Quarant’anni per dirsi addio.
di Paola Caridi
“È difficile stabilire il momento in cui si prende commiato da una persona”
Nella tradizione popolare musulmana, in Egitto, si dice che per quaranta giorni l’anima della persona che muore se ne stia tra la terra e il cielo. Sono quaranta giorni di sospensione tra la nostalgia per la vita e la tensione verso ciò che c’è dopo l’esistenza terrena. Poi, alla fine dei quaranta giorni, l’anima trova finalmente la sua pace, scioglie il suo legame con la terra, e sale al cielo. Si libera. Chi rimane, scioglie a sua volta i lacci del lutto individuale e collettivo, e celebra con una festa collettiva e gioiosa l’anima che si libera e raggiunge un’altra dimensione, tutta spirituale.
È un commiato durato quarant’anni, quello che Roberto Alajmo ha preso da sua madre, morta forse per sua decisione quando il figlio aveva 18 anni. Il commiato dal trauma. Non dalla memoria. Il commiato dal dolore causato dall’abbandono. Non dalla nostalgia. Sino a L’Estate del ’78, il suo ultimo libro appena uscito per Sellerio, Alajmo era riuscito a tenere distinta la sua parte di figlio dal mestiere dello scrittore. Il privato mantenuto nella campana del riserbo, uno dei tratti distintivi dell’uomo. E quella storia, La Storia, che si affacciava per segni, per messaggi in codice in una produzione letteraria prolifica.
La Storia, però, era lì in attesa di una narrazione, che solo poteva arrivare nel ‘tempo giusto’ di una almeno parziale pacificazione. Il ‘tempo giusto’ inizia quando la distanza tra il figlio e i suoi genitori si assottiglia fino a scomparire.
Succede, a un certo punto della nostra vita, che diventiamo genitori dei nostri padri e delle nostre madri. Succede almeno a chi ha la fortuna di vederli invecchiare. Per gli altri, coloro che hanno avuto l’esperienza – determinante nella loro “formazione” – di perdere genitori giovani e con loro quell’amore disinteressato e totale di cui per sempre si sentirà l’assenza come un coltello nella carne, c’è il rimpianto di non averli visti crescere e invecchiare. C’è il rimpianto di averli lasciati – eterni – in uno scatto fotografico. Lì. E dopo quarant’anni lì. Ancora. Senza segni del tempo sui loro visi. E tante rughe sulla loro anima. Invecchiare, intanto, e ristabilire con l’assente una comunicazione che, dopo il passare del tempo, è fatta dell’illusione di conoscere cosa prova una madre – ora – di noi. Conoscerla come Elena, non solo come mamma. Entrare non tanto e non solo nei suoi panni, ma entrare nei pensieri di una donna matura senza più quel salto di generazione che rende un ragazzo figlio e una donna madre.
Elena e Vittorio – la madre e il padre – diventano così “due miei praticamente coetanei”, scrive Alajmo per spiegare ai lettori cosa intende fare attraverso il suo libro. L’obiettivo, tutto letterario nel più alto significato della parola, è narrare La Storia, rendersi lui stesso personaggio, ricostruire con una vera e propria indagine sui protagonisti cosa è successo alla sua famiglia da quando è nata (l’amore tra Elena e Vittorio) sino ai giorni più recenti. Soprattutto, cos’è successo a lei, Elena, la madre, l’artista, l’insegnante, la donna che – a leggerne il disagio – immaginiamo una personalità sensibile, fuori dal comune. Una donna che avrebbe voluto essere libera.
Elena è anche la rappresentante di una generazione di donne italiane vissute in una fase di passaggio. Gli anni Settanta, le battaglie sui diritti civili, il divorzio, il femminismo. La Sicilia e Palermo la immaginiamo periferia dell’Italia (ancor oggi, ahimé), ma l’impatto della transizione postbellica italiana non si ferma certo allo Stretto di Messina. La storia di Elena non è una storia siciliana. Anzi. Il medicinale che Elena prende per curare i mal di testa è il terribile strumento della modernità: lo strumento che ci salva dalla sofferenza. Peccato che quello stesso medicinale, lo Spasmo Oberon, diviene il deus ex machina di un percorso sempre più doloroso nella dipendenza al farmaco, nei ricoveri in clinica, nei tentativi di suicidio. Un medicinale è il primo segno dell’abbandono, per Alajmo bambino, e forse per molti altri bambini come lui, visto che lo Spasmo Oberon venne ritirato dal commercio nel 1986. Troppo tardi.
La conseguenza è, per Alajmo ormai uomo, quella cronicizzazione del trauma dell’abbandono. Quel tentativo costante di abituarsi al commiato. Nei sentimenti, soprattutto.
“Ottimizzare il dolore di ciascun commiato, sforzarsi di ricondurlo nell’alveo di ciò che è possibile sopportare. E sopportarlo”.
Anche l’ironia, che è la cifra di Alajmo, si ritira in disparte, in questo libro che non è un’autobiografia. L’autore, semmai, la definisce un’autoterapia, con la ritrosia di chi conosce la fatica non solo e non tanto dello scrivere, ma del comporre e soprattutto pubblicare La Storia. L’ironia si piega in un sorriso amaro. Rasenta, semmai, l’umorismo macabro che si incontra là dove la morte è ospite quotidiana, nelle guerre, nelle aree colme di tensione, nelle terre ormai intrise delle follie degli esseri umani.
Il funerale di Vittorio, il padre di Roberto, è un esempio perfetto. La bara che non entra nella tomba. Il granello di sabbia che irrompe nell’ingranaggio oliato delle composte cerimonie dell’addio. La reazione pragmatica, fredda di chi –gli addetti alla sepoltura – con il lutto campa la famiglia. ‘Dutturi, l’amu a tagghiare…’ E’ lo iato tra la vita/morte e la costruzione rituale che ci conforta e ci aiuta. È la realtà che irrompe con tutta la sua fisicità – questa sì irrituale – nel dolore, riconducendo chi rimane, i superstiti, nella dimensione impietosa dell’esistenza.
È lo schiaffo della realtà. Salutare.
Il coraggio della nudità, in questo libro, è l’elemento che travolge letteralmente chi legge. Come se, di fronte a questo testo, non fossimo pronti a essere agguantati e gettati nell’intimità più invisibile eppure necessaria. Non perché non vogliamo entrare in una storia tutta famigliare e personale. Come se spiassimo dal buco della serratura le vite degli altri. Al contrario. Il senso del transfert è così forte che la storia di Elena e Roberto, della madre e del figlio che a sua volta diviene finalmente padre, è la nostra storia famigliare e personale. L’estate del ’78 è una singolare macchina del tempo in cui siamo entrati per caso e che, repentinamente, decidiamo di guidare perché abbiamo necessità di ripercorrerlo noi, proprio noi, quel trauma. L’abbandono. Il commiato. La vita dopo il lutto. La ricostruzione.
E l’edificio narrativo costruito con precisione tecnica, con una chirurgica scelta di ogni parola, si trasforma lentamente, finalmente nella cappella funeraria alla propria madre, perché l’anima si plachi. E con le anime di Elena e Roberto, la nostra.
Roberto Alajmo si è fatto crescere una bella barba bianca. Corta e curata. Non è la barba che, un tempo, si faceva crescere incolta, per qualche giorno, nei riti consolatori del lutto, nel nostro sud. È una barba che sembra segnalare la presenza discreta di una serenità che accarezza l’anima, ferita per così tanto tempo.