Verso uno spazio antilirico della lirica
di Fabrizio Maria Spinelli
Nonostante la ricchezza e la varietà delle voci che costituiscono l’orizzonte proteiforme della poesia degli ultimi cento anni, pare ancora non del tutto tramontato uno dei miti più duraturi della modernità letteraria: che tutta la poesia sia da considerare poesia lirica e che la lirica sia, sostanzialmente, liricità, un’accezione tonale più che un genere letterario.
A fondamento di tale mito convergono numerose ricostruzioni storiche dello scorso secolo, dal libro di Marcel Raymond, Da Baudelaire al surrealismo, a La struttura della lirica moderna di Hugo Friedrich, passando per il primo Anceschi (Autonomia ed eteronomia dell’arte), Béguin (L’anima romantica e il sogno), Benn (Probleme der Lirik) etc.
Inutile dire che gran parte della produzione poetica del XX secolo (soprattutto a partire dalla conclusione del secondo conflitto mondiale) si sia sviluppata in senso opposto a questa traiettoria egemonica, secondo una linea oggettiva e antilirica (quanto mai paradigmatico è il rovesciamento prospettico anceschiaco che si registra a partire dalla pubblicazione di Poetica americana). Mazzoni (Sulla poesia moderna) risolve questa antinomia con un’opposizione topografica: a un centro lirico si oppone una periferia antilirica (e poco importa se di questa periferia facciano parte The Waste Land di Eliot, i Cantos di Pound, Brecht, Auden, Stevens e altre figure centrali del panorama letterario moderno). In netta contrapposizione con Mazzoni è l’interpretazione di Enrico Testa, che nell’importantissima prefazione all’antologia da lui curata Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, parla di un definitivo «venir meno dei contenuti e dei valori – alti, universali e trascendenti – del genere lirico».
Ovviamente si tratta di una questione semplificata all’osso, su cui non ho spazio e competenze sufficienti per insistere. Quello che qui mi preme sottolineare (a partire da tre libri di autrici statunitensi da poco tradotti in italiano) è invece altro, e cioè di come sia errato considerare la lirica in maniera statica e non dinamica, prenderla in esame come un qualcosa di fisso e già dato, quasi si trattasse di un concetto metastorico, che può (Mazzoni) o non può (Testa) conservare una sua attualità, una sua inerenza con la forma dell’esperienza della contemporaneità. I nostri modi di leggere, rappresentare e costruire la realtà cambiano in continuazione (che ovvietà), mentre la lirica rimarrebbe lì, cristallizzata nei modi e negli statuti che le sono stati associati in età romantica.
Cittadini post-whtimaniani
L’esempio più calzante per sovvertire questa pigrizia cognitiva mi sembra Citizen di Claudia Rankine, un’opera di poesia che riesce a colpire emotivamente il lettore (in una maniera lugubre, impalpabile e paradossale) facendo leva su un complesso formale non antistorico, reazionario o, all’opposto, eccessivamente sperimentale e autistico. Pubblicato inizialmente dalla Graywolf Press nel 2014, e poi riedito da Penguin nel 2015, secondo il Sunday Time Citizen sarebbe «The book of a generation». Claudia Rankine, che insegna al Pomona College, nel 2016 si è aggiudicata uno dei più importanti premi per uno scrittore americano, il Mac Artur Genius Grant. I suoi libri sono stati tradotti già in francese e tedesco (cosa assolutamente insolita per un autore di poesia non morto, anche se statunitense). La versione italiana di Citizen è stata curata da Isabella Ferretti e Silvia Bre per la casa editrice romana 66thand2nd, e, se non lo avete ancora fatto, dovreste leggerlo al più presto.
Già dopo una sommaria spigolatura del volume si registra la prima sensazione destabilizzante: anche se è scritto per lo più in prosa, alternando poesie, minuscoli racconti, inserti saggistici e testi per istallazioni video, il sottotitolo di Citizen, come quello del libro di cui è in qualche modo il seguito (Don’t Let Me Be Lonely, 2004), è An American Lyric. La cosa ha un senso puramente antifrastico? Si tratta di una semplice provocazione, come quando Rimbaud intitolò una sua prosa Sonnet? O c’è dell’altro?
Innanzitutto occorre spiegare, senza alcuna pretesa di esaustività, cosa intendiamo comunemente per testo «lirico». Il nostro concetto di lirica deriva, come gran parte delle categorie estetiche a cui ci riferiamo, dalla cultura romantica. Sebbene la lirica già esistesse nella letteratura classica (il termine lyricoi compare per la prima volta in epoca alessandrina per designare i nove autori che componevano il canone dei lirici arcaici – Saffo, Pindaro, Anacreonte, Alceo, Ibido, Bacchilide, Simonide, Alcmane, Stesicoro. «Ennea lyricoy», dice appunto Aristofane di Bisanzio; «lirici vates», traduce Orazio in un gesto fondamentale per la civiltà occidentale), essa non va intesa con il senso sintetico ed estensivo che siamo abituati a darle noi moderni: era semplicemente poesia cantata al suono della lira, in differenti contesti (monodica/corale), e spaziava da argomenti politici (fondamentalmente promuoveva i valori della classe dirigente), a esistenziali (ad es. giovinezza vs. vecchiaia), passando per la descrizione di paesaggi o di sofferenze amorose. Alla cultura classica era quasi totalmente estraneo il concetto di “espressione della soggettività”, e soprattutto era inconcepibile considerare questo concetto come tratto fondamentale di un genere letterario (secondo Federico Condello, l’“io lirico” arcaico non va inteso come uno specchio dell’io dell’autore, ma, a tutti gli effetti, come una vera e propria maschera). Nella Poetica di Aristotele, in cui la poiesis è intesa esclusivamente come mimesis, il «lirico» è introdotto solo sotto la veste di melopeia, cioè la parte cantata della tragedia (e perciò per il filosofo non era nemmeno da considerarsi come un genere a sé). I trattatisti rinascimentali, feticisticamente attaccati alle griglie dello stagirita, si trovarono in grossa difficoltà nel normalizzare e canonizzare esperienze fondative della modernità come la lirica cortese e il Canzoniere di Petrarca: se la creazione letteraria è mimesis, Voi che per ‘li occhi mi passaste il core di Cavalcanti, Tanto gentile e tanto onesta pare di Dante, o un qualsiasi sonetto di Petrarca, erano la riproduzione di che cosa?
Il più delle volte la lirica entrò a far parte dello spettro dei generi solo in quanto imitazione dell’interiorità del poeta, un escamotage che serviva a forzare uno spazio letterario sempre più angusto, almeno a livello normativo.
Ma fu solo tra il XVIII secolo e la prima metà del XIX che, svincolandosi gradualmente dall’annoso limite della mimesis, da genere poetico fra i tanti la lirica divenne una sorta di forma assoluta dell’espressione (iniziando ad identificarsi con la poesia tout court, la lirica estinse di fatto tutti gli altri generi poetici diffusi in precedenza). Il poeta lirico, in epoca romantica, è il primo scrittore nella storia che può permettersi di parlare di «temi personali in uno stile personale» (Mazzoni); la sua opera è l’autoespressione di una soggettività intesa come differenza radicale. Mentre alla narrativa (il romanzo, la vecchia poesia epica) è lasciata l’incombenza di rappresentare l’esistenza dell’uomo nelle intricate reti sociali del mondo esterno, la poesia lirica si assume il compito di esprimere la sua vita interiore: una vita interiore ricca, vibrante, affettata, quasi patologica (Anceschi parla di «una esasperazione -in qualche modo demiurgica e sacra- dell’io» a cui si accompagna una proporzionale «riduzione dei contenuti oggettivi»); ciò che non rende questo discorso totalmente autoreferenziale è la sublimità dello stile, tramite cui l’individuale si farebbe universale (qui scatta il parental control per come banalizzo Schelling. Diciamo che è come se la soggettività, nelle sensazioni sublimi che scatena nel lettore l’opera poetica, si trascendesse: non è semplicemente il giovane Leopardi che immagina «interminati/spazi» al di là della siepe, ma ogni essere umano). Alla lirica si associa un tono “alto”, formalmente molto elaborato, dominato più dalla musicalità che dalla logica, che fa leva su un linguaggio che si allontana enormemente da quello comune e che rifiuta la coesistenza di diversi registri stilistici tipica del romanzo (abbiamo quindi un discorso monodimensionale che si oppone a uno pluridimensionale). Insomma, soggettività, intensità emotiva, monolinguismo: il tutto versato in un componimento breve e anti-narrativo. Prendete appunto L’infinito di Leopardi e I Wandered Lonely as a Cloud di Wordsworth come perfetti idealtipi, o, per fare un esempio più moderno, uno dei Mottetti di Montale. Come possiamo allora definire “lirici” certi pezzi di Citizen come questi?
Quando sei sola e troppo stanca perfino per accendere uno dei tuoi dispositivi elettronici, ti lasci andare a un passato sprofondato tra i tuoi cuscini. Di solito stai rannicchiata sotto le coperte e la casa è vuota. A volta la luna non c’è e oltre le finestre il soffitto basso e grigio del cielo sembra a portata di mano. La sua luce scura si affievolisce a seconda della densità delle nubi e tu ti ritrai in ciò che viene ricostruito come metafora.
Il male alla testa sfuma in uno stato di torpore, una grotta dei sospiri. Nel corso degli anni svanisce il melodramma in cui ti vedi come una paziente. I sospiri cessano; i mal di testa rimangono. Ti stringi la testa fra le mani. Siedi immobile. Raramente ti sdrai. Domandi a te stessa, come posso aiutarti? Un bicchiere d’acqua? Occhiali da sole? Le pillole a rilascio prolungato convivono nella borsa accanto alla patente. L’unico rimedio è sintonizzarsi sulle partite di tennis senza audio. Sì, e sebbene guardare il tennis non sia una cura per quello che provi, è una netta rimozione di sforzo, volontà e dispiacere.
Ciò che innanzitutto colpisce della prosa della Rankine è la sua modulazione piana e paratattica, tutta tesa verso una sorta di spersonalizzazione e di neutralità. Si tratta di una scrittura a bassa definizione, orizzontale, quasi di “grado zero”, l’esatto opposto di ciò che immaginiamo di incontrare quando leggiamo una poesia lirica. Ma c’è di più. L’io lirico che enuncia il discorso è cancellato dal “tu” in cui si sdoppia in una vera e propria dissociazione (che “io” e “tu” siano spesso la stessa persona ce lo suggeriscono diverse spie nel testo, come quel metaletticamente vertiginoso «domanda a te stessa, come posso aiutarti?» in cui un ulteriore grado di astrazione permette paradossalmente all’io di riprendere momentaneamente la parola).
[…] Eppure il male esiste ancora.
Chiamalo il tu immanente. […]
La pazienza è nel vivere. Il tempo si dischiude per te.
Il dischiudersi, tra te e te, occupato,
destinato a un incontro,
Date le storie di te e te—
E, sempre, chi è questo tu?
L’inizio di te, ogni giorno,
già una presenza—
Ehi tu—
Scivolando giù a seppellire il tu seppellito dentro. Sei ovunque e da nessuna parte nello spazio del giorno.
Il fuori entra dentro—
Poi tu, ehi tu—
Questo dialettica dei pronomi ha però un significato non solo personale ma anche politico (e questi sono i due poli in costante dialogo nel testo, come pare evidente fin dalla scelta di titolo e sottotitolo). Le parole di Claudia Rankine, nativa di Kingston, Jamaica, e cresciuta negli USA, non smettono mai di essere le parole di una donna di colore che si muove all’interno di una società sessista e razzista. Molte delle poesie di Citizen descrivono la microfisica delle continue aggressioni verbali perpetuate da uomini e donne apparentemente “non razzisti” ai danni di persone di colore. È possibile, in alcuni casi, vedere quindi il rapporto “io”-“tu” anche come una dialettica tra uomo bianco produttore del discorso egemonico e donna di colore che da quel discorso è emarginata, oggettivizzata e continuamente umiliata. Ma questa dinamica dona all’opera anche un ulteriore livello di complessità e di straniamento, poiché non permette al lettore (e soprattutto al lettore maschio e bianco) un’identificazione pacifica con nessuno dei due poli, creando una decisiva distanza critica e confutando tutte le pretese di una soggettività universalizzante tipiche delle teorie romantiche della lirica. A proposito di questo brano:
La nuova terapista è specializzata nel trattamento dei traumi. Avete sempre e solo parlato al telefono […]. Sulla porta di ingresso il campanello è un piccolo disco che premi con fermezza. Quando finalmente la porta si apre, la donna che hai davanti grida, con tutto il fiato che ha nei polmoni, Vattene da casa mia! Che ci fai nel mio giardino? […] indietreggiando di qualche passo riesci a dirle che hai un appuntamento con lei. Hai un appuntamento?, ribatte astiosa. Poi si ferma. Si ferma tutto. Oh, dice, seguito da oh, sì, è vero. Mi dispiace.
Ben Lerner scrive:
Il gioco dei pronomi in Citizen è disorientante […]. Qui si presume che il «tu» sia Claudia Rankine, ma è chiaro che la persona a cui viene rivolto sono io, mentre leggo. Sulle prime questo risulta spiazzante già solo per ciò che sta succedendo a questo «tu»: la reazione rabbiosa della psicologa alla mia presenza. Ma ben presto […] mi trovo a rifiutare l’identificazione con il «tu» perché mi rendo conto di come, in quanto maschio bianco, non posso di fatto immergermi nell’esperienza in questione; non posso essere vittima di un tale razzismo; in questo senso sono molto più vicino all’ «io» […]. Questo concentrarsi di Citizen sul modo in cui la razza determina come e quando abbiamo accesso ai vari pronomi è, fra le altre cose, una reazione dirette all’idea whitmaniana (e nostalgica) di un «io» e di un «tu» perfettamente intercambiabili in grado di sospendere qualsiasi differenza. Chiunque tu sia, mentre leggi Citizen, sei costretto a trovare una tua collocazione rispetto ai pronomi, invece di dare per scontato di rientrarvi.
Ciò che sembra volerci trasmettere la Rankine con le sue opere è non solo l’indisponibilità del genere lirico tradizionalmente inteso, ma anche l’apertura di uno spazio lirico altro, in cui autore e lettore si incontrano sull’unico terreno che sembrano poter condividere nel XXI secolo: quello della spersonalizzazione (l’“io” che può riconoscersi solo in un “tu”). Le liriche di Citizen e di DLMBL, con il loro stile lobotomizzato, parlano dell’inumanità dell’umano, non tanto dell’essere stranieri a sé stessi, quanto della normalità e della banalità di questa estraneità, cantano «il torpore, la desensibilizzazione, la saturazione mediatica» (ancora Lerner) dell’uomo contemporaneo, la sua impossibilità di fare esperienza di ciò che sta esperendo. Ma qui si inserisce l’aspetto che differenzia un’opera letteraria da un saggio di sociologia: l’assenza di un sentimento che possa dirsi autentico e non mediato, la capillare reificazione delle relazioni sociali e affettive, la continua rimozione di quanto abbiamo di più personale, quando sono espressi artisticamente, e proprio perché cognizioni condivise da ogni essere umano, creano una fortissima comunione empatica tra autore e lettore, una scintilla capace di redimere momentaneamente l’insopportabile sensazione di stare al mondo.
«Possono i sentimenti perdere la loro presa se si rivolgono a un vuoto dei sentimenti?» si chiede a un certo punto la Rankine: quello che fa la sua poesia è proprio farci sentire quel vuoto, essa genera un sentimento che nasce dall’impossibilità di ogni sentimento, e così facendo da vita a una comunità umana paradossale (Stevens: «The oratore will say that we ourselves/ Stand at the center of ideal time,/ The inhuman making choice of a human self»).
Altri due brevi esempi
Citizen non è un fiore profumato in un cratere vulcanico, ma un punto (luminoso) in un’ampia costellazione di scritture. Senza poter tracciare una genealogia (per quanto sarebbe interessantissimo ricostruire quella linea della poesia americana che va da Tender Buttons di Gertrude Stein a My Life di Lyn Hejinian o a Autobiography of Red di Anne Carson, da cui mi sembrano in parte discendere Citizen e DLMBL) mi limiterò a citare due autrici di recente edite in Italia, che, pur nelle loro differenze, sembrano avere molti tratti in comune con la Rankine. La prima è Sarah Manguso. Il salto, tradotto da Gioia Guerzoni per NNE, è un memoir elegiaco in cui l’autrice rievoca il suicidio di uno dei suoi migliori amici, Harris J. Wulfson, a diversi anni dalla scomparsa. Il fulcro del libro risulta essere non tanto la vicenda in sé, quanto come questa vicenda si riverbera nella coscienza dell’autrice, i cerchi concentrici via via più flebili che il trauma genera. Nel corso delle pagine la Manguso ricorda, riflette, contempla, alterna brani elegiaci e saggistici (molte pagine, ad esempio, discutono problemi neurologici come l’acatisia, riportando estratti di saggi scientifici apparsi su riviste mediche americane). Il salto procede seguendo un filo più simbolico che logico, tessendo una trama di frammenti disformi, piccoli blocchi rettangolari di prosa quasi mai perfettamente referenziati, dal significato sfuggente, quasi delle traduzioni difettose:
Poco prima di addormentarmi spesso mi ritrovo a una festa immaginaria in una grande casa. Sento la forma del mio dolore mentre mi appoggio a uno stipite e parlo con qualcuno che conosco. Rabbrividisco riconoscendola. Varco una soglia, o salgo le scale, o scendo in un portico. La mia mente sa come non guardare in faccia il dolore. Ci sono molti ospiti alla festa, ed è facile nascondersi.
Anche qui, come nel caso di Citizen (ma in maniera molto meno marcata), abbiamo a che fare con una lingua insieme precisa e nitida, orizzontale, in cui ogni parola sembra negare una prospettiva trascendente e che al contempo si discioglie difficilmente in un processo significante univoco, pacifico. L’incandescente materia autobiografica è come cauterizzata da una scrittura infinitamente distante, che reca ancora un alone impresso di quel calore. In Andanza, l’altro libro della Manguso pubblicato da NNE, leggiamo:
Un amico mi ha detto, Voglio scrivere frasi che diano l’impressione di non essere state scritte da nessuno. L’obiettivo è la creazione di un sistema di espressione puro, senza la distrazione di uno stile. Una forma che nessuno noti, la creazione di qualcosa che ricordi la sensazione pura e non il veicolo di una sensazione. La lingua come pura esperienza, pura memoria. Anch’io volevo ottenere quell’effetto impossibile.
Ancora più interessante è il caso di Maggie Nelson. Solo pochissimi dei suoi numerosi libri (le raccolte di versi giovanili e un paio di saggi accademici) rientrano in generi predefiniti. Jane: A Murder, e soprattutto Bluets e The Argonauts (pubblicato in Italia da Il Saggiatore nel 2016; la traduzione è di Francesca Crescentini) sono prodotti ibridi che mescidano, ancora una volta, elementi saggistici e lirici, riflessioni personali e metapoetiche, memoir, teoria dei generi, psicanalisi e critica letteraria, non disprezzando nemmeno dei veri e propri inserti narrativi (dei microracconti che funzionano come delle metafore elusive). In queste opere non c’è una vera e propria narrazione, ma solo un intrecciarsi di risonanze tematiche, come se fossero dei lunghissimi poemi condensati sui confini di esperienza e linguaggio. In The Argonauts, dopo la descrizione di alcune opere di Catherine Opie, leggo una frase che è come istoriata in ognuno dei libri di cui abbiamo parlato fin qui:
Qui c’è qualcosa di profondo, ma tutto quello che farò è disegnarci intorno un cerchio per lasciarvici riflettere. Mentre ci pensate su, comunque, tenete presente che la difficoltà di cambiare marcia, o la lotta per trovare il tempo, non funziona come il concetto ontologico dell’aut aut.
Bending Genre
Citizen, Ongoingness, The Argonauts, sono opere che chiedono a gran voce una ridefinizione dello spazio letterario, specialmente di quello poetico, e che non possono essere semplicisticamente ritenute opere di non-fiction. Quasi per un riflesso pavloviano, molti lettori sono abituati a pensare alla poesia ancora come a un macrogenere chiuso, nobile, e in qualche modo elitario, mentre già da tempo numerosi critici e scrittori (soprattutto in Francia e negli Stati Uniti, solo lateralmente in Italia) tendono invece a considerare la poesia come un territorio selvaggio, non regolamentato, aperto, vivissimo, impuro, dove non vigono le tradizionali distinzioni, e forme e strutture sono in continua evoluzione. (Lerner: «uno dei motivi per cui amavo la poesia era che la differenza fra realtà e finzione non valeva, che la corrispondenza fra il testo e il mondo era meno importante dell’intensità dei versi stessi, delle possibilità emotive che si aprivano nel tempo presente della lettura»).
Secondo Kazim Ali, per riacquistare incidenza nel mondo contemporaneo la prosa e la scrittura saggistica dovrebbero assumere le qualità proprie della poesia:
Se scrivere è un modo di pensare, la poesia offre il miglior tipo di struttura possibile. Essa inventa le sue proprie regole facendole. Non il verso, o la forma, non il tono, non la sintassi, sono assunti come già dati dall’autore. La poesia è un pezzo anarchico di testo che vive tra due bordi […].
Ciò che la poesia – nella bizzarria delle sue strutture, del suo linguaggio, dei suoi intenti e della sua foggia – può offrire alla prosa è semplicemente la vita.
Questo impasto è quello che è solitamente definito un lyric essay, «un saggio che è anche una poesia, un tipo di logica che vuol cantare, un’argomentazione che non ha alcuna possibilità di essere provata»:
Fedele al significato originale di “saggio”, cioè ‘prova’ o ‘ricerca’ […] il lyric essay prende il largo su una rotta inesplorata attraversando reti interconnesse di idee, circostanze e linguaggi: una ricerca senza una conclusione predeterminata, un porto d’arrivo che potrebbe lasciare lo scrittore nel dubbio. (Shields in Reality Hunger)
Altri critici si servono di formule come docupoetics, o prose poetry o non-genred writing o prosa in prosa, nel tentativo di circoscrivere pratiche i cui confini continuano a rimanere sfuggenti. Ma trovo ognuna di queste definizioni abbastanza limitante, almeno per i testi di cui ho discusso: mi sembra molto più giusto definirli semplicemente testi lirici, seguendo il consiglio della Rankine di «pull the lyric back into its realities»; o si potrebbe parlare, per sottolineare quella virtualità e quel sentimento della distanza che sono apparsi così centrali, di «testi tendenti alla condizione di poesia» (mutuando un paradigma eliotiano). Certo, tutto ciò avrà un senso solo se saremmo disposti a liquidare il feticcio romantico dell’autoespressione (esattamente come, nella seconda metà del ‘700, ci si riuscì a disfare della mimesis aristotelica).
Molti studiosi si sono mossi in questa direzione già da tempo. Käte Hamburger, per esempio, in Die Logik Der Dichtung (un libro degli anni ’50), è stata la prima – che io sappia – a definire lo spazio lirico come uno spazio dell’indeterminazione. La lirica non ha nulla a vedere con l’autobiografia o con l’individualità del poeta, leggo nella traduzione inglese dell’opera. L’io lirico è solo un principio formale di unità, che non può in alcun modo essere ricondotto a una persona in carne e ossa. Tra autore e “io” c’è una distanza non quantificabile. E in questa distanza si inserisce la lirica, uno spazio in cui non è possibile distinguere tra falso e vero, tra fiction e non-fiction, in cui non vige il principio di non contraddizione, e le cose insieme sono e non sono.
Superando la soggettività del poeta, che evapora «nell’altro della comunicazione», la lirica tende per suo statuto, conclude la Hamburger, ad appiattirsi verso il suo oggetto (che non è tanto il mondo esterno quanto la sua stessa materialità linguistica, la sua medialità), a dissolversi «nella direzione della prosa di pensiero e scientifica» (Giovannetti). La storia della lirica moderna è, secondo la tedesca (che reinterpreta in maniera originale ma estremamente coerente i precetti dell’Estetica di Hegel), una corsa al saggio.
Nel bellissimo Lyric Poetry: The Pain and the Pleasure of Words della studiosa di origine turca Mutlu Blasing, la lirica è definita come «una pratica formale che mette in luce il codice linguistico e la varietà dei mezzi materiali del linguaggio di cui tutti gli esseri umani si servono per: riferire qualcosa, rappresentare, esprimere, narrare, imitare, comunicare, pensare, ragionare, filosofare. Essa offre un’esperienza di tipo diverso, un sistema che agisce indipendentemente dalla produzione di enunciati significanti in senso razionale». La lirica costruirebbe un territorio in cui si riflette emozionalmente sul linguaggio, in cui complessi processi di pensiero e logica simbolica si intrecciano. In una simile prospettiva, l’io lirico, continua la Blasing, non è il doppio dell’autore, né tanto meno l’incarnazione testuale di una soggettività vasta e profonda, ma una semplice funzione linguistica che serve a «intenzionalizzare» il discorso poetico. «L’io è un prodotto dal singolo componimento lirico, non la sua causa sorgiva».
In Theory of the Lyric, monumentale storia della poesia lirica, Jonathan Culler può concludere la propria carrellata in maniera ancora più minimalista, definendo la lirica come un voicing (letteralmente “effetto di voce”) impersonale, come la verbalizzazione di giudizi e valutazioni intorno al mondo in cui viviamo, e al ruolo che l’uomo deve assumere al suo interno. Essa è semplicemente «un discorso pubblico sul valore e sul significato».
Scrive ancora Paolo Giovannetti, in un saggio contenuto nel recentissimo La poesia italiana degli anni Duemila: «Nel momento in cui un discorso poetico privato si fa assoluto, il passaggio al suo opposto (all’oggettivismo) appare quasi una necessità. Questa è una chiave di lettura della poesia (moderna) nel suo insieme. Il suo lirismo non può non trasformarsi in oggettivismo. Se la soggettività è manifestazione anche di forze diverse, è inevitabile che – prima o poi – queste forze prevalgano e cancellino l’io».
Rimanendo in aria italiana, si veda anche questo importante contributo di Andrea Inglese, che insiste sul fondamentale concetto, mutuato da Jean-Marie Gleize, di littéralité (e lo si confronti, per esempio, con quanto detto sopra a proposito di Rankine-Manguso-Nelson).
Per concludere,
così intesa, la lirica è lontana da apparire come un genere demineralizzato e anacronistico. Anzi, aprendosi ad una negoziazione con gli altri modi del discorso, sembra in grado di poter acquisire una forza e una vitalità che raramente le sono appartenute in epoca postromantica. Trasformandosi alla radice, e perdendo quegli attributi che almeno negli ultimi due secoli l’avevano caratterizzata (la soggettività trascendentale, il verso, il monolinguismo, il rifiuto del mondo esterno a favore dell’interiorità, la poca considerazione della narratività) la lirica è anzi attualmente una pratica che, per molti versi, rispecchia l’esperienza di un lettore contemporaneo molto più da vicino rispetto al suo vecchio antagonista, quel romanzo che, in passato, ne aveva cannibalizzato il pubblico. Come scrive sempre Shields: «Oggi la vera affinità elettiva si trova più tra il memoir e la poesia che tra il memoir e il romanzo. Commettiamo un errore se scambiamo il memoir per non-fiction. In realtà è non-poesia».
Non mi convince: quanto si dice sulla poesia della Rankine sembra quasi negare implicitamente quanto si va affermando, cioè che la lirica, come ogni genere, è dinamica: perché dinamica, la lirica, non lo è certo da oggi, come non è da oggi che perde “quegli attributi che almeno negli ultimi due secoli l’avevano caratterizzata”. O meglio, quegli attributi non sono degli ultimi due secoli in toto.
In altre parole, mi sembra che nell’articolo si passi dall’idea ottocentesca di lirica a quella contemporanea, saltando a piè pari il Novecento: nel dirci che “ciò che non rende questo discorso [lirico] totalmente autoreferenziale è la sublimità dello stile, tramite cui l’individuale si farebbe universale”, per cui viene dato da associare alla lirica un tono alto, ci si sta chiaramente riferendo a un’idea ottocentesca di lirica, e non è Rankine a metterla in crisi con la sua “scrittura a bassa definizione, orizzontale, quasi di ‘grado zero’, l’esatto opposto di ciò che immaginiamo di incontrare quando leggiamo una poesia lirica”. Più o meno le stesse parole le leggevo in un libro (ahimè, non ne ricordo il titolo) che studiai all’università per descrivere una lirica (eh già) di Charles Simic scritta negli anni ’70 (The Garden of Earthly Delights, per dovere di cronaca). Insomma, mi pare che il buon (non eccezionale) libro della Rankine sia in perfetta continuità con tutto ciò che con la lirica si è fatto nel XX secolo, visto che quella di Simic non è certo una poesia eccezionale (nel senso che faccia eccezione) per la sua epoca, è anzi a sua volta in continuità, e il discorso potrebbe via via andare indietro fino a Ungaretti, Apollinaire, Chlebnikov ed altri (non mi allargo alle avanguardie tutte perché non c’era solo lirica e sarebbe un’affermazione troppo generica).
Più interessante, mi pare, la riflessione sul rimescolio di generi che la poesia (lirica?) sta vivendo, e che è d’altronde un movimento che investe tutti i generi letterari (narrativa, teatro, saggio, memoir) contemporanei: anche in questo caso nulla di davvero nuovo (un’altra volta mi tocca di citare Chlebnikov, che già lo faceva un secolo abbondante fa, ma anche Pessoa, Pizarnik, Llansol, e diversi altri): è però vero che se prima si trattava, in questo caso sì, di eccezioni o quasi, negli ultimi anni questa poesia meticcia sembra essere diventata assai più sistematica. Ben venga, come ben venga qualsiasi esperimento interessante.
Un’ultima considerazione sulla nomenclatura, che giustamente nell’articolo viene definita limitante: lyric essay, docupoetics, non-genred writing et similia sono i classici tentativi, tipici degli accademici americani, di dare nomi nuovi a cose non nuove, nella speranza che l’etichetta abbia successo e con essa la persona che la inventata. Inutile dire che li trovo molto brutti.
ERRATA CORRIGE:
Chiaramente nella penultima frase sarebbe un “l’ha inventata”.