1968. Il maggio francese che cominciava a marzo
di Daniel Bensaïd
Alexandre Kojève, filosofo spregiudicato e carismatico interprete di Hegel, nonché – nell’immediato dopoguerra – consulente diplomatico del Ministero francese dell’economia, liquidò sarcasticamente l’esperienza di Mai 68 : «Personne n’est mort, donc rien ne s’est passé». Kojève, invece, morì a giugno dello stesso anno, troppo presto, forse, per poter comprendere pienamente gli eventi di quella stagione. Daniel Bensaïd, tra i fondatori della Ligue Communiste Révolutionnaire con Alain Krivine, fu uno dei protagonisti del maggio francese impegnato, insieme a molti altri militanti della sua generazione, a produrre quelle “contaminazioni pericolose” tra movimento studentesco e movimento operaio, fabbrica e università, che restano a distanza di tempo, e a discapito di omissioni e revisionismi, uno dei tratti distintivi della rivolta del ’68, insieme alla spiccata vocazione internazionalista e anti-imperialista del movimento. Sous les pavés, la plage, certo, ma anche la grève et le luttes anticoloniales.
Qui sotto Bensaïd ricorda le capriole sui prati di Nanterre che segnarono l’inizio del maggio francese.
È scoccata l’ora…
La rentrée del 1967 aveva un sapore esplosivo. I bombardamenti americani in Vietnam s’intensificavano. In Francia, i decreti di De Gaulle provocavano un’impennata d’agitazione sociale. E dopo lo sciopero emblematico alla Rhodiaceta [una fabbrica tessile di Besançon], gli scioperi di Caen e Redon scatenavano sommosse.
Noi militavamo a tempo pieno sul campus di Nanterre, dove la Jeunesse Communiste Révolutionnaire (JCR) era bien impiantata [1]. “Nanterre-la-Folie” era un nome che le si addiceva alla perfezione. All’epoca i giornali la dipingevano come una terra di nessuno avvolta dal fango e circondata dalle bidonvilles – che Élie Kagan aveva fotografato durante gli anni della guerra d’Algeria – e da torri sparpagliate di case popolari. La stazione [di Nanterre] era una baracca fatiscente degna del Far West, perduta alle porte del deserto. Arrivati all’università trascorrevamo le giornate tra la caffetteria, la mensa e la casa dello studente, senza frequentare troppo gli anfiteatri; le riunioni si susseguivano.
Per la maggior parte del tempo facevamo causa comune con il gruppo degli anarchici di Jean-Pierre Duteuil e Daniel Cohn-Bendit. Quando una banda di fascisti di Occident [una formazione di estrema destra fondata nel 1964] venne a fare selvaggiamente incursione sul nostro territorio, quasi del tutto epurato dai fascisti, Xavier Langlade e Jacques Tarnero predisposero l’autodifesa di questo santuario inespugnabile. E quando [il preside della facoltà di lettere Pierre] Grappin, in deroga allo statuto accademico [che impediva alle forze dell’ordine di entrare in università senza l’accordo dell’istituzione], consentì alla polizia di intervenire negli edifici del campus, i poliziotti subirono la stessa sorte degli invasori fascisti e vennero rapidamente respinti fuori dalle mura.
Tutte queste attività, diverse e debordanti, non lasciavano tempo per lo studio. [Alain] Brossat ed io scrivevamo la tesi con Henri Lefebvre. Alain si confrontava coraggiosamente con « il concetto di cambiamento di terreno » in Althusser et Foucault. Io, invece, ispirato da un sesto senso politico, avevo scelto come tema « Il concetto di crisi rivoluzionaria in Lenin ». Lefebvre accettò con benevolenza di seguire le nostre ‘ricerche’ eterodosse. Nel frattempo avremmo dovuto assistere al seminario di Paul Ricœur su Cassirer e le forme simboliche, ma avevamo altro da fare che dilettarci con simili sottigliezze ermeneutiche, soprattutto considerando il fatto che all’epoca Ricoeur era percepito come il residuo fossile di un’epoca filosofica compiuta e condannata dalla storia a sparire per far spazio all’egemonia strutturalista. Quel poco che avevamo imparato, quell’anno, lo avevamo imparato per fatti nostri.
Brossat dispiegava le sue armi concettuali contro il “cambiamento di terreno”. Denise Avenas annotava meticolosamente Il Capitale per lanciare un gruppo di lettura sulla teoria del valore lavoro con alcuni liceali di Rueil [un comune ad ovest di Parigi, vicino Nanterre]. Alternando la lettura de L’Attrape-cœurs di Salinger e Les Choses di Perec, Martine [2] si dedicava con moderazione alla sociologia, concentrandosi principalmente sul romanzo poliziesco. E io, come l’autodidatta de La Nausea, leggevo in ordine cronologico le Opere quasi complete di Lenin, comprate di volta in volta in blocchi da cinque volumi a fine mese alla libreria Racine.
Intanto il movimento studentesco cresceva in Italia e in Germania. In pochissimi (membri della JCR e anarchici, ancora una volta) protestavamo sulla spianata deserta degli Invalides contro la repressione di cui erano stati vittime K. Modzelewski e J. Kuron in Polonia, distribuendo in giro la loro Lettera aperta al partito [il PZPR, Partito operaio unificato polacco] che avevamo tradotto. A febbraio 1968 partimmo nach Berlin per manifestare contro la guerra in Vietnam. Le manifestazioni internazionali non erano ancora all’ordine del giorno, ma Berlino, a cavallo tra le due Europe, era diventata la capitale della contestazione grazie all’« università critica » animata dagli studenti dell’SDS [3]. Il nome di Adorno non ci diceva un granché. Di Marcuse conoscevamo solo Eros e civiltà, tradotto da Boris Fraenkel per Les Éditions de Minuit; L’uomo a una dimensione sarebbe stato pubblicato solo in autunno. Invece sapevamo dell’influenza che Lefebvre e la sua critica della vita quotidiana esercitavano sull’Internazionale Situazionista.
Avevamo riempito un pullman da Nanterre per l’escursione berlinese. C’erano anche Manuel Castells, all’epoca assistente di sociologia, Paolo Paranagua, giovane surrealista figlio di un diplomatico brasiliano, e Sophie Petersen. Il viaggio, attraverso le pianure ricoperte dalla neve di gennaio, durò più di 24 ore. Per ammazzare il tempo, intonavamo canti rivoluzionari e seguivamo alla radio le prodezze di Jean-Claude Killy ai Giochi [olimpici invernali] di Grenoble. Quando arrivammo al confine con la Germania-Est e spiegammo che stavamo andando a Berlino per una buona causa, fummo accolti piuttosto bene dai vopos [4].
Alain Krivine aveva stretto ottimi rapporti con l’SDS. Il suo leader carismatico, Rudi Dutschke, ci venne a trovare il giorno prima della manifestazione. Subivamo il fascino magnetico che sprizzava maliziosamente questo ragazzo. Il giorno dopo, a mezzo secolo o quasi dall’assassinio di Rosa Luxemburg, sfilavamo in decine di migliaia lungo Kurfürstendamm. La folla di giovani scandiva allegramente: « Wir sind eine kleine, radicale Minderheit [5] ! ». Di ritorno a Parigi, la « piccola minoranza radicalizzata » raddoppiò d’entusiasmo. In questo clima di euforia diffusa, Xavier Langlade venne arrestato durante una manifestazione davanti alla sede dell’American Express. La mattina dopo, a colazione, Brossat suggerì di organizzare un’azione di solidarietà che rompesse la routine abituale. Invece di dispiegare ordinatamente i nostri striscioni, ci esercitammo a decorare con dei graffiti i muri delle aule e degli anfiteatri. In un’epoca in cui tag e stencil erano una rarità, quella semplice trasgressione grafica d’ispirazione situazionista ebbe un effetto detonatore. Sulle vetrate comparvero massime che inducevano a meditare : « La trasparenza non è trascendente ». Le mani anonime che avevano scritto queste parole non avrebbero mai immaginato che, trent’anni dopo, l’ideale della trasparenza sarebbe diventato il mantra del panopticon mediatico e che il « desiderio di trasparenza [transparition] [6] » avrebbe consumato la grande confraternita dei partigiani dell’apparire. Ma non importa: a maggio sarebbe scoppiata l’esplosione poetica sui muri.
Poco a poco, in un crescendo, la giornata culminò in apoteosi con la profanazione simbolica della sala del collegio docenti, occupata da una sessantina di ammutinati e ammutinate che avrebbero festeggiato l’impresa fino all’alba. Per dovere militante mi privai della gioia di partecipare a quell’evento: avevo organizzato una riunione con dei giovani lavoratori a Levallois. Sulla scia di quella giornata memorabile, decidemmo di lanciare un’iniziativa portes ouvertes all’università. Il sole ci facilitò il compito. Le commissioni se la spassavano sui prati tra le erbacce. Il movimento del 22 marzo [la vera data d’inizio del maggio francese] nacque da queste capriole. Si proclamava anti-imperialista (a sostegno del popolo indocinese e del popolo cubano), antiburocratico (solidale con [le proteste de]gli studenti polacchi e la primavera di Praga) e anticapitalista (a fianco degli operai di Caen e Redon).
Alla JCR approfittammo delle vacanze di Pasqua per riunirci. Finimmo quasi per picchiarci a colpi di sedie per una questione irrilevante che riguardava le elezioni del sindacato studentesco. Appoggiato dai sostenitori del sindacalismo tradizionale (tra cui Guy Hocquenghem e Henri Maler), Henri Weber [alla Sorbona] rimproverava noi di Nanterre per la nostra compromettente alleanza con i libertari. I falsi amici (nemici) lambertisti [un gruppo trotskista fondato nel 1953 da Pierre Lambert] mi accusarono di aver paragonato i sindacati ai bordelli e di aver trattato l’Unef [l’Unione Nazionale degli Studenti di Francia, il principale sindacato studentesco creato nel 1907] da puttana. Erano pure calunnie perché, senza volermi dare arie da femminista della prima ora, quello non era un lessico che mi apparteneva.
Eravamo arrivati a fin qui, quando fu la volta dell’attentato contro Rudi Dutschke, colpito a fuoco mentre andava in giro in bicicletta per le strade di Berlino. Dutschke era in coma tra la vita e la morte, ma noi lo ricordavamo pieno di energie mentre galvanizzava la manifestazione per il Vietnam a Berlino. Con gli anarchici decidemmo subito di andare a manifestare davanti all’ambasciata tedesca. Il corteo, però, stentava a disperdersi, e il passaparola fece circolare l’indicazione di un nuovo appuntamento sul Boulevard Saint-Michel. Qui la polizia intervenne per cercare di fermarci, ma l’intervento ebbe solo il risultato di far crescere la rabbia dei manifestanti. All’angolo della rue des Écoles qualsiasi oggetto si trasformava in proiettile: nella terrasse del Sélect Latin, bicchieri, tazze, sedie e tavoli iniziarono a volare ovunque. I segnali stradali vennero divelti e rovesciati, le grate strappate dai piedi degli alberi [sui marciapiedi]. Era uno di quei momenti imprevedibili in cui la paura dei berretti militari e dei manganelli si dissolveva come per incanto. Improvvisamente ci sentivamo invulnerabili. Certi segni impercettibili che annunciano un cambiamento imminente del clima spesso si comprendono solo dopo. Così, la manifestazione di Berlino ci sembrava a posteriori una sorta di prologo al Maggio 68, e le baruffe pasquali al Quartiere Latino ci apparvero come la prefigurazione delle barricate della rue Gay-Lussac.
Dopo questa fiammata, l’anno accademico sembrava doversi dispiegare a ruota libera. Era giunto il momento di pensare alla tesi su Lenin e la crisi. Con Martine partimmo in auto-stop per un ritiro studioso nella casetta di campagna di mia madre, a Saint-Pierre-la-Mer. Di passaggio a Tolosa, avevamo arringato un anfiteatro colmo di gente della facoltà Albert-Lautman (dal nome del logico Albert Lautman – zio di Alain Krivine – sterminato dai nazisti), raccontando per filo e per segno l’epopea di Nanterre. Su di giri, l’uditorio si mise in moto per partire in manifestazione scontrandosi con un gruppo di Occident (di cui faceva parte senza dubbio Bernard Antony, il futuro “Romain Marie” del Front National) per toglierlo di mezzo. Fratello minore del 22 marzo [parigino], era sorto il “movimento del 25 aprile”.
Poi partimmo per la costa dell’Aude con il sentimento di aver assolto al nostro dovere. Il tempo era splendido. Passavamo tante ore ad arrostirci sugli scogli annotando gli ingombranti volumi di Lenin. La mattina arrivavo in monopattino al porto di Brossolette per comprare Le Monde. Un giorno i titoli della prima pagina annunciavano che la Sorbona era stata invasa dalla polizia e che il Quartiere Latino era in sommossa. Rimpacchettammo rapidamente Lenin, i costumi da bagno e le creme solari.
La JCR aveva giudiziosamente riservato la grande sala della Mutualité per un incontro europeo il 9 maggio. Dovevo intervenire in qualità di militante del [movimento del] 22 marzo, a fianco di Ernest Mandel, Massimo Gorla (futuro deputato del parlamento italiano), Paolo Flores D’Arcais (diventato poi uno degli animatori dei girotondi contro Berlusconi insieme a Nanni Moretti) e Henri Weber. Il pomeriggio si tenne un sit-in improvvisato in piazza della Sorbona, durante il quale Dany Cohn-Bendit disse che Louis Aragon era una canaglia stalinista. Dopo un’ora cominciammo a preoccuparci per le sorti del nostro incontro [alla Mutualité]. Weber allora ebbe l’idea di affidarlo al movimento, inaugurando la tribuna e facendo sparire (con un’operazione no logo assolutamente inedita) le sigle che decoravano la sala. Cohn-Bendit si unì agli oratori presenti. Il giorno dopo fu la notte blu delle barricate.
La manifestazione di protesta contro la chiusura della Sorbona che partiva dal [la statua del] vecchio leone di [Piazza] Denfert[-Rocherau] giunse all’incrocio del Luxembourg, esitando ma senza disperdersi. D’improvviso sentimmo dei colpi pesanti. Era lo scollamento dei pavés. Provocazione? Innovazione? Ripetizione simbolica spontanea di un gesto che evocava i gloriosi antecedenti della rue Saint-Merri, della rue de la Fontaine-au-Roi […], della rue Ramponeau […], dell’incrocio di Ledru-Rollin […]?
Avevamo la sensazione che la foga si sarebbe propagata di notte dopo il tramonto. Sbucarono delle seghe da qualche parte, senza che capissimo bene da dove, e gli alberi vennero abbattuti. Le macchine rovesciate diventavano bastioni, con tanto di piombatoie e feritoie. Gli artefici delle barricate rivaleggiavano in creatività, come se stessero partecipando al un concorso per l’edificio sovversivo più bello, decorando i pavés di vasi di fiori, tessuti e pezzi di antiquariato.
La barricata la più generosamente inutile fu, ironia della sorte, costruita – di proposito o per sbaglio – davanti all’impasse Royer-Collard [una strada senza uscita]! Quelli che la difendevano, però, si mostravano del tutto refrattari a ogni ipotesi di resa.
All’alba, con gli occhi arrossati e pieni di lacrime, ci siamo ritrovati con Alain Krivine e qualche decina di superstiti sfiniti nel cortile della Normale, in Rue d’Ulm. E gli studenti maoisti della Normale, che se ne erano andati a dormire la sera prima deridendo questa infatuazione per il “giardinaggio piccolo-borghese”, rinsavivano imbarazzati dai loro illusioni scarlatte.
Così cominciava il maggio 68.
Note
[1] JCR, Jeunesse communiste révolutionnaire. Della nostra cerchia facevano parte Xavier Langlade, Bernard Conein, Jean-François Godchau, Nicole Lapierre, Marc Sandberg, Alain Frappard, Dominique e Florence Prudhomme, Camille Scalabrino, Alain Brossat, Denise Avenas, Martine ed io. Durante l’anno si unirono a noi Aron Barzman (figlio d’un scénariste américain victime du maccarthysme), Pierrette Bourgoin (la fille du colonel), Sophie Petersen (future conseillère à l’Élysée sous Mitterrand), Raymond Piscor, Danièle Schulman, Jacques Rzepsky, Manuel Castells (réfugié espagnol, militant d’Action communiste, alors jeune chargé de cours de socio), Évelyne Haas (la compagne de Serge July qui cosigna avec Alain Geismar et lui le mémorable Vers la guerre civile. Brigitte Jacque et Pascal Bonitzer firent des apparitions furtives.
[2] Martine Maurance, alors compagne de Daniel Bensaïd.
[3] SDS (Sozialistischer Deutscher Studentenbund) è la Lega tedesca degli studenti socialisti, vicina al Partito Socialdemocratico.
*Questo articolo è la traduzione (mia) di un testo pubblicato sul sito danielbensaid.org e estratto da D. Bensaïd, Une lente impatience, Stock, Paris, 2004 (in italiano, Una lenta impazienza, Alegre, Roma, 2012).
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Sembra interessante, ma la mia conocenza del francese è troppo scarsa per un testo così. È prevista una traduzione in un prossimo futuro? Grazie, Mirfet
tradotto!
Grazie di cuore. L’ho letto con piacere.
Non amo gli anniversari, men che meno questo. Parlano giovani giornalisti rampanti che non hanno vissuto quegli avvenimenti, parlano vecchi leaders, molti dei quali hanno abiurato a suon di contratti milionari e noi che c’eravamo, ma non eravamo nessuno, non parleremo mai. Nessuno ci inviterà a farlo.
La mia generazione? L’ha magistralmente descritta Gianni De Martino, fondatore di Mondo Beat. Non c’e’ bisogno di altre parole.
“E nel periodo del cosiddetto ‘riflusso’ – come si disse con metafora mestruale azzeccata per una generazione già definita come ‘proletariato biologico’ – ho potuto osservare che i più furbi, gettato il colletto alla Mao alle ortiche, occuparono poi i migliori posti nelle Università, nelle televisioni e nelle amministrazioni pubbliche e private, e si comprarono la Bmw e la cocaina tipica dei ‘tossici integrati’ degli anni Ottanta, in attesa di collegarsi via Internet e gettarsi a capofitto nella superstrada dell’informazione, nel sogno di una supposta o suggerita comunicazione globale o liberazione tramite costose protesi elettroniche. Questo mentre i più stupidi fra quelli che volevano dare l’assalto al cielo finivano in cura dai guru per una buona terapia a prezzi popolari; e i più poveri finivano in cessi insanguinati, con l’ago nella pancia, in qualche angolo della metropoli rischiarato d’irrealtà. Non so se quella sessantottina sia la peggiore generazione di egoisti, di pentiti e di opportunisti e psicopompi che l’Italia abbia mai conosciuto. So però che volevano mandare al potere l’immaginazione, la loro immaginazione. E che molti han dovuto vedere le proprie buone intenzioni rovesciarsi in cattivi effetti. Che li consoli un po’ di buona letteratura. Kafka, per esempio: ‘Non ci fa tanto male ricordare le nostre malefatte passate, quanto rivedere i cattivi effetti delle azioni che credevamo buone’. […] E’ qui, a Milano trent’anni dopo, che inciampo ancora nel corpo del mio essere sociale, lo rivolto con la punta del piede e lo trovo splendidamente decomposto. Al punto giusto per ritornare verso le portinerie delle case dalle finestre munite di solide inferriate e lampeggianti segnali pronti a dare ancora l’allarme; e i videocitofoni e gli orologi e le telecamere agli angoli di certe strade del centro con le banche vigilate notte e giorno; e poi le scale e gli uffici delle amministrazioni e delle Ussl disinfettate all’alba, tutti i santi giorni, con impiegate in preda a sogni agitati ‘un attimino’ e burocrati, leghisti di mezza età o ex-compagni di un tempo sopravvissuti a tutti i cambiamenti, anche a Tangentopoli, seduti su poltroncine in pelle, anche umana, girevoli, che ti offrono un sigaro con un sorriso brillante come un getto di napalm…”, GIANNI DE MARTINO, I CAPELLONI, CASTELVECCHI, ROMA 1997.
Bensaïd non è tra i leader che hanno abiurato (come per esempio H. Weber), e nemmeno Krivine. Entrambi fondatori della LCR, oggi NPA sono stati tra i principali rappresentanti del 68 francese. Questo estratto è un racconto impressionistico, quasi un diario degli albori del maggio francese, non un un bilancio politico di quell’esperienza (Krivine e Bensaïd hanno scritto molto all’epoca e a posteriori, in proposito). In effetti comunque avrei dovuto aggiungere un po’ di elementi di contesto. Più tardi mi riprometto di farlo.
Ovviamente, non mi riferivo a Bensaïd, ma a ben altri personaggi che imperversano in alcune trasmissioni televisive… A quando un discorso franco, vorrei dire libero, sulla generazione del ‘68?
Anche se è difficile, bisogna che ognuno sopporti il proprio fardello con dignità. E’ questo uno degli insegnamenti di mio nonno materno, vecchio liberale dei tempi di Piero Gobetti. Oggi lo definiremmo un liberalsocialista,… cosa che, in verità, comprendo poco. Al liberalsocialismo, qualcuno – peste, corna e vituperio – vorrebbe avvicinare il pensiero anarchico. Sì, figuriamoci… I soliti intellettuali che, a seconda del momento politico e, soprattutto, delle loro convenienze, aggiustano il tiro. Spettacolo indegno e indecente.
A lui sono grato perché mi ha insegnato, anche se non c’era bisogno, l’amore per la libertà, anche se l’ho intesa in maniera molto diversa da lui.
“Chi tradisce una volta, tradirà sempre”… “Meglio mangiare pane e cipolle che tradire i propri ideali”… “Ricorda che, comunque ti vadano le cose, sei e rimarrai sempre il primo dei miei nipoti”… Anche se il mondo va in tutt’altra direzione, so che aveva ragione lui.
Perché? Cosa c’entra tutto questo col ‘68? C’entra ed e’ calzante. Quelli della mia età hanno completamente dimenticato cos’e’ l’etica.
Mi raccontava tra i banchi vuoti del mercatino etnico-africano accanto a rue Muffetard un algerino….Era una notte del 1973. Mi consegnava la summa della sua vita da quando quattordicenne vide uccidere dai soldati francesi coi calci dei fucili un suo zio. Fu giocoforza entrare nella resistenza culminata nella battaglia di Algeri. Poi girovagando si accorse che nelle belle case dei francesi si erano limitati a canbiare in arabo il cognome…E allora via, emigrando a Parigi. Poi il 68. ‘E sai a Place de la Bastille formicolante di manifestanti….sai quando De Gaulle dette ordine ai carri armati di muoversi…sai di quelle migliaia quanti ne rimanemmo?’ Alla mia muta domanda sul senso, il significato, il valore, il perché della sua vita, quell’amico mai piú rivisto ma da allora ben presente in me, con un superiore, omnicomprensivo sorriso: ‘Il faut…siamo chiamati sempre e dovunque ad opporci…..’. E scomparve in quella che non era piú una notte ma una sempiterna alba.