In principio era l’Ulisse
di Romano A. Fiocchi
Noel Riley Fitch, La libraia di Joyce. Sylvia Beach e la generazione perduta, Il Saggiatore, 2004.
In principio era l’Ulisse, l’Ulisse era presso Sylvia Beach e l’Ulisse era Sylvia Beach. Ecco, così si possono sintetizzare le 559 pagine di un libro che un cultore di Joyce non può evitare di leggere. È la storia di una giovane americana che il 17 novembre di novantanove anni fa aprì una libreria in rue de l’Odéon, a Parigi, sulla riva sinistra della Senna. Lei si chiamava appunto Sylvia Beach, la libreria era la Shakespeare and Company. Attenzione, non la Shakespeare and Company tuttora esistente in rue de la Bûcherie. Quest’ultima, fondata da George Whitman nel 1951 e oggi gestita dalla figlia, Sylvia Whitman, venne inaugurata con il nome di Le Mistral e diventò Shakespeare and Company in onore di Sylvia Beach nell’aprile del 1964, due anni dopo la sua scomparsa. Certo, anche nella libreria di George Whitman (qui il sito) i nomi dei frequentatori sono da brivido: Allen Ginsberg, William Burroughs, Anaïs Nin, Richard Wright, Julio Cortázar, Henry Miller, Lawrence Durrell, giusto per citarne qualcuno.
Ma lo splendido volume di Noel Riley Fitch, La libraia di Joyce, non fa cenno della libreria di George Whitman, nonostante arrivi all’anno della morte di Sylvia Beach. La Fitch si concentra sulla ricostruzione meticolosa e approfondita della biografia della piccola libraia americana a partire dal suo ambiente familiare e culturale – era nata a Baltimora, figlia di un pastore presbiteriano di Princeton – sino all’incontro con quelli che chiama i suoi tre amori: Adrienne Monnier, James Joyce e la Shakespeare and Company. È attorno a questi tre amori che ruota tutto il libro.
Il primo è un amore discreto ma duraturo tra due appassionate di libri. Adrienne Monnier, scrittrice ed editrice, è la proprietaria della libreria La Maison des Amis de Livres, collocata sul lato opposto di rue de l’Odéon. Sylvia ne farà la sua compagna di vita per trentotto anni. Il secondo amore è uno scrittore conosciuto quasi per caso al ricevimento degli Spire nel luglio 1920. L’incontro è proverbiale: lo scrittore è seduto nella biblioteca, rifugiato lì per sfuggire all’imbarazzo di un pessimo scherzo che gli ha fatto Ezra Pound, anche lui presente al ricevimento. Sylvia gli si avvicina e chiede con timore:
– Il grande James Joyce?
– James Joyce, – risponde lui, porgendole con fermezza una fragile mano.
È l’inizio di un rapporto di amicizia e di stima reciproca, quella di Joyce talvolta un po’ opportunista, che porterà Sylvia Beach a pubblicare l’unico e il solo libro per cui la Shakespeare and Company darà il tutto per tutto e rasenterà più volte il fallimento: Ulisse.
Il terzo amore di Sylvia Beach è proprio questa, la sua libreria. La Shakespeare and Company era una semplice libreria con funzioni di biblioteca, di quelle che, come si usava allora, non solo vendevano ma prestavano i libri dietro una forma di abbonamento. Ma era anche e soprattutto un centro di aggregazione di artisti, di scrittori, di letterati, di semplici bibliofili. Nei mitici anni Venti parigini la frequentarono, attratti da una sorta di magnetismo, personaggi come Thomas Stearns Elliot, André Gide, Ernest Hemingway, Ezra Pound, Gertrude Stein, Paul Valéry, persino musicisti innovativi come George Antheil. L’elenco si estenderà negli anni Trenta a nomi del calibro di Samuel Beckett, Simone de Beauvoir, Walter Benjamin, anche se gli effetti della grande depressione seguìta al crollo di Wall Street del ’29 e i venti di guerra che inizieranno a soffiare con l’avvento di Hitler ridurranno drasticamente l’attività della libreria.
La libraia di Joyce è dunque anche la ricostruzione del clima artistico-letterario di quel periodo, di una Parigi diventata patria culturale di decine di migliaia di cittadini americani. Lo scopo della Shakespeare and Company, in tutti i suoi anni di esistenza, sarà sempre quello di promuovere lo scambio culturale e l’amicizia tra gli autori americani e quelli francesi ed europei in generale. E fa davvero specie, così come emerge dal libro, vedere questo crogiolo di straordinarie potenzialità implodere lentamente e dissolversi di fronte al dilagare del nazismo. Sylvia Beach sarà una dei pochi americani che non lasceranno la capitale francese neppure dopo l’occupazione tedesca. Sapeva che a rischiare erano più che altro i suoi amici, e lei sarebbe rimasta per aiutarli. Ma a darle davvero forza era probabilmente la carica di ottimismo accumulata dopo aver affrontato un’avventura credo unica nella storia editoriale: la pubblicazione nel 1922 del più impubblicabile dei libri, l’Ulisse.
Che non fu una passeggiata, specie per una libraia che non era mai stata editrice, lo testimonia una molteplicità di aspetti. Si trattava innanzi tutto di realizzare un libro di una certa dimensione, con particolari caratteristiche editoriali che andassero incontro ai desideri di uno scrittore esigente come Joyce. Un libro già sotto processo per pornografia negli Stati Uniti dopo una pubblicazione parziale a puntate sulla rivista newyorkese The Little Review, un libro che nessuno aveva più il coraggio di pubblicare. Per trovare una tipografia disponibile, Sylvia Beach dovette andare sino a Digione, da Maurice Darantière, con cui si accordò per la stampa di una prima tiratura di mille copie, di cui cento su carta a mano olandese e con copertina di carta blu rilegata in marocchino dello stesso colore. Lavoro immane anche quello delle bozze, continuamente rifatte con correzioni e integrazioni di intere pagine aggiunte all’ultimo momento dallo stesso Joyce e ricopiate da tipografi francofoni che non conoscevano una sola parola di inglese. Poi c’era il lavoro di segreteria. Joyce incominciò ad utilizzare la Shakespeare and Company, quindi Sylvia Beach e le sue collaboratrici, come se fosse una struttura a disposizione sua e del suo Ulisse: inviti, spedizioni, contatti, fermo posta, richiesta di recensioni, presentazioni, e così via. La Shakespeare and Company fu coinvolta anche nelle questioni legali dovute alla pubblicazione di copie pirata, a partire da quella clamorosa dell’editore americano Samuel Roth. O, viceversa, al contrabbando di copie originali in nazioni dove ne era vietata la vendita.
Dalla storia della pubblicazione dell’Ulisse emergono due immagini contrastanti dei protagonisti: la tenacia e la generosità di Sylvia Bech e la fragilità di un Joyce pieno di ossessioni e spesso dedito all’alcol, squattrinato ma sempre pronto a vivere oltre le sue possibilità a scapito di amici e conoscenti, arrivando al punto di sfruttare le risorse economiche della stessa Sylvia e di “tradirla”, dopo undici edizioni, cedendo i diritti ad un importante editore americano.
Sylvia accettò tutto senza risentimento. Amava Joyce e le sue opere nonostante tutto. La sua soddisfazione non era soltanto vendere o prestare libri, di Joyce o di altri, ma aiutare la creatività e intrecciare una rete di amicizie. Fra le numerose prove di altruismo, l’aiuto e l’ospitalità che insieme ad Adrienne diede alla fotografa Gisèle Freund, giovane rifugiata ebrea di Berlino espulsa dalla Francia. Ma anche a Gordon Craig e alla sua famiglia, rinchiusi dai tedeschi e salvati grazie all’intercessione di un cliente della Shakespeare and Company che fece da tramite con la Gestapo e assicurò che i Craig non fossero di origine ebrea.
Joyce, dopo varie incertezze, rifiuterà alla Shakespeare and Company persino la sua prima edizione del Finnegans Wake, che uscirà contemporaneamente in Inghilterra e negli Stati Uniti il 4 maggio 1939, mentre Hitler attuerà l’invasione della Cecoslovacchia e della Polonia. Ma per mettere la parola fine all’esperienza della Shakespeare and Company e a tutto ciò che era stato bisognerà aspettare il 7 dicembre 1941, quando i giapponesi bombarderanno Perl Harbour e l’America entrerà in guerra. Lì Sylvia Beach incomincerà davvero a temere non tanto per sé, in quanto americana, ma per la sua libreria. E non avrà tutti i torti. Ecco come il libro della Fitch riporta le battute finali:
«Alla fine di dicembre (1941) l’ufficiale tedesco che voleva la sua unica copia di Finnegans Wake ricomparve alla porta della Shakespeare and Company. Chiese dov’era il libro e Sylvia gli rispose che l’aveva nascosto. Questa volta la sua resistenza fu vana: “Verremo a confiscare il suo negozio” annunciò l’ufficiale, tremando di rabbia. Non appena se ne fu andato, Sylvia corse dalla portinaia, che le concesse gratuitamente un appartamento libero al quarto piano. Sylvia si rivolse a Saillet, che le chiese se non poteva attendere l’anno nuovo per spostare le sue giacenze. Non poteva. Temeva la confisca di Shakespeare and Company più della prigione. A tempo di record (Sylvia racconta di averci messo due ore), usando scatole e cesti per la biancheria, lei, Adrienne, Saillet e la portinaia spostarono oltre cinquemila libri, migliaia di lettere, quadri, tavoli, sedie, insegne e perfino lampade, i fili per la luce e gli interruttori, portandoli al sicuro al quarto piano. Chiamò un falegname per smontare gli scaffali e un imbianchino per cancellare la scritta sulla facciata del negozio. Dopo anni di sogni, mesi di progetti e ventidue anni di ciò che lei chiamò “pilotare una piccola libreria attraverso due guerre”, Shakespeare and Company scomparve in un baleno».
Ciò che ripetuti assalti di difficoltà economiche non erano riusciti a ottenere, riuscì invece ai nazisti. Alcuni mesi più tardi, i tedeschi arrestarono Sylvia Beach e la internarono prima nello zoo del Bois de Boulogne, quindi a Vittel. Ma i tesori della Shakespeare and Company restarono nascosti sino al momento della liberazione. La libreria non venne mai più riaperta, neppure a distanza di anni.
Di Sylvia Beach, per chi volesse farsene un’idea anche fisica, restano delle interessanti interviste registrate, in inglese o in francese, da lei rilasciate durante l’ultimo periodo della sua esistenza, quello degli onori. Con l’avvio delle ricorrenze annuali del Bloomsday (termine da lei coniato) e il diffondersi di un vero e proprio culto per Joyce, il suo nome tornò alla ribalta. Qui, ad esempio, è un’intervista resa disponibile dagli archivi dell’INA, l’ente nazionale francese incaricato della conservazione delle documentazioni audiovisive. Sylvia parla ovviamente in francese, la sua lingua di adozione.
Alla sua morte, nonostante le obiezioni dei suoi amici francesi e i suoi quarantasei anni trascorsi a Parigi, le sue ceneri vennero sepolte a Princeton, nel New Jersey.
ottima recensione per libro da non perdere, ho trasposto, in tavole pittografiche, sia l’Ulisse che il Finnegans quindi potrei mai non leggere codesto saggio!!??
r.m.
Grazie.
Non sapevo nulla di questa innamorata della letteratura e la tua recensione da cui traspare la medesima passione suscita il desiderio di leggere il libro.
Grazie, Giangiacomo!