preciso, concentrato. Questa,
mi sembra, la chiamino vita.
La pressione dell’aria sul viso
in quest’alba o il freddo contatto
del pavimento sulla guancia, l’infinito
smarrirsi dell’occhio nella fuga
di una mattonella. Diventare
nient’altro che spazio, mera
estensione, variazione minima del male.

*
Dobbiamo consegnare le parole della resa.
È l’ultimo compito rimastoci, nessun
testamento, ma un relitto di carta
lasciato marcire nell’acqua buia
di queste ore. Vederlo sprofondare
l’inchiostro diluirsi, slabbrarsi le parole
macchia informe sul bianco del tempo.

*

La resa alla ruggine dei corrimani
ai nostri respiri concitati, al diluvio
di acqua e tempo nelle strade
allo scandire perfetto delle ore
arrendersi al ritmo elementare della vita
fino alla linea di resistenza di un pugno
che afferra l’aria e insorge,
sudore e nervi tesi, fino
all’attrito dell’adolescenza
che ritorna di colpo, fino
a quegli occhi, sparuti e indomiti.

*

Tornano spellati e avvolti in un’aura di sale e luce
(prede si dibattono nella rete a tracolla ancora vive)
fantasmi nelle tenebre imminenti delle otto di sera
nei loro occhi una gioia feroce, l’adolescenza,
la certezza dei giorni futuri, uno sterminio.

*

VI – L’immenso che ci travolge

Eco – notte – la spiaggia ghiaia e ciottoli
solcano, netti, la pelle. La schiena inarca
il desiderio che ci abita, attende
tra costellazioni e il vortice
di un cielo lontano e adesso sappiamo
che questo contare e ricontare le stelle,
misurarle con le dita a sestante, un gioco non è.
Il gonfiarsi cupo delle onde. L’enorme
abbraccio degli abissi. La vita
primordiale che li abita, noi due lì giù
annegati obliati avvinghiati, cibo
per l’eterno. Il buio abita
il mare, il firmamento oltre le stelle, il solo,
il vero, l’unico buio. La voragine del cielo.
La furia cobalto di questa marea. L’immenso che ci travolge.

*

XIII L’azzurro cupo di questa stanza

Un secondo è durato, abbiamo
provato quel freddo che solo d’agosto
si prova, quel gelo, mentre ti stringevo i polsi e tentavo –
sentivo toccarsi la punta del pollice e del medio,
come un cerchio che si chiude troppo tardi –
disperatamente di amarti,
di nutrirmi della tua luce – da bambino facevo
lo stesso con il polso di mio padre, ma non riuscivo
provavo, tendevo le falangi, ma non riuscivo sentivo solo
gli spigoli delle sue ossa – di nutrirmi,
fame che mi abita la carne,
di ciò che non sarà mio.
Non servirà pregare
non saranno un invocare queste parole,
ma una conseguenza logica, il mostrare, nient’altro, lo sai,
che ogni cosa è se stessa.

*

Ricominciamo da questa sottrazione
di gesti, da una carezza accennata,
dall’odore di resina, dalla lontananza
di due visi che si sfiorano. L’ombra
che ci separa è la giustizia richiesta
la sentenza che ci rende veri, finiti
fissati in una goccia d’ambra.

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3 Commenti

  1. Mi ritrovo in grande sintonia con questa profonda lettura di Daniele Ventre del libro di Francesco Filia. Lacerazione e tensione all’assoluto sono davvero gli elementi di base imprescindibili di questa poesia. E mi permetto di riportare delle righe di un mio messaggio privato a Francesco, inviatogli appena dopo aver chiuso l’ultima pagina della raccolta.

    “Trovo che questo tuo libro sia un viaggio dal sapore ultimativo, un cammino verso il tuo-nostro centro più profondo, il desiderio insaziato di conoscere l’ignoto in cui siamo immersi. E questa ansia inesausta si fa per te essenza stessa del vivere, sguardo attonito, chiodo dolorante. Le parole per la resa divengono via via più chiare e non procrastinabili, nella consapevolezza di riconoscerci quali siamo, marginalissimi residui di una spirale divorante, implacabile. Vi è perfino un certo horror vacui, un ritorno nel nulla da cui proveniamo, quasi corteggiato fin dall’infanzia, nell’abbandono sgomento e insieme gioioso all’onda, sotto il pelo d’acqua… Domina poi -scelta direi magistrale- la ripetizione ipnotica di due titoli che si inseguono come anafore insistenti lungo molte pagine, quasi a tradurre ostinatamente una pulsione ineludibile, il proiettarsi quotidiano del pensiero verso il superamento di quella soglia celaniana, quel varco nell’oltre la cui conoscenza non ci è dato penetrare. Perfino l’amore accade come atto enigmatico, un sussulto di vertigine che è necessità umana e insieme voce del nulla cosmico.
    Forse questa visione scura dell’esistenza e del suo oltre, che percepisco autentica e divorante, può non incontrare il gusto di molti lettori assuefatti a poetiche di ben più lieve spessore e a visioni meno pregnanti di interrogazioni, ma tant’è. Ogni vero poeta non può non seguire il proprio Es che detta, così tutto procederà sulla scia di domande irrisposte o di una via di fuga che pure intravedi, verso un territorio che ti apre un non so che di assoluto, di pacificante.
    Intensi i testi in dialogo col padre morente, in cui sembra quasi alternarsi tra le due anime il messaggio di una misteriosa consegna. La raccolta si chiude con le bellissime poesie de L’inizio rimasto, testi rapinosi, dal respiro classico, che rende dolce il nostro imperscrutabile destino, quella ‘forza che prosciuga le correnti’. ”

    Un caro saluto,
    Annamaria Ferramosca

    • Cara Annamaria, le tue parole, come quelle di Daniele e come in precedenza quelle di Anna Maria Curci per Poetarum, Gianni Montieri e Giulio Maffii, colgono aspetti centrali del mio testo e anche luoghi oscuri, che affiorano appena alla coscienza di chi scrive, come è giusto che sia. Il confronto con letture attente e puntuali illumina di una luce nuova anche per me questo libro. Ti ringrazio per il commento, ringrazio Daniele Ventre per il suo articolo e con lui la redazione tutta di NI.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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