Perdersi a Teheran
di Gianni Biondillo
Quando dico che voglio farmela a piedi vedo Kamran impallidire. Siamo alla fiera internazionale del libro di Teheran, seduti uno affianco all’altro. Il paese ospite del 2017 è l’Italia. Sono qui insomma nella mia forma anfibia di scrittore e architetto a parlare della mia città, Milano. Kamran è un architetto dai modi gentili e dall’italiano impeccabile. Mi ci sto abituando. La gentilezza sembra una caratteristica innata negli iraniani. Ovunque sia stato in queste terre ho ricevuto un’accoglienza festosa ai limiti dell’imbarazzo. Il concetto della sacralità dell’ospite qui è incarnato nella sua forma più pura. Ho girato a Shiraz, Yadz, Esfahan, assieme a Guido Scarabottolo e Marco Belpoliti. Non c’era volta che qualcuno ci fermasse, volesse chiacchierare con noi, oppure volesse offrirci qualcosa da bere o da mangiare. I pregiudizi occidentali si frantumano appena si mette piede in Iran. Sembra impossibile farci una guerra con questo popolo. Ripenso a quando raccontai all’amico col passaporto statunitense che sarei andato in Iran. Sgranò gli occhi, terrorizzato. Stavo andando nel cuore dell’impero del male, a suo dire.
Sono due i modi che ho di capire una città, spiego ai presenti. Una è girarci in metropolitana. La rete della mobilità pubblica racconta molte cose dell’economia, la vivibilità, l’urbanistica di una metropoli. A Teheran la metropolitana è arrivata tardi, meno di venti anni fa. Una città di queste dimensioni avrebbe bisogno del doppio delle linee realizzate. I vagoni sono sempre pieni di gente, le distanze da coprire impressionanti. Nei primi giorni mi sono mosso così, uscendo dalla pancia della città puntualmente là dove occorreva. Sopratutto in centro, anche se parlare di centro è una piccola forzatura. Teheran è capitale da soli due secoli. I suoi monumenti insigni sono rari e relativamente moderni, rispetto la millenaria storia di queste terre. Da buon turista ho visitato il Palazzo Golenstan, il museo nazionale, persino le residenze dello Scià, costruite con quel gusto nobiliare e “occidentalista” al limite fra il sublime e il kitsch. Molto più interessante il Bazar. Smisurato, eppure ordinato, efficiente, come sono gli iraniani. Nulla a che vedere con i suk del Cairo o del resto del mondo arabo, affascinanti e caotici.
D’altronde gli abitanti di Teheran non sono arabi. Sembra una banalità ribadirlo, ma per chi ha una visione monodimensionale del mondo, l’Iran è una continua messa alla prova dei propri pregiudizi. Quando scendi dall’aeroplano le scritte in arabo ti ingannano. Poi appena li senti parlare capisci che la loro lingua non ha nulla a che vedere con le lingue semite. Sai che sono musulmani, ma da buon occidentale ignorante, non distingui la differenza che c’è fra sunniti – il resto del mondo – e sciiti. Loro. Che, alla fin fine, sono persiani. È quello che mi dicono di continuo. Veniamo da lontano, abbiamo migliaia di anni di storia sulle spalle. Siamo un popolo di costruttori, di architetti. E di ingegneri, aggiungo. La più alta presenza di laureati in ingegneria procapite al mondo, dopo la Cina.
Un popolo colto. E vanesio. L’obbligo del velo, per dire, ha infinite declinazioni in città. Ognuna di queste esprime una posizione politica, culturale, generazionale. Dal classico chador nero, conservatore e passatista, agli infiniti e coloratissimi foulard che, di ragazza in ragazza, scoprono sempre più il capo e la nuca, mostrando acconciature e make up impeccabili. E nasi rifatti. L’Iran è il paradiso della rinoplastica. L’esibizione dei cerotti al naso postoperatori è costante. Sia da parte delle donne che degli uomini.
Insomma, la Teheran postrivoluzione, cupa e in bianco e nero raccontata magistralmente da Marjane Satrapi è molto differente da questa swinging Teheran, fatta di locali notturni, ristoranti, gallerie d’arte, feste private, cantanti di strada. I ritratti dei martiri che tempestano i muri della città sembrano non fare colpo sui suoi giovani abitanti. L’età media degli iraniani è 27 anni. La maggior parte della popolazione non ha vissuto gli anni bui e strazianti della guerra contro l’Iraq. Sembrano tutti affamati di vita, di novità, di leggerezza.
A piedi, ribadisco. Kamran scuote il capo. “Credo sia impossibile attraversare Teheran a piedi” mi dice, infine, quasi scusandosi per avermi contraddetto. In realtà ha ragione lui. Non ho molto tempo per visitare tutte le architetture contemporanee che sono state costruite in questi anni. Il dopoguerra ha fatto esplodere il settore edilizio, dando l’opportunità ai giovani talenti di sperimentare forme, spazi, materiali. Un’intera generazione di architetti che ha studiato in Europa, in America, in Giappone, che naviga su internet, che studia e che ora costruisce senza complessi d’inferiorità o timori provincialistici. Sono i progettisti di una nuova borghesia, ricca e colta, antipauperista. Gaudente. Teheran ha dimensioni spaventose. Otto milioni di abitanti che raddoppiano contando l’area metropolitana. Quasi ottocento chilometri quadrati di edifici che premono dall’altopiano sulle pendici dei monti Elburz. Le distanze e le differenze altimentriche da sud a nord della metropoli sono tali che potrebbe nevicare in una parte della città mentre nell’altra splendere il sole. Ci vorrebbe una macchina per poter visitare le ville borghesi, i grattacieli residenziali, i complessi sportivi, gli alberghi, gli spazi espositivi che stanno facendo Teheran una capitale dell’architettura contemporanea in Asia (e non solo).
Ma io la macchina non ce l’ho. E neppure la patente. E poi l’altro metodo, spiego ai pochi rimasti ad ascoltarci, è proprio quello di camminare. Solo così capisco com’è fatta una metropoli. Comprendo il suo livello di sostenibilità e di sviluppo potenziale. Una città non è fatta solo di monumenti. Una città non è un poema, e semmai un romanzo, pieno di pagine di prosa farraginosa, pesante, compilativa. Il mood di una città non lo fa la singola emergenza ma l’anonimo tessuto connettivo.
La mattina appresso mi muovo di buon’ora. Mi lascio alle spalle il khaniano Museo d’arte contemporanea di Kamran Diba (bello e con una collezione che toglie il fiato) e mi inoltro nel parco Laleh, una delle poche emergenze verdi in una metropoli soffocata dal traffico e dal cemento. E pensare che “paradiso” è una parola persiana che significa “giardino”. Per quello che fu un popolo di abitanti del deserto un giardino è il paradiso in terra. Il mio errore è che mi immetto subito dopo nell’arteria di Doctor Fatemi street. Qui il traffico è senza posa. Tutta Teheran è una griglia di strade a più corsie, una rete che intrappola le macchine, piuttosto che farle scorrere. Anche solo pensare di attraversare la strada è un atto di fede. Nessuno si ferma, occorre gettarsi nel fiume di lamiere augurandoci di sopravvivere ogni volta. L’aria è sporca di polveri sottili e smog. Neppure a Città del Messico ho avuto questa sensazione di soffocamento. Tutti si muovono in automobile. Tutti. I ragazzi che mi hanno accompagnato in questi giorni mi hanno confessato, candidi, di non aver mai preso la metropolitana in vita loro. L’automobile è il mezzo di espressione più evidente della loro emancipazione di classe. Fra una generazione la rinoplastica verrà sostituita dalla pneumatologia nei loro studi universitari. In fondo alla strada vedo emergere l’affasciante mole del ministero degli interni, variazione iraniana di un brutalismo d’altri tempi. Io però preferisco infilarmi in una strada secondaria. Evito il traffico, muovendomi in isolati più compatti, lasciandomi andare alla deriva, con l’unica regola di evitare le grandi arterie.
Da qui in poi, muovendomi generalmente verso nord est, mi perdo in una architettura minore, a metà fra residui di eredità razionalista, speculazione di bassa qualità e nuovo edificato che tenta di imitare improbabili stili internazionali, vernacolari, pseudo-classici, para-decò. Un desiderio di rinnovamento caotico, spurio, spesso solo di facciata. Trash. Tipico, a pensarci, di ogni metropoli contemporanea. Non esiste un progetto di arredo urbano coerente, ogni edificio privato rifà il suo pezzo di marciapiede, chi in pietra, chi in mattoni, chi in cemento. Cammino così in un incongruente spazio pubblico, residuale per i suoi abitanti, che lo vivono con indifferenza. Attraverso le strade a otto corsie grazie a cavalcavia pedonali che mi permettono una visione dall’alto del traffico, poi mi ributto nel chiuso dei quartieri residenziali. Così, per chilometri.
La densità dell’incasato è impressionante. Teheran ha cambiato faccia più e più volte, in un’orgia edificatoria senza regole. La devastazione del terremoto del 1990 a qualche centinaio di chilometri dalla capitale – oltre 40 mila morti – sembra non abbia lasciato memoria. A detta di molti sismologi iraniani la verità è che si dovrebbe spostare la capitale da qualche altra parte. Il prossimo movimento tellurico potrebbe radere al suolo buona parte della città, causando un numero di vittime di gran lunga più esorbitante. Giunto al Saiei Park faccio una pausa. Osservo i grattacieli in vetro e acciaio di Valiasr Street, così prevedibili nel loro linguaggio internazionalista. Come puoi far transumare quindici milioni di persone?, penso. È chiaro che il primo dei problemi è adeguare l’intero edificato – non solo quello di nuova fattura – a norme più severe. Sarebbe uno sforzo economico enorme, chiaro. Ma alla distanza il più redditizio.
La camminata si fa faticosa, andare verso nord significa cambiare di quota. Svincoli e hight way urbane consumano ogni possibile spazio pubblico. La profezia di Kamran sembra realizzarsi. Poi finalmente arrivo al Ports park. Gente, ovunque. Che passeggia, staziona, si sdraia sui prati, mangia qualcosa. Fra la voragine creata dalla Modares hightway, che la divide dal Taleghani park, svetta il nuovo simbolo di Teheran, il Tabiaat bridge. Tutte le persone che lo frequentano, e sono migliaia, sembrano smentire ogni funesta profezia. Il ponte è per tutti un punto di sosta, di scambio simbolico, di incontro fra una sponda e l’altra, sotto un fiume caotico di macchine. Un luogo da vivere, proprio come m’era capitato di osservare a Esfahan, dove i ponti storici sul fiume Zaiandè vengono utilizzati come piazze urbane dove discutere, cantare, camminare mano nella mano. Non è vero che a Teheran ci si possa muovere solo in macchina. I suoi abitanti, anzi, vorrebbero tornare a vivere e occupare lo spazio pubblico. E in un mondo dove si costruiscono sempre più muri, l’idea di un ponte come simbolo di una città non può che essere una buona notizia.
(pubblicato in forma più breve su Abitare, numero 569, novembre 2017. Le pessime foto fatte col cellulare scrauso sono mie)
Bellissimo pezzo, Gianni, portaci altrove