Rivedere Manhattan all’epoca del #metoo
di Alberto Brodesco
Nel pieno dello scandalo Weinstein/#metoo, su Paris Review è apparso un importante articolo, intitolato “What Do We Do with the Art of Monstrous Men?” (www.theparisreview.org/blog/2017/11/20/art-monstrous-men), che chiama in causa Woody Allen, uno degli artisti attualmente sotto processo mediale. Claire Dederer, l’autrice, non si concentra troppo sulle accuse al regista, ma ragiona su come esse possano cambiare la nostra percezione delle sue opere. Dederer, una fan del regista newyorkese, parla in particolare del senso di fastidio o tradimento che ormai pregiudica la sua visione di Manhattan, ora che sappiamo cose sull’uomo che condizionano il ragionamento sull’artista. Ma non si tratta solo di questo: in Manhattan vediamo un regista con la passione per donne molto più giovani mettere in scena la storia di un uomo di 42 anni (Isaac, interpretato da Allen stesso) che ha una relazione con una diciassettenne, Tracy (Mariel Hemingway). Questa sorta di mise en abyme spingerebbe, persino al di là della volontà dello spettatore, a una lettura morale (o moralista) del film.
Il tema del giudizio sull’opera attraverso un giudizio sull’artista è stato in questi mesi abbondantemente affrontato e ripreso – ad esempio, proprio a commento dell’articolo di Paris Review, dalla voce autorevole di Jonathan Franzen. Si può affrontare la questione accennando all’ennesimo fallimento divulgativo della teoria della letteratura o della teoria del cinema (dalla “morte dell’autore”, alla “funzione autore”, alla “storia del cinema senza nomi”), incapaci di rendere scontate nozioni come quella dell’autonomia dei testi. O forse basterebbe solo dire che l’interpretazione di un’opera d’arte non può essere ridotta agli elementi più scontati, evidenti o ingombranti della trama.
Oltre all’uomo maturo che frequenta una ragazzina, nel film di Allen ci sono altre cinque coppie degne di attenzione: la coppia di amici sposati di Isaac, Yale (Michael Murphy) e Emily (Anne Byrne); la coppia di amanti – lo stesso Yale e Mary (Diane Keaton); la coppia Mary ed ex marito, Jeremiah (Wallace Shawn); la coppia lesbica costituita dall’ex-moglie di Isaac, Jill (Meryl Streep), e la sua nuova compagna Connie (Karen Ludwig); e infine la coppia Allen-Keaton, Isaac e Mary, costituita quando i due si liberano (provvisoriamente?) dalle relazioni in cui si trovavano a inizio film. La tipologia è quindi abbastanza diversificata: abbiamo coppie interstiziali, squilibrate, sposate, clandestine, divorziate, omosessuali.
Anche solo rimanendo concentrati su questo primo livello di lettura, esplicito, per parlare della trama bisogna tener conto di tutte queste relazioni. Il ragionamento sui personaggi, una volta iniziato, va portato avanti fino in fondo, in modo da poter vedere cosa il testo ci dice davvero. Uno sguardo appena meno superficiale sposta subito l’attenzione sul personaggio interpretato da Diane Keaton, che emerge in tutta la sua forza narrativa come il vero grande centro di gravità del film. È attorno a lei che ruotano tutti i personaggi di Manhattan. Anche se al primo incontro Mary appare insopportabile ad Isaac per la sicumera con cui liquida alcuni dei suoi idoli intellettuali (persino Bergman), è proprio questo eccesso (di confidenza? di spavalderia? di sfacciataggine? di coraggio? di intelligenza? di vita?) che la rende un personaggio dal fascino fatale, praticamente un sinonimo di libertà. Mary vede il mondo a modo suo. Prima parla ad Isaac del suo ex marito esaltandolo come un epico amatore; ma poi, quando Isaac e Mary lo incontrano in un negozio, l’uomo si rivela nelle sue apparenze fisiche di omettino, stretto e compito nel ruolo di accademico. “It’s amazing how subjective all that stuff is”, commenta Isaac.
“Soggettività” vuol certo dire punto di vista, gusto, necessaria parzialità della visione, ma anche smarrimento soggettivo. E il film si spinge oltre, suggerendo che si tratti anche di perdita del soggetto nelle relazioni. I giochi di incastro fra coppie provocano un senso di spaesamento identitario. Dove si riposiziona, anche fisicamente, l’io nell’incontro con l’altro/a? Case private, ristoranti, bar, traslochi, il museo, il parco, il planetario: il quartiere di Manhattan, spazio per perdersi e ritrovarsi, è popolato da gente spostata dall’amore.
Il confronto tra oggettività e soggettività della percezione quando si tratta di analizzare (o persino giudicare) dei comportamenti d’amore è dunque uno dei temi portanti di Manhattan. Cosa sappiamo davvero, ad esempio, di quella corsa finale di Isaac verso la casa di Tracy, dopo esser stato lasciato da Mary, dopo aver pensato che il viso della ragazzina è una delle “ragioni per cui vale la pena vivere”? L’inutile pentimento di un pavido? La riscossa di un innamorato? Lo sfogo di un frustrato? La manifestazione fisica di un disagio interiore? La ricchezza dello spettro interpretativo ammette ma al contempo svilisce le letture più grossolane della trama. La forza di un film come Manhattan sta nel resistere alle semplificazioni, nell’inquietudine comica e grigia che trasmette mentre ci ritroviamo a specchiarci nella coscienza di un personaggio.
I commenti a questo post sono chiusi
L’amore è l’elemento ineludibile e intrascendibile a ragione e volontà che determina la configurazione relazionale del nostro universo psico-emozionale (e spirituale), in esso necessità e libertà, assoluto e contingenza, essenza ed apparenza, tutte le nostre categorie rappresentative vengono rimesse in discussione, risultano eteronome e instabili rispetto ad ogni fondamento immutabile. Il nostro problema, forse, è che ne abbiamo desacralizzato essenza e funzione, mercificandolo per porlo fra gli altri oggetti di consumo nell’immensa esposizione del mercato globale. E’ quanto si evince dalle analisi più drammatiche e appassionate di autori letterari o cinematografici, come Allen o Bergman.
Vorrei proporre un testo che affronta, ribaltandolo, il tema messo in atto.
Le spose assassine
Quella notte tutti gli uomini del villaggio fecero lo stesso sogno: videro lo Spirito del male giungere fra di loro, con le terribili sembianze d’una fiera di tenebra, dal volto umano, che lasciava una scia di sangue e dolore.
Sgomenti e atterriti si recarono in massa dallo sciamano, a chiedere spiegazioni. Lo trovarono immerso in profonda meditazione: tentava di interrogare gli Dei, scongiurandoli di allontanare lo Spirito che li minacciava.
Il mattino dopo uno degli uomini fu trovato assassinato nel suo letto; giaceva sgozzato e terribilmente mutilato in un bagno di sangue. Sua moglie era seduta accanto a lui, ma invece del dolore, mostrava di essere posseduta da una furiosa follia: sguardo e volto avevano un’espressione allucinata e stravolta che sgomentava.
Lo sciamano, quando la vide, cadde in preda ad una terribile angoscia:
-Ecco – gridò – per colpa della nostra iniquità è accaduto l’irreparabile, lo Spirito maligno è comparso, ha preso dimora nei nostri cuori! E’ la fine, siamo condannati!”-
-Ma non si può fare nulla per scacciarlo?-
-Chi può saperlo? Forse è possibile, ma ci vorrebbe un prodigio, un miracolo, un gesto eroico, un grande sacrificio, che riesca a sconfiggere la potenza del Maligno, ma chi è in grado di compierlo?
Pregarono, danzarono e offrirono sacrifici, ma l’angoscia restava in mezzo a loro, come una nube di veleno.
Il mattino dopo altri dieci uomini furono trovati morti, e le loro mogli avevano tutte le mani imbrattate di sangue e la stessa furia omicida negli occhi.
Non c’erano più dubbi: lo Spirito maligno era penetrato in loro e le spingeva ad uccidere gli uomini.
Fu deciso che la notte successiva uomini e donne avrebbero dormito separati, furono decisi turni di guardia e ogni precauzione per evitare altri assassini. Ma tutto fu inutile, niente poteva fermare la furia omicida di quelle Erinni possedute dal Male: un numero sempre maggiore di uomini venne orribilmente massacrato e deturpato dalla incontenibile follia assassina che pervadeva le donne.
Dopo qualche giorno buona parte della popolazione maschile era stata sacrificata. I superstiti decisero di fuggire, abbandonando per sempre il villaggio e la follia delle mogli.
Si nascosero in un luogo lontano, quasi inaccessibile della foresta.
Finalmente si sentivano al sicuro, e un po’ alla volta, l’angoscia svanì.
Ma la nostalgia delle mogli e del loro amore diventava ogni giorno più insopportabile. Alla fine uno di loro capì che non poteva più vivere lontano dalla sua donna.
-Preferisco morire che vivere lontano da lei ! – disse agli altri.
Tentarono in tutti i modi di dissuaderlo, ma fu inutile.
Tornò al villaggio, riabbracciò la sua amata e quella notte dormì accanto a lei.
Al mattino si svegliò e la vide che dormiva placidamente al suo fianco.
Corse ad avvisare gli altri: lo Spirito era stato sconfitto.
Quel gesto eroico, quel miracolo, l’aveva compiuto proprio lui!