Mutandine
di Mirfet Piccolo
Era mattina, e lui dal comò afferrò un paio di mutandine della moglie: un tanga di colore nero con pizzo, davanti; dietro, il filo sottile aveva come scopo la nudità delle natiche e, al contempo, lo sfregamento dell’orifizio. Le mise nella borsa in pelle, tra l’agenda e l’ultimo numero della rivista Anesthesiology. Nel fondo della borsa, Sergio intravide una caramella al lampone, residuo della sua più recente sosta fuori casa. Chiuse tutto in fretta per non cedere alla sua naturale propensione a soffermarsi sui dettagli. D’altronde, la richiesta era stata chiara e questa volta non avrebbe ammesso obiezioni: voglio le mutandine di tua moglie e questo è un ordine.
Poi Sergio entrò in bagno, abbassò la tavoletta del water e si sedette ad osservare il corpo nudo di Clara che appariva oltre il vetro smerigliato del box doccia: i tratti confusi e apparentemente inafferrabili avrebbero potuto essere di chiunque. In fondo era andata così, quella mattina all’alba dopo il turno di notte in ospedale, e a quel ricordo Sergio sentì il suo desiderio farsi carne nel pene turgido, e, ancora una volta, provò vergona e piacere e senso di colpa. Quando sua moglie chiuse l’acqua della doccia, Sergio si alzò e uscì dal bagno.
In camera da letto, Sergio accese la televisione: guardò le immagini disturbate, tagliate da scie bianche e nere che nella promiscuità diventavano grigie. Clara entrò in stanza con l‘asciugamano sui capelli bagnati e un sorriso stanco e un po’ triste. Sergio aprì l’anta dell’armadio; celare l’indicibile, ovvero la sua stessa corruzione, rimanere nell’ombra.
– Sei di turno ogni sabato, adesso.
– È solo un periodo, passerà. Hai chiamato il tecnico?
– Oggi la porto in negozio, ma forse dovremmo cambiarla, ci costa di meno. Queste cose si rompono di continuo, ormai.
– Forse non dovremmo tenerla in camera da letto – disse guardandosi allo specchio mentre si abbottonava la camicia -, forse potremmo farne a meno.
– Che differenza farebbe?
La camicia era abbottonata, ma lui rimase allo specchio ad osservare, nel riflesso, sua moglie che si vestiva. Eccola, elegante e fresca, le scarpe rosse con il tacco che lui le aveva regalato e che, una notte, le aveva fatto indossare mentre lei, nuda, in ginocchio e davanti al lungo specchio, con la bocca prendeva il suo sesso. Su e giù; la schiena riflessa, i glutei sodi leggermente dischiusi, i tacchi divenuti scostumati. Ricordò la bocca di lei riempirsi della sua eiaculazione, del suo trionfo. Dopo quella sera, la stesa scena era stata ripetuta qualche altra volta con un entusiasmo ed eccitazione via via decrescenti, fino a scomparire.
Le nove del mattino. Salutò la moglie ricordandole che avrebbe potuto fare tardi anche per cena, di non aspettarlo, e sua moglie, nell’abbraccio e dopo un bacio, non fece domande.
In strada, il calore dell’estate era una maschera che gli avvolgeva il viso dopo averlo schiaffeggiato; era punizione e godimento insieme. Stava per succedere ancora, pensò, e questa volta lui sarebbe stato l’artefice, il regista di un gioco che lui stesso non avrebbe mai immaginato possibile. Controllare il gioco come si controlla la vita e la morte; io so sospenderle, pensò, io so riprenderle e lasciarle andare. Salì sulla sua Audi ma non partì subito. Appurò che tutto fosse in ordine: il libretto di circolazione, la patente, gli specchietti ben posizionati; verificò che non ci fossero chiamate non risposte, messaggi non letti ai quali avrebbe dovuto rispondere con una menzogna e, infine, quando ogni cosa fu controllata, Sergio mise in moto.
La scritta a neon rossa Sex Shop era una prima donna in mezzo ai capannoni industriali di una provincia che il cemento aveva desertificata. C’era già passato davanti altre volte, ma senza mai fermarsi. Perché con Clara non era mai entrato in posto così? Sergio si ripromise che lo avrebbe fatto, certo, e che lui sarebbe tornato un marito non fraudolento, un marito conforme alle aspettative. Spense il motore. Il negozio era aperto da pochi minuti ma molti posti del parcheggio erano già occupati. Una donna, di apparente mezza età, con lo sguardo basso e il passo svelto entrò nell’adiacente Slot Machine Palace; l’insegna recitava: +18, aperto tutti i giorni dalle 10.00 alle 02.00. Sergio non poté fare a meno di pensare che, tutto sommato, se avesse avuto il vizio del gioco sarebbe stato peggio. Più in là, un camion della logistica entrava e usciva da un capannone; carichi e scarichi, vite impacchettate.
L’aria calda e immobile entrava dai finestrini abbassati. Sergio pensò che era ancora in tempo per tonare indietro, per annullare l’appuntamento, per cancellare tutta quella storia inqualificabile. Poteva controllarla.
Il negozio aveva appena aperto e Sergio, al momento, era l’unico cliente. Alla cassa, un uomo stempiato e sovrappeso era intento a compilare dei moduli e a firmare carte; l’uomo alzò lo sguardo verso Sergio: se ha bisogno chieda pure, disse. Il Sex Shop era un drappo di velluto scarlatto; la luce, calda, illuminava gli scaffali senza pretesa di sconvolgere. Era tutto lì, afferrabile da chiunque, misterioso e normale, ordinato, catalogato per genere e dimensione, colore, desideri e fasce di prezzo. Palline di Geisha, vibratori singoli e duo, stimolatori, plug Anal Dream, cuscini gonfiabili con fallo, bende, manette, corde. I best-seller del mese erano due: il Plug Anale Matrioska Prince of Kiev Pink, da una parte; e il Brent Corrigan Butt, dall’altra.
Andò nel settore lingerie e trovò subito le calze a rete con apertura. Erano parte degli ordini ricevuti; e gli ordini erano, per Sergio, la scoperta dell’eccitazione dove non se l’era mai aspettata. Andò alla cassa e pagò le calze a rete in contanti. Vuole che le faccia un pacchettino? No, grazie, va bene così. Chiese se ci fosse un bagno disponibile per i clienti; il negoziante, con un sopracciglio sollevato, rispose con tono pacato che se lì ci fosse stato un bagno a disposizione dei clienti, di certi clienti, sarebbe stato sempre occupato. Sergio si sentì sciocco e in imbarazzo e chiese scusa.
Rientrò in macchina. Il caldo si era impossessato di ogni cosa: della sua auto e dei capannoni e del cielo azzurro terso. L’insegna del negozio era la cosa più anarchica nel raggio di chilometri. Prima di mettere in moto, Sergio immaginò di vedere Clara nella sua Toyota color ambra. Immaginò di vederla entrare nel Sex Shop per fare l’equivalente di ciò che stava per fare lui, e trovò il pensiero sconvolgente ed eccitante. Molti anni fa, quando erano ancora fidanzati, Clara aveva raccontato a Sergio di aver vissuto un’esperienza sessuale estremamente stravagante per il suo carattere: aveva baciato un’altra donna, o meglio, una ragazza. Era accaduto in quarta liceo nei bagni della scuola – “nei bagni delle scuole ogni cosa è possibile”, aveva aggiunto portando la testa indietro con una grande risata -; era stato qualcosa di mai più ripetuto e lasciato andare senza nostalgia, piuttosto raccontato come un evento piacevole, sì, ma eccezionale e, tutto sommato, buffo.
C’era coda, e il bagno dell’autogrill odorava di tutto il piscio del mondo e di vacanze sfatte. Sergio si chiese quanti uomini, di quelli in coda, avessero fatto ciò che Sergio stava per rifare. Forse, pensò, sono in coda come me e loro sono come me; forse anche loro, nei loro borselli a tracolla, nascondono il tradimento. Chi non ha peccato scagli la prima pietra, o il primo borsello o zaino; chi non ha peccato si amputi il rigonfiamento carnoso che emerge dai bermuda a fantasia, il capo d’abbigliamento principe di un’altra (l’ennesima) estate in famiglia.
In bagno, Sergio si tolse i pantaloni e le mutande. Dalla borsa in pelle sfilò le mutandine della moglie e le indossò: dall’alto osservò il pene compresso dal tessuto in pizzo nero e lo accarezzò ma senza esagerare perché, si disse, non era ancora il momento; poi indossò le calze a rete, e infine si rivestì del tutto. Tra le natiche, il filo sottile era teso e, finalmente, poteva sentirlo in tutta la sua impertinente provocazione. Sergio uscì dal bagno con la straordinaria consapevolezza che la sua eccitazione sarebbe stata evidente a chiunque avesse abbassato lo sguardo anche solo di sfuggita, e in quell’istante, cioè quando aprì la porta del bagno e vide la coda essersi fatta ancora più affollata, scoprì che essere guardato nella sua indecenza era ciò che desiderava in quel momento. Non chiedeva altro.
Il Motel era elegante: cinque stelle e parcheggi riservati e discreti; la receptionist in tailleur e le caramelle al lampone in una ciotola color argento, le stesse che gli ospiti avrebbero ritrovato in camera. Sergio consegnò il documento d’identità; la receptionist era la stessa dell’altra volta e Sergio fu tentato di chiederle se Darina fosse il suo vero nome, e quanti anni avesse e se le piacesse quel lavoro e cosa ne pensasse degli uomini come lui. Fu tentato di dirle che sarebbe stata l’ultima volta, che non si sarebbero più rivisti; e, vede, io non sono ciò che crede lei. La numero diciotto, disse la donna, la stanno già aspettando.
Il percorso dalla reception al bungalow numero diciotto fu assai breve. Parcheggiò la sua Audi accanto a quell’atra macchina che conosceva così bene; il parcheggio, in effetti, era riservato, disposto in modo che nessuno degli ospiti degli altri bungalow avrebbe potuto vedere i rispettivi vicini entrare e uscire dagli alloggi e, ciascuno a bordo del proprio veicolo, fuggire di gran lena lontano dal luogo dell’adulterio.
Stava succedendo ancora, pensò, era già in stanza e lo stava aspettando. A motore spento, Sergio pensò anche che era ancora in tempo per andarsene, per tornare a casa da sua moglie e magari andare insieme a comprare un nuovo televisore, poi avrebbero potuto andare a pranzo fuori e sorridersi a vicenda tra i riflessi di un calice di vino, per poi tornare a casa a fare all’amore: il loro amore semplice e costante, il loro desiderio quieto. E nel tempo di quell’amore, Sergio avrebbe potuto, ancora una volta, abolire la sua coscienza e sospendere il battito del suo cuore per il tempo necessario a camuffarlo in un orgasmo senza discrepanze. Avrebbe potuto.
Smise di pensarci e scese dall’auto, bussò alla porta. Oltre la porta poteva sentire i suoi passi, e Sergio li ascoltò avvicinarsi uno dopo l’altro. La porta si aprì e lui era lì, ancora una volta davanti a lui, così osceno e così bello, ad accoglierlo: hai portato le mutandine di tua moglie, vero?
Qual è il confine tra curiosità e perversione?
E si può veramente tornare indietro una volta oltrepassato?
Mirfet Piccolo non è mai banale.
Ho avuto occasione di leggere diversi racconti di Mirfet Piccolo. Ognuno è l’ingresso in un piccolo mondo, ognuno con un punto di vista mai banale o scontato. Mi piace l’uso che fa del linguaggio, sa utilizzare registri nuovi e adatti alla storia che di volta in volta ci racconta, pur mantenendo un suo stile personale. Mi piace la ricercatezza della lingua che però non sconfina mai nel puro esercizio di stile fine a stesso.
E mi è piaciuta anche questa volta. Più sfacciata, incuriosisce e stupisce. Bello.