Performative Arts today

di Giorgiomaria Cornelio

Prima parte

PERFORMATIVE ARTS TODAY: Like a Grave of a Stone, Like a Cradle of a Star”
Trinity College Dublin – 2 Febbaio 2018.
Direttori: Dr Giuliana Adamo (Professor in Italian, School od Languages, Literatures
and Cultural Studies, Trinity College Dublin) / Bianca Battilocchi (Ph.D. candidate).
Direttori Artistici: Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi

Il 2 febbraio si è tenuto, presso il Trinity College di Dublino, l’evento Performative Arts Today: Like the Grave of a Stone, Like the Cradle of a Star”, luogo eletto a raccolta di “vicinanze, avvicinamenti, concatenazioni, carteggi, disgiunzioni, proposte d’etimo, corrispondenze tra l’Italia e l’Irlanda ordite nel segno del sasso e della stella, del labirinto e del tappeto.” Il programma della giornata è stato progettato come strategia di liquidazione di quelle divisioni tra discipline artistiche che piuttosto che favorire una geografia di comunanze e sconfinamenti continuano a ripararsi nei rispettivi dipartimenti di conforto. La giornata è stata pertanto orchestrata come partitura a più voci tra loro anche dissonanti e a presidio di un’idea del fare poetico vicina a quella di Emilio Villa (il cui volto disegnato da Vincenzo Consalvi compare nel manifesto come scompigliata etimologia della parola labirinto):

“Poesia è fare spiragli, produrre crepe,
segnare filiture dentro il
sipario, dentro la Parete
Sbarrata”
Molti degli autori italiani proposti sono stati da tempo ricoverati nel contenitore cavo delle “arti sperimentali”, tentando così di evitare (soprattutto in Italia) un confronto con il loro carattere sulfureo e indisciplinato. Per quanto concerne la parola poetica è certo che, nel trasferirne la misura in una terra straniera, è apparsa ancora più evidente l’estraneità di questa stessa poesia rispetto ai limiti di una lingua madre data come organismo fissato e non come deposito di strati (“nel continuum in cui tutte lingue si muovono non è possibile distinguere con sicurezza tra proprio ed improprio, tra origine e decadenza. Gli strati della lingua sono troppi, e troppo diversi perché i ritmi del loro incessante slittare siano percepiti simultaneamente” scrive Daniel Heller-Roazen nel suo saggio “Ecolalie”).
È allora nello spostamento del baricentro letterario, nel passaggio nomade di testimonianze e nel travalicamento geografico che il congegno dell’azione poetica può smettere di essere considerato “oggetto sperimentale” ed essere adottato, finalmente, come insieme di pratiche inaugurali. L’intervento inviato per l’occasione da Mario Diacono, intitolato “Villalogos1” e dedicato alla poesia di Emilio Villa, insiste sullo stesso tema. Ne pubblichiamo di seguito un estratto:

Dopo la fine, nel 1945, di una guerra dalla quale si era sempre dichiarato disertore, Emilio Villa ha vissuto come scrittore una condizione di progressiva alienazione dalla cultura italiana (dalla cultura europea tout court, forse), verso la quale assunse una pratica e un pensiero non soltanto conflittuali ma apertamente avversari, che si manifestarono nella separazione dal libro quale prodotto (corrotto e corruttivo) di una società dalla quale si trovava estraniato, da cui si dichiarava formalmente indipendente. In uno delle centinaia di frammenti di scrittura che ha lasciato inediti scriveva, “Tutta la nostra partecipazione alla vita del mondo si realizza nella nostra azione poetica.” Non ha considerato mai la politica italiana o mondiale degna di più che un passeggero sarcasmo; da funambolo della parola, scende metodicamente dal sublime al comico/parodico per poi ritornarvi, e questo metodo di scrittura negativa lo applica tanto alla sfera del politico-sociale quanto a quella della lingua letteraria: “questa brutta brutta lingua brutta come il peccato e come la morte è così brutta e biotta che, guarda, buttala via, buttala, butta che è così brutta che io la butto”. Potrebbe riferirsi a quella materna, l’italiano, ma insieme a ogni lingua stabile, inabile a trasformarsi in linguaggio ulteriore, in “azione poetica”; a qualsiasi lingua insomma che tenda ad atrofizzarsi in libri di consumo, che non si tuffi dalla visione del mitico nell’ingorgo del multi-senso, dei detriti urbani, delle acrobazie semantiche per risalire a una superficie percorsa da fantasmagorie verbali. Non solo la lingua, la letteratura stessa è destinata a un’analoga destabilizzazione: “io, che ho inventato la poesia distrutta”, “il solo che ha buttato via il meglio che ha fatto.”

Una sezione della mostra “Come tomba di un sasso, come culla di una Stella”.

La prima conferenza della giornata è stata quella di Antonio Presti, direttore della fondazione Fiumana D’arte che, attraverso la sua testimonianza biografica, ha indicato una via per licenziare le dinamiche immediatamente dialettiche del conflitto contro il potere (in particolare quello dello Stato e quello Mafioso, che da anni puntualmente ostacolano la fondazione). Per Presti, l’operato artistico non può sottrarsi alla sua vocazione edificativa indugiando nelle chiusure del mercato, ma deve piuttosto abitare il mondo producendo rotture di senso, aperture, luoghi che alludano ad ulteriori possibilità d’essere (forzando e discriminando i bordi dell’attualità): il bello, in questo caso, non è misura di spettacolarità (anche quando ci troviamo di fronte alle sculture giganti della fondazione) ma manifestazione di fedeltà verso il mondo, atto di gratuità che produce uno scarto di senso. Nel mostrare le stanze del suo “Atelier sul Mare” (prototipo di albergo dove l’arte disarticola e reinventa la normale dimensione abitativa), Presti ha inoltre raccontato delle sue numerose collaborazioni con figure come Raúl Ruiz, Hidetoshi Nagasawa e Renato Curcio (tra le tante citate).

Piramide al 38º parallelo di Mauro Staccioli (Fondazione Fiumana D’arte)

La torre di Sigismondo di Raúl Ruiz (Atelier sul Mare)

Labirinto di Arianna di Italo Lanfredini (Fondazione Fiumana D’arte)

La dimensione archetipica delle costruzioni qui proposte è parte di un continuo ritornare o collidere di immagini e di forme che null’urto si danno una diversa genealogia, e che pertanto ricompaiono non solo come deformazioni (l’Egitto favoloso raccontato da Jurgis Baltrušaitis ne La ricerca di Iside) ma anche come soglie, forze concrete, flussi rotativi e immaginali:

Il processo di formazione espressiva dell’uomo è un continuo flusso, un processo inalterabile di integrazione simultanea: è incessante presa del mondo, posto della immaginazione come pura captatio. Il segno è figura, la figura è atto, l’atto è unità, comunione, integrazione, generazione (…). Così come azione e simbolo sono l’unica e medesima realtà. (Emilio Villa, L’arte dell’Uomo Primordiale)

In questo senso, la mostra “Come tomba di un sasso, come culla di una stella” – inaugurata in Italia alla galleria Philosofarte (Agosto 2017) e riproposta come parte dell’evento a Dublino da Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi – chiama a colloquio una trama di immagini che vorrebbe essere sconfinamento e proposta di un cinema prima del cinema, di un cinema cioè sottratto all’obbligo della sua cronologia. “Come tomba di un sasso, come culla di una stella” (i cui autori in mostra continueranno a comparire lungo tutto questo compendio) è stata concepita proprio a partire da un film omonimo girato tra l’Italia e l’Irlanda dai due curatori, inseguendo la lezione dell’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg. Pubblichiamo un estratto dell’introduzione:

Mettiamo di essere ancora al principio. Che un mago tracci una fiaba che può essere letta come un memoriale del viaggio dove l’Ogham (antico alfabeto irlandese, provenienza del cinema, gesto doppio d’incidere linee sulla pietra e sulla pellicola) s’incontra e si confonde con i disegni di Giuditta Chiaraluce e con le stanze pittoriche di Magdalo Mussio e Mariano Prosperi: atlanti, carte cucite, tarocchi che abbiamo sperso nei posti dove abbiamo vissuto per nove mesi. Mettiamo anche che il mago, svegliatosi, abbia con sé oggetti raccolti nella memoria dei gesti con essi compiuti: il sasso e la stella orditi nel disegno del tappeto.

Nel segno di queste tre figure abbiamo costruito una mostra come prima, per senso dell’andare, avevamo inventato un film, girato quasi del tutto in Irlanda, e intitolato “Nell’insonnia di avere in sorte la luce”, che poi è un verso di Franco Ferrara, il poeta della parola in esodo, della parola che narra alle colombe l’inadeguatezza dei nidi.

(…) Corrispondenze, dicevamo, e quindi rivolgimenti nel gioco liquido delle “Idrologie” (quelle di Villa, di Craia e di Cegna) che manifestano, inventano da capo il mondo, come succede anche in un’audiocassetta di Vincè, arrivata da Vallecascia: specie di cosmogonia suonante. E ancora: (…) se il cielo è un enorme poema, il Braille, forato nella notte della pellicola, ne è il suo Alfabeto Celeste (bisognerà rifare una buona volta il “Catalogo delle Vocali”, come già aveva indicato Corrado Costa).

E così via, d’Iride in fiore, nel viaggio che non finisce, sfinisce mai: “Voyage that never ends”.


Una tavola dell’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg

Una sezione della mostra “Come tomba di un sasso, come culla di una Stella”.

Il manifesto del film, con un’opera di Magdalo Mussio

Tra i materiali esposti nella mostra che abbracciano in qualche modo il tema del continuo riaffiorare delle immagini citiamo il saggio poetico “Warburg, Licini e i serpenti”, attraverso il quale Vincenzo Consalvi ha tracciato una corrispondenza (tra l’opera di Osvaldo Licini e alcune riflessioni già proposte da Aby Warburg) che nel film diventa pratica di migrazioni tra terre straniere: “(…) come a dire che la piramide di Killiney Hill (due volte capovolta nei resti del monastero di Glendalough) è già stata raccontata da Aby Warburg ne “Il rituale del serpente” ed è forse un altro sogno scalato da Osvaldo Licini”.

Casa Museo e Centro Studi Osvaldo Licini:

 

Di “Warburg, Licini e i serpenti” pubblichiamo, di seguito, una breve nota:

«Tutti i miti sono castelli in aria, anche quelli tenacemente agganciati a terra o vaganti negli abissi marini. I nomi delle tradizionali costellazioni sono castelli in aria. Osvaldo Licini nel 1935 alla quadriennale romana espone i suoi castelli in aria, uno dei suoi miti celesti, un castello in aria apparentemente solo geometrico astratto ma che il titolo stesso tradisce denso di altre volontà poetiche. (…) Tanti castelli in aria, “amalassunte”, angeli, personaggi pian piano fino al termine della vita sua faranno invasione del cielo tutto: la costruzione a scala arancione, sul nero di fondo, dipinta al capo del letto di Licini e Nanny insieme ai sogni dell’artista prende la via del cielo e si trasforma in castelli in aria, iniziando la scalata.»

La seconda conferenza del giorno è stata aperta da un altro film, intitolato “Variazioni: a visual polyphony”, girato da Giuseppe Sterparelli (con la fotografia di Lisa Rinzler) in una Death Valley tracciata con linea facile tra California e Nevada e dedicato alle “17 variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica” di Emilio Villa e Alberto Burri, esoedizioni poetiche a proposito delle quali Sterparelli scrive:

Le 17 Variazioni di Villa e Burri guardavano in una prospettiva assoluta, radicalmente estranea alle cronologie della Storia (letteraria e sociale) e senza una “lingua” madre; il poeta, in antagonismo alle ristrettezze dell’Italiano tecnico ereditato dal Fascismo, tornava alle forze germinali del linguaggio, ne evocava il flusso straripante come dovevano essere il Tigri e l’Eufrate nei giorni di calamità; un’“iride fonica” che abbracciava italiano e latino, francese e dialetto lombardo, inglese e provenzale, in una contaminazione che rimodellava radici etimologiche in neologismi, il solenne nel chiasso dei rioni, nel naufragio di registri e ancoraggi.

Villa aveva già individuato nell’arte di Burri un campo pratico per la propria opera di manomissione della parola. Quando invitò il pittore ad unirsi a lui nel concepimento del libro, non richiese “illustrazioni” come era d’uopo per un libro d’artista, ma di unire segno e scrittura in un intreccio di valori fonetici e al contempo visivi, unendo la forza d’urto delle loro rispettive impronte.

(…) Burri, in un piano di intensità simile ma ancora memore dell’equilibro di Piero della Francesca, antico eppur vicino conterraneo tra Umbria e Toscana, realizzò tre opere originali per ogni copia, tra Copertine dai tratti filiformi e Pagine di inserti materici, come i famosi Sacchi in juta, e appunto le prime Combustioni.

Fu proprio questa la condanna del libro; il pittore era già nelle liste dei mercanti e i collezionisti cominciarono a strapparne le pagine per rivenderle separatamente. Per il volume Villa aveva del resto coniato il nome di “esoedizione”, stampa che travalicasse la stampa, concepita come atto unico e ogni volta diverso: un’unicità evidentemente rispettata anche dal destino, che portò il pittore a interrompere la tiratura dopo sole 24 copie.

17 variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica

17 variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica



Lisa Rinzler, Bad Water Basin (Death Valley National Park), novembre 2015

Il terzo incontro avrebbe dovuto ospitare un dialogo tra Antonella Anedda e Eiléan Ní Chuilleanáin (poetessa e traduttrice in irlandese e in inglese dell’opera dell’Anedda) sulle ragioni della traduzione come avvicinamento e deposito (inedito) di senso piuttosto che come solo passaggio di lingue. Per questioni di salute, Antonella Anedda non è potuta intervenire, e l’incontro si è tenuto comunque nel segno di questa mancanza, a ribadire che la presenza può darsi anche come corpo vivo di scrittura, risuonando oltre le contingenze e i programmi (“Un imprevisto / è la sola speranza”). Pubblichiamo comunque un estratto della lettera indirizzata ai partecipanti dell’evento, letta il giorno dell’evento da Giuliana Adamo e da Eiléan Ní Chuilleanáin (in traduzione inglese):

Sono profondamente addolorata di non poter essere tra voi per una seria ragione di salute. Avrei voluto (…) condividere con voi la gioia di ascoltare una delle voci più esatte e toccanti che io abbia mai sentito: quella di Eiléan Ní Chuilleanáin. Ascoltandola leggere e parlare ho capito davvero quello che dice Cicerone quando nell‘Orator ad M.Brutum, XVIII, dice: “Est autem in dicendo etiam quidam cantus obscurior”. La poesia di Eiléan così autorevole e così priva di arroganza, ha la naturalezza di questo dicendo, di questo andante del gerundio. È un’oscurità luminosa, quella che viene dai chiari del bosco, dalla luce che filtra dai cespugli, ha a che fare con l’acqua, le pietre, la memoria.

È un grande onore essere stata tradotta da lei, non solo in inglese ma anche in gaelico. Amo i suoni della vostra lingua, dolci, ma non addolciti, irti di consonanti, aspri ma non duri. Se essere tradotti è come dice Zanzotto come per la Bella addormentata essere baciati dal principe, questo incontro tra più linguaggi gaelico-logudorese-inglese e italiano risveglia davvero qualcosa che forse non sapevamo ancora, un elemento ulteriore che restava nell’originale.

Penso alle traduzioni di Seamus Heaney la cui poesia è e resterà indimenticabile perché indistinguibile dalla sua umanità. Penso al suo dialogo ininterrotto con Virgilio, Dante, Pascoli a come il suo linguaggio abbia e stia continuando a renderli vicini. Marco Sonzogni dice che li “addomestica”, un termine che per la traduzione suona negativo e invece è vero nel senso che davvero li porta come si farebbe con un gregge in Irlanda e invece di allontanarsi dall’originale, si avvicina lo avvicina lo carica “del suo voltaggio di terra, di acqua, di mare e di tradizione”.

Il risultato è una catena umana che conserva e continua una specie particolare, quella della poesia. Gli atomi delle parole sono qui si aggregano e si disintegrano, si compongono di nuovo. La traduzione non trasporta morti, ma parla di loro, con loro, in una metamorfosi continua di paesaggi e cose, rende concrete le loro ombre.

1 Mario Diacono, VILLALOGOS. Pubblicato per la prima volta nel catalogo della mostra “VILLADROME: Emilio Villa. Libri riviste scritti 1947-1992”, Studio Varroni, Roma, settembre 2014. Mostra organizzata per i 100 anni dalla nascita di Emilio Villa (n.d.c.).

(fine prima parte)

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