Les nouveaux réalistes: Luigi Calafiori

Lettera 22

di

Luigi Calafiori

 

Ti vedo, che sei distante. Ogni tanto volto lo sguardo verso di te, con la scusa di aver visto una formica che continua a muoversi sull’uscio di casa tua, come a rincorrere l’unico riflesso di sole che si rifrange sul ballatoio. Alla terza volta, ho smesso anche di giustificarmi. Alla quinta, di nascondermi. Passo un’interminabile serie di minuti a guardarti, senza avere paura che tu possa scoprirmi, perché tanto lo sai benissimo che lo faccio. E lo vedo, che ti piace.

Lo vedo perché hai la mascella tutta in avanti, che copre la mandibola, a rivelare la tua natura di primate. Ma se è vero che l’amore è un sentimento primitivo, il tuo è un gesto primitivo. E ci ritroviamo, insieme, a sostenere questo gioco che però non va oltre il contatto, e rimane come increspato sulla superficie di tutti momenti che trascorriamo insieme.

Quello che immagino di noi è solo il riflesso dei miei desideri che svanisce, nel momento in cui tu poi non mi parli. Leggo nei tuoi occhi che non te ne frega proprio niente di me. Soprattutto adesso.

Allora, cerco di distrarmi, e penso a tutte le tipologie di protesi parziali rimovibili. Mi viene in mente il caso di Marianna – nome di cortesia – che ha avuto delle complicanze, dopo che le hanno tolto una ciste radicolare. Chissà qual è la storia dei tuoi denti. Mi piacerebbe scoprirla.

Appena ti guardo, però, penso solo che vorrei arrivare a scalfirti lo smalto, e devo ammettere che mi piace l’idea che possa lasciare qualcosa di me nella tua bocca. Esattamente come tu fai con la mia, tutte le volte che volevo baciarti e non ho potuto. Tutte le volte che avrei voluto conoscerti, e mi hai mandato via.

Abbiamo festeggiato tre anniversari, da quando hai traslocato nell’appartamento affianco al mio.

Il 7 aprile di ogni anno, ci ritroviamo l’uno vicino all’altro, sul ballatoio dove ci siamo conosciuti.

Ricordo ancora il giorno in cui sei arrivato. Mi hai chiesto una mano per trasportare il resto della roba che avevi in macchina. La sera, per ringraziarmi, mi hai invitato a bere un calice di vino a casa tua. Abbiamo parlato delle nostre vite. Mi hai raccontato della tua passione per la scrittura, mi hai fatto leggere i tuoi racconti. E io ti sono stato ad ascoltare, per ore.

Poi mi hai mostrato la tua macchina da scrivere, una Lettera 22 prima edizione. Apparteneva a mio padre, mi hai detto. È stato uno dei designer che l’hanno progettata. La stai conservando per un’occasione importante. Non ti serve a scrivere i racconti, per quelli c’è il computer. Mi hai detto che l’avresti usata, per la prima volta, se mai avessi incontrato una persona a cui dedicare le tue parole.

Quella sera l’abbiamo passata a riderci nelle bocche. A vicenda. Le tue braccia s’incrociavano ripetutamente sulle tue gambe. Immaginai che stessi cercando di nascondere l’erezione sotto i pantaloni, e il desiderio che la mia mano svelasse la tua voglia di avermi.

Mi piaceva il tuo pudore nel cercarmi. Quando mi beccavi a guardarti, non riuscivi più a continuare i tuoi monologhi, e ti fermavi. Con una scusa cercavi di farmi guardare da un’altra parte – io lo capivo e ti assecondavo. Tutte le volte.

Quando ci siamo salutati, quella sera, mi hai detto che non avresti mai immaginato un benvenuto migliore. Ti avevano detto che Torino era una città fredda, ma io ti avevo dato prova del contrario. Ero stato gentile con te. Forse volevi portarmi a letto, ma non ho voluto. Ho avuto paura che fosse come su Grindr. Scambiamo qualche messaggio in chat, impariamo a conoscere l’uno le lenzuola dell’altro e ci salutiamo con una debole stretta di mano e un caffè amaro, bevuto d’un colpo e per cortesia.

Invece, c’è voluto del tempo prima che mi fidassi di te. Dovevo studiarti, come si fa con le cose complesse.

Un anno dopo il nostro primo incontro, ti ho detto che avevo capito dei tuoi sentimenti da come articolavi il tuo silenzio. A riposo, i tuoi canini inferiori scorrevano in avanti andando a toccare quelli superiori. Mi hai detto che stavi passando un brutto periodo, che non riuscivi a capirci più niente. E quando ti ho chiesto di definirmi questo niente che ti preoccupava, non sei riuscito a trovare le parole. Ma come fai a scrivere senza parole? Ti ho chiesto.

Tu mi hai mandato via da casa, e non hai più parlato con me.

Quando ti salutavo sulla tromba delle scale, non rispondevi neanche ai miei sguardi. Hai comprato uno stendibiancheria su Amazon pur di non incrociarmi sul ballatoio – ho visto il corriere che ti consegnava il pacco, dalla finestra della mia camera da letto.

Una volta ti son cadute le chiavi di casa dalla tasca dei jeans. Ti ho chiamato perché volevo restituirtele, ma hai fatto finta di non sentirmi. Avevi bisogno di allontanarti da me.

Per questo, quando l’altro giorno mi hai rivolto la parola, non potevo crederci. Ho pensato che finalmente avessi ritrovato il coraggio, che è una cosa che entrambi abbiamo perso da tempo, forse non abbiamo mai avuto.

Mi hai guardato di sfuggita e mi hai detto: ciao Achille, ho trovato lavoro a Siena, domani trasloco, stasera vieni da me? Volevo risponderti di no, ma mi sono ritrovato con la faccia sotto al tuo cuscino, perché a te non piace che qualcuno ti guardi.

Subito dopo, mi hai offerto un caffè. E abbiamo iniziato a scrivere su un foglio di carta una lista interminabile dei coraggi-di.

Il-coraggio-di-partire.

Il-coraggio-di-non-pulire-la-scatoletta-del-tonno-prima-di-gettarla-nella-spazzatura.

Il-coraggio-di-rifiutare-un-voto-basso-all’-Università.

Il-coraggio-di-litigare-col-proprio-migliore-amico.

Il-coraggio-di-non-usare-google-maps-quando-si-deve-raggiungere-un-posto-che-non-si-conosce.

Il-coraggio-di-comprare-dell’-erba-dal-nero-sotto-casa.

Il-coraggio-di-dire-ai-tuoi-genitori-che-hai-sbagliato-corso-di-studi.

Il-coraggio-di-avere-un-lavoro.

Il-coraggio-di-andare-con-uno-sconosciuto.

Il-coraggio-di-lasciare-tutto-e-andare-via.

Ma quando ti ho detto che volevo inserire il-coraggio-di-restare, hai sbuffato e mi hai detto che è una debolezza. Allora io ti ho chiesto come fosse possibile che un semplice medico e futuro dentista fosse interessato all’amore più di un aspirante scrittore.

Tu mi hai risposto che oggi l’amore non interessa più a nessuno, perché nessuno ha più voglia di approfondire un caffè preso al volo e di fretta. E c’è chi, come gli inglesi e i tedeschi, neanche lo beve il caffè. Noi italiani siamo un po’ nostalgici, invece, ma le cose stanno cambiando. Anche per noi. E io, per un attimo, ho capito questa cosa delle emozioni forti e amare che si bruciano subito.

Mentre ti scrivo questa lettera, e tu non lo sai, continuo a guardare la linea del tuo sorriso, che corre parallela al labbro superiore.

Allora, prendo la penna e aggiungo un altro elemento alla lista che abbiamo scritto durante la notte.

Il-coraggio-di-dirti-le-cose-che-non-mi-piacciono-di-te.

Tu leggi e mi sorridi. Finalmente, mi mostri i tuoi denti, di nuovo. Non mi piace come sorridi, ti dico. Allora prendi la custodia della tua Lettera 22 e la metti sul tavolo: Te la regalo. Serve più a te che a me, mi dici.

E non mi piace il movimento che fai, quando ti pieghi a raccogliere la spazzatura, facendo attenzione a non confondere la busta della plastica con l’indifferenziata. Non mi piace come riponi i tuoi vestiti nella valigia che stai riempiendo. Le maglie prima dei pantaloni, inserite in verticale e non in orizzontale, per occupare meno spazio. Non mi piace come ti lavi i capelli, sotto la doccia, svuotando mezzo tubetto di Shampoo per lasciarli lisci e profumati. Non mi piace il panino che ti sei preparato, la mortadella è tutta colesterolo.

Ancora, non mi piace l’eccessiva premura che hai nel controllare, ogni volta, se hai chiuso bene la porta di casa. Non mi piace la precisione esatta con cui misuri i tuoi movimenti – il numero di passi che fai, sempre gli stessi, cinquantatré, dal nostro ballatoio fino al portone del palazzo. Dieci in meno, rispetto ai miei. Ma son quelli che ci metto io per arrivare a casa tua.

Non mi piace come non mi guardi mentre te ne vai. E proprio non mi piace che te ne vai.

Mentre concludo questa lettera, tu non ci sei già più. Non mi hai neanche dato la possibilità di chiederti se volevi un altro caffè prima di partire.

Ogni tanto volto lo sguardo verso l’uscio della porta, con la scusa di controllare se la formica di prima ci sia ancora. Si muove avanti e indietro, sempre a rincorrere quell’unico bagliore di luce che si rifrange sul ballatoio. Forse, anche lei sta inseguendo chissà quali desideri. Forse anche lei non ha più il coraggio di restare.

 

 

 

 

 

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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