L’ultima notte di Antonio Canova

di Edoardo Zambelli

 

Gabriele Dadati, L’ultima notte di Antonio Canova, Baldini + Castoldi, 2018, 341 pagine

Pur nella gravità del momento – una prima visita a un uomo in cui il male aveva operato con tanta tenacia – il medico sentì risalire per il tramite del braccio uno stupore non scientifico, ma piuttosto mondano, da chiacchiericcio: possibile che un lavoratore del marmo, che per tanti anni aveva trattato quella materia, abitasse dentro un corpo così snello? Dov’erano i muscoli che si sarebbero dovuti naturalmente sviluppare?

Antonio Canova, il più grande artista del suo tempo, sta morendo. Su questa immagine – il corpo di Canova ormai esausto, prossimo alla fine – si apre L’ultima notte di Antonio Canova, nuovo romanzo di Gabriele Dadati. Al suo capezzale c’è il fratellastro, Giovanni Battista Sartori, e proprio a lui Canova affiderà le sue ultime parole, i suoi ultimi ricordi e l’ultima confessione.

Rigorosamente scandito dalle didascalie che collocano tempo e spazio dell’azione, il racconto inizia il 10 Ottobre 1822 a Venezia e si conclude – sempre a Venezia – il 13 Ottobre 1822. Tra queste due date se ne rincorrono altre, precedenti di pochi anni, e in quelle si nasconde il cuore del romanzo.

Credo sia utile a questo punto segnalare che il titolo del libro rappresenta quasi un inganno, ma un inganno, se così posso dire, positivo. Mi spiego: se da un lato è vero che si parla di Canova e delle sue ultime ore di vita, dall’altro è anche vero che il libro racconta molto di più, e anzi trova il suo centro in vicende di cui Canova è più spettatore che attore.

Dalla Venezia del 1822 infatti si scende – e dico “scende” perché ho avuto l’impressione, leggendo, che il libro sia stato costruito come un’immersione – fino al 1810, nella Francia di Napoleone, periodo in cui Canova fu chiamato a corte per realizzare il ritratto della nuova regina, Maria Luisa d’Austria. E qui succede qualcosa che anni dopo, sul letto di morte, Canova avvertirà ancora come una colpa, una colpa che andrà cercata proprio nel rapporto che lo scultore instaura con la giovane regina all’ombra del grande imperatore.

C’era, nella narrazione del dolore, se non proprio un’allegrezza, almeno un brio. Canova si trovava a credere che questo fosse salvifico e spaventoso allo stesso tempo. Che non si potesse confidare in altro per salvarsi dalla persecuzione dei ricordi, dal progressivo sprofondamento negli incubi. Lo sapeva per certo, e da molto tempo. Ma che in questa pratica ci fosse, come dirlo?, un certo piacere, sì, un piacere della narrazione, del privilegio di essere stati non testimoni ma vittime del massacro, questo suscitava in lui un brivido che gli percorreva per il lungo la schiena.

Hanno del sorprendente la facilità e la grazia – mai parola fu adatta come in questo caso – con cui Dadati porta il lettore avanti e indietro nel tempo, senza mai fargli avvertire fatica o confusione, dipanando con calma – e un pizzico di suspense – gli avvenimenti passati, mostrandone gli effetti nel presente, e portando così il lettore ad avvertire lo stesso senso di pace che pian piano Canova trova nella sua confessione.

Nelle pagine del libro il grande scultore – e con lui l’autore – riflette sull’eredità di un’intera vita dedicata all’arte. Cosa resterà dell’uomo Antonio Canova alla sua morte? La risposta il lettore la troverà nello struggente finale, in un sogno che riporta Canova ad una giovinezza impossibile, in compagnia di una donna amata, per ammirare il lascito di un uomo che non solo ha passato una vita a fare arte, ma anche ad amare l’arte.

«E questi, tutti questi…» disse lui, ma si interruppe. Aveva infatti deciso di abbracciarla. E durante quell’abbraccio di baciarla, cosa che lei gli permise e anzi ricambiò. Fu un bacio lungo, poi ne vennero altri. Alla fine si sciolsero. Lei lo incoraggiò: «E questi?» «Questi», riprese lui, che ancora una volta le teneva la mano, mentre con l’altra indicava attorno, «tutti questi sono figli. Figli che staranno al mondo per sempre. Sono sorti dalla pietra, ma non per questo sono soltanto pietra.»

L’ultima notte di Antonio Canova è un romanzo storico che “abita” la Storia, non la ricostruisce, è fatto di personaggi che vi si muovono dentro semplicemente stando nel proprio tempo. Scritto con una lingua sempre chiara, perfettamente aderente alla materia narrata, conferma Gabriele Dadati come un bravissimo scrittore e un bravissimo narratore – e non sempre le due cose coincidono.

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2 Commenti

  1. Finalmente un romanzo storico sul canova… incomincio sempre dai romanzi storici prima di passare alle biografie o autobiografie vere e proprie!

  2. “Giorni fa Marco Lodoli, alla biblioteca di Mestre, accennava alla “deiezione dell’essere”, quel sentirsi un po’ buttati nella vita in un punto casuale del tempo e dello spazio, a chiedersi con un filo d’angoscia “Che ci faccio qui?”… Ebbene, ad Antonio Canova capitò di nascere, ovvero di essere scaraventato nella vita, in un oscuro punto della pedemontana del Grappa: il paesino di Possagno, tutt’altro che l’ombelico del mondo. Poi capitò di rimanere orfano del padre a quattro anni. Poi capitò che la madre si risposasse e andasse ad abitare in una cittadina un po’ più in là, lasciandolo a Possagno abbarbicato al nonno Pasino…
    Come sperare, con quelle premesse e dati i tempi (si era alla metà del Settecento), senza nemmeno l’aiuto di un programma televisivo quale l’odierno “L’isola dei Famosi”, di poter diventare una celebrità mondiale? Invece fu esattamente questo il miracolo che capitò al giovane Tonin… dotato, bisogna aggiungere, di un enorme talento naturale…” Il resto qui: https://lucioangelini.wordpress.com/2008/10/27/infanzia-di-antonio-canova/

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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