La fine dell’acqua
di Vincenzo Corraro
Verso la fine di agosto, quando già l’estate precipitava in un vortice di luce avanzata, Miro Brunetti pensò bene che era venuto il tempo di ratificare il passato. Tenne la cosa in gran segreto ancora per alcuni giorni, e invece che stare lì a vagare per i boschi fissando con gli occhi ormai saputi l’algoritmo degli uccelli in volo o a fiutare nell’aria l’odore asprigno di rosa canina dei caprioli in amore (era un anno che si trascinava tra le montagne e dal velario di quei dirupi, con le spalle alla roccia, sentendosi protetto, sentinellava gradasso il bosco vagliandone minuziosamente, da competente, ogni respiro: acquattato e calmo come una bestia in fuga nella vegetazione fittissima, si teneva lontano da certe minacce che persino i carabinieri di R. gli avevano preannunciato serie tanto da dissuaderlo dal farsi vedere in giro, per un bel po’), si decise a scendere al casolare e tornare diritto da Piera, scusarsi una volta per sempre, portarla a mangiare una pizza e dirle com’era il fatto. Ma fin quando avesse avuto negli occhi solo cielo e il riflesso del sole sulla lastra bocciardata della falesia, quella faccia livida di rancore a stento contenuto poteva dirsi tranquilla e piena di fiducia tra le balze delle rocce che l’infallibile crudezza di popolo aveva segnato per sempre come l’Abisso del Diavolo.
Alto e impraticabile, così staccato dal resto della montagna, l’Abisso del Diavolo dirupava su una radura lunghissima, puntellata da rovi e prugnoli spinosi, prima di infilarsi nel grande bosco di aceri e castagno che per secoli aveva alimentato l’economia del paese; bucherellato come un’arnia o un rognone di vitella, con quegli accessi che parevano provenire direttamente dalle nuvole e da un biancore fisso in tutte le stagioni dell’anno, quello sperone era un ottimo nascondiglio che nessuno ricordava più. Spuntava certe volte solo nelle bestemmie quando, per l’effetto di quel nuvolare imperturbabile e severo, una fastidiosissima cappa di umido arenava fin giù nella valle e spingeva sui tetti e i muri di contenimento della provinciale, ricacciando, specie di sera, il paese nell’ansia o in un sentimento che assomigliava a quello di un destino provvisorio.
L’ultimo anno, si vedeva in paese solo per prendere le sigarette. Andava questuando pace e sonno, come i buoi che discendono i recinti d’altura e caracollano sfiniti sull’asfalto, al tepore del primo sole di marzo. Si muoveva a fatica e a passi lenti. Parlava con l’aria spenta, sfogata, e aveva smesso di suonare, ma pure di prendere la carta ai tavoli, così – diceva – si risparmiava l’affronto insulso di qualche lattante se era basso di primiera e, siccome aveva i conti in sospeso con tre quarti di quelli, i cinque minuti buoni di compromettersi una volta per sempre. Al bar poteva stare il tempo di tre bicchieri; sorrideva a chi trovava, con gli occhi fissi al bancone, prima di riprendere la via delle montagne e rituffarsi in quella rigida disciplina (gli urtava che lo trattassero come un malato) con indosso un’orripilante sahariana, il tascapane di tela e ai piedi stivaletti militari.
Saverio Mannarino, il socio di una vita, arrivava sempre quando lui era già passato, e gli raccontavano che a Miro forse era venuta la cirrosi perché era magro come una frusta di salice: un nervo d’uomo con la faccia gialliccia e seccata, che stava sempre a grattarsi e lasciava sui tavoli una scia schifosa di croste e pelle squamata. Saverio l’aveva perduto troppo presto, e di lui non parlava più con nessuno. Neanche con Piera. Che fosse ridotto in condizioni pietose lo dicevano con il sorso di birra in bocca, a bassa voce e a lui solo (anche il fatto disgustoso della pelle), perché sapevano il rispetto e l’amicizia antica che li legavano. Certe volte al bar trovava quelli del Consorzio: li vedeva che circospetti, tra un Campari e un pugnetto di arachidi, torchiavano i giocatori di carte su chi avesse messo in funzione la vecchia teleferica e chi trafficasse la notte per vendere in paese le canne di legna senza licenza. Era lui: i giocatori di carte si vendono per una birra, per un coscione d’agnello. Dicevano che scendeva coi camion dei rumeni in paese e in mezza mattinata accontentava le vecchiette. Le signore volevano Miro e nessun altro perché teneva pazienza e garbo; quelli che si erano fatti i soldi con la legna, nelle viuzze scomode, col trattore e le macchine agricole non volevano più entrarci, e tutti dicevano che mettere un rumeno a giornata per completare il lavoro dello scarico non conveniva. In realtà quelli del Consorzio avevano fatto cartello per aumentare il prezzo, specie al primo freddo, ma la loro legna rimaneva invenduta nei piazzali o sui nastri delle segherie perché Miro li fregava allegramente portando il suo carico fin dentro i sottoscala delle signore: prendeva giusto un regalo per sistemargliela ordinata, godendo di una rete di protezione anche dopo aver intascato il contante e le loro benedizioni (uguale a quando passava con la banda di San Quaranta e quelle stesse donne, identico anche il gesto, gli allungavano una bella mancia appena sentivano quel clarino che vibrava come la carta velina sugli acuti spremi-lacrime di Una spina e una rosa). Poi sgattaiolava in un baleno e a testa bassa su per i sentieri dietro le case, pensando già al nuovo traffico da piazzare.
Piera, la moglie, si era accorta che stava succedendo qualcosa. Mai un cenno sugli affari della segheria, mai un principio di discussione: si chiudeva in un silenzio diffidente quando a sera studiava le bollette, le lettere spillate agli F24 del commercialista, i conti dell’ampliamento e dei macchinari nuovi ipotecati da un mare di cambiali in protesto. Un’aria intorbidita, pesante come il piombo, lo precedeva: l’annusavano per primi i cani, scodinzolanti e irrequieti, come punti dalle zecche, tra le gambe di Piera e lo specchio ovale che ingombrava l’anti-ingresso. L’immagine di Piera si rifletteva dentro quel vetro scheggiato di traverso, esaltando i suoi tratti scomposti e sensuali, la pelle lattiginosa e al mattino freschissima. Proprio nel punto dove Piera attendeva Saverio, Miro amava radersi. Perché al sole, diceva, non sgarri mai le basette e guidi più sicuro il contropelo. Neppure le assenze, quelle scuse infantili per nascondersi e scappare, l’irreversibile apatia che lo consumava nel fisico, potevano scalfire il gesto primitivo e vanesio di radersi, come il padre, e ancor prima come il nonno, davanti al portone di casa.
La segheria scricchiolò quasi subito e già dopo i primi investimenti la società venne meno: quello che lavorava come carrellista aveva optato per il comodo posto nel 118, Saverio invece, più del mestiere, siccome avanzava trentamila euro, tra mensilità, interessi e spese legali, aveva protestato – visto che Miro andava nascondendosi in preda a quel perenne stato di collasso – direttamente con Piera. Era salito fino al casolare per chiarirle perché quel capannone non aveva mai ingranato e in due anni di prestiti bancari e di emungimenti del PSR regionale non avevano chiuso un contratto decente con le ditte del pellet e le falegnamerie della valle. Un filo di luce passava dai lobi di Piera, proprio dai due buchi per gli orecchini che non metteva da anni, e si allargava a ventaglio sopra le sue guance. Increspava ancor di più la sua chioma, così riccia e folta, sempre curata. Risaltava il profilo dei suoi seni, quel gesto di annodare i capelli dietro la nuca, mentre faceva avanti e indietro dall’anti-ingresso con un vestito fiorato e una gamba tesa per infilarsi le scarpe. Sapeva che lui non staccava gli occhi dal movimento delle sue gambe senza calze – così lo teneva in pugno. Turbato, Saverio abbassava lo sguardo. Ancora non si faceva capace come lei potesse dominare questa sua solitudine, come su quella faccia impassibile si stesse modellando l’espressione di un abbandono fiducioso. Era un motivo tecnico: il legno – le spiegò balbettante – era nodato, e lui aveva sbagliato a mettersi con gente incompetente che voleva solo comandare. A Saverio gli tremavano i polsi, gli pareva di risentire, nella sua voce rauca, i gridi di Miro, quando beveva e si sfogava nella sua macchina e gli cercava disperato i soldi nelle tasche. Prese Piera per un braccio e la condusse in mezzo alla spianata. Lei, scorta l’accetta nello zaino, pensò al peggio. Il passo pesante, l’espressione sorniona e furbesca: ogni minimo dettaglio faceva presagire che Saverio si stesse accomodando su un trono vuoto. Per l’agitazione, arrivò a credere che quel disperato di Miro chissà quali patti schifosi avesse fatto per dilazionare i suoi prestiti. Guardava implorante verso l’Abisso del Diavolo, sperava che Miro la vedesse. Non era più arrabbiata con lui. Saverio afferrò un ramo di lato al sentiero e con un colpo secco lo spezzò dall’albero. Lo scorticò con maestria e fece un intaglio ad elle, mostrandoglielo: “Questo è un legno malato, lo capisci? Segno che tutta la zona qua attorno, a meno che non ci sia un fosso di guado in mezzo all’agro, lo è. Il verme salta, si replica a milioni nei faggi e li polverizza una volta tagliati. Andava trattato, maledizione! Disboscato il ceduo quando era tempo! Ma tuo marito è una testa di capra! Non mi ha mai voluto dare ascolto!” Non disse altro e la lasciò andare, anche se le gambe stavano per cedere e il pensiero di sfiorarle quelle labbra da ragazzina per un attimo venne. Tra le debolezze di Piera accendeva sempre una miccia: sentiva di poter cominciare a guadagnare la sua fiducia, pur temendo la sua bellezza, la sua spavalda incostanza. Per molto tempo ancora, ogni volta che la vedeva in piazza, la squadrava, felice e rabbioso.
***
Piera viveva dentro una conca tettonica che nel Pleistocene doveva essere un lago. Lo aveva letto su un dépliant del comune che declamava gli scavi archeologici e le bellezze turistiche del territorio; lo teneva sul camino dietro la sveglia, insieme alle bollette, alla scheda punti del supermercato e alle partecipazioni dei matrimoni che ancora, caparbi, le mandavano, nonostante non andasse a una festa da secoli. Da quella conca, specie dopo le piene invernali nei calcarei cretacei, riaffioravano fossili di conchiglie e selce lavorata, e l’estesa presenza di lignite – così era scritto sul pieghevole del comune – testimoniava che una volta c’erano boschi abitati dall’uomo, alberi padri che arrivavano alla punta del cielo e fauna di grosse dimensioni, tipo orsi, leoni, cervi, ippopotami ed elefanti. Trafficava, estate e inverno, sempre smanicata, i capelli sulla nuca raccolti a cipolla, mossa da pigrizia e abitudine: il gesto insonnolito di far scorrere la carrucola, per allungare i panni, dalle travi delle roselline che fiancheggiavano il vialetto fin verso i prati e la basolatura, dove stanziava sempre un bel sole, della stalla sfasciata dei Gagliardi. Alla controra i panni si gonfiavano nella luce, alti e svolazzanti, e Piera li lasciava apposta stesi anche se erano asciutti. Le piaceva che i fiori, specie l’aroma dei gelsi, profumassero il bucato, confortata dal pensiero che, uscendo dalle forre, quei panni fossero il primo segnale avvistato dal marito.
Sentiva di tenere fuori l’ostilità del mondo, di non dover spartire più con nessuno rabbie o sguardi rassegnati, e la solitudine era diventata un’istintiva difesa, un gioco che aveva oltrepassato i confini del dominio e adesso cominciava a destare timore. Chi vive isolato impara a regolare il fondo delle proprie angosce sulle scarse novità dello spazio che lo circonda, e la paura vera, se di quella si vuol dire, era arrivare alla fine del mese: pagare le bollette, la rata del Suzuki, circoscrivere di normalità gli studi universitari di sua figlia. Aveva parlato col sindaco, ci era andata con un top di paillettes, come aveva visto fare alle ragazzette, con il collo scoperto e gli spallini sottili. Aveva provato fastidio per quel gesto di superstite, goffa leziosaggine, si sentiva schifata nel profondo per quegli ammiccamenti impiastricciati di profumo stomachevole e trucco pesante. Non erano bastate tre docce, rientrando a casa, per ridare alla pelle un odore cristiano. Erano seicento euro al mese. Puliti.
Quella mattina di agosto lo disse a Miro. Lui si infuriò così tanto che sgarrò le basette, rinunciando per il nervoso al contropelo: “Lascia fottere quella fogna della politica!” Le parlò di dignità. “Sì, ma la dignità pane sotto i denti non ne porta!”, mormorava malsicura. Anche con una punta di ribrezzo per come, avendo persa la pazienza, le uscivano di bocca i concetti. Si andava inselvatichendo come i ruderi abbandonati nella sua frazione, dove rimanevano solo ovili e serre di pomodori. Miro ritrovava in lei forse la lontananza, quel gesto di alzare e abbassare le sue pupille grandi, come faceva da ragazza, al passo dei suoi scoppi d’umore: quel suo schietto e incancellabile stampo che, ieri come oggi, disorientava, spaventava.
Quando scendeva dalla montagna, girava paranoico due o tre volte il muro di cinta della casa, controllava tutte le imposte del pianterreno, il contachilometri del Suzuki: con un balzo saltava il cancello e compariva ai piedi del letto, pieno d’affanno come un animale braccato, levandosi i vestiti strada facendo. Gli piaceva sorprenderla al mattino presto, ascoltare il suo batticuore, portarsela in bagno, riempire la vasca per levarsi dal corpo quell’odore di creta rafferma e foglie marce. Piera gli diceva sempre, con voce spaventata: “Mi fai paura a entrare così in casa! Quando verrai da cristiano?”, però era contenta di saperlo vivo, d’essere presa in quel modo. Da ragazza era una fantasia ricorrente. “Chi vuoi che venga, scemotta, il lupo nero?”, rispondeva lui ridendo col sangue agli occhi, mugolante dietro un’aria birichina, stordito da un’eccitazione mai provata: le lenzuola fresche, la biancheria di Piera che balenava nell’ombra e nel vapore dell’acqua bollente: sudario per sciogliere il calco di infinite notti di sperduto prigioniero e per incartare ancora scuse riguardo ai fatti di quel periodo. La prendeva in braccio come la prima notte di nozze e sprofondava tra le sue cosce impaziente, urtando la specchiera, il comò e i cento spigoli al buio tra la camera e il bagno. Affondava a morsi dietro il collo e sul seno, leccandole la pelle mentre la poggiava sul lavandino, reggendola smanioso per i polpacci (la vasca si riempiva inutilmente). Piera si teneva forte al suo collo, si inarcava come su un’altalena, gli cercava disperata i baci, liberandosi degli slip sul bordo del sanitario con un atletico, delirante colpo di bacino. La bocca restava spalancata fino a ingoiare un piacere concentrato, un lamento tremolante fatto di abbandono e risentimento, che risaliva in superficie, piano e inappellabile, come il mercurio nel tubo del termometro. Lei aveva sempre tante cose da dirgli – rabbie accumulate, sentimenti di offesa che si erano fatte croste dentro – ma già quando poggiava i piedi a terra e chiudeva il rubinetto della vasca, rivestendosi, calava il pentimento: non sapeva mai da quale parte cominciare a recriminare. Poi Miro chiedeva premuroso di Livia, se avesse telefonato, come fosse andato questo o quell’altro esame. Se i soldi erano bastati. La retta dell’affitto era una canna di castagno stagionato e le previsioni parlavano di un inverno freddo. S’informava se fosse venuto qualcuno a cercarlo, Piera alzava le spalle e gli lanciava occhiate rabbiose: “Non puoi sempre scappare!” “Mi fermo! Mi fermo!”, diceva lui irritato coi suoi occhi di bosco, e cambiava discorso ridendo. Si faceva pietà. “Non ce la faccio più, Miro! Ho tutto il diritto di risvegliarmi con te al mattino…”, sospirava lei ormai senza speranze, per un rigurgito di orgoglio, e lui la zittiva con un bacio prima che cominciasse a dire stupidaggini. Il resto del giorno lo passavano a programmare il lungo periodo di assenza, il gioco da sostenere nel caso l’avessero cercato quelli del Consorzio. Non chiedeva mai di Saverio. Lui impartiva raccomandazioni e finiva di radersi accanto all’uscio di casa e nello specchio vedeva riflesso il petto di Piera sollevarsi in un respiro quieto. Immusonito e taciturno sedeva e fumava: gli piaceva sentire addosso il vento che la moglie muoveva, nel fare i servizi, a un passo da lui. Per giorni, nella casupola che si era scavato nelle grotte, quel vento gli sarebbe mancato più di ogni altra cosa. Aveva cura di non pensare a Piera o ai sensi di colpa proprio quando si sarebbe trovato su quel passaggio da esperti che nei mesi di disgelo mulinellava senza sosta. Sarebbe bastato un piede in fallo, un giramento di testa e in un niente si sarebbe ritrovato per la via del mare, inghiottito da un labirinto di canali che ramificavano sotterranei dalle vette e che sfogavano qua e là, sui costoni, in sorgenti di acqua freddissima, buona da bere o in piccole paratoie per irrigare.
***
Da quando aveva iniziato i lavori per sistemare il tetto, Saverio Mannarino aiutava Piera a fronteggiare le spese. Le sue continue visite, d’un tratto signorili e garbate, la fecero sprofondare nei pensieri per Miro e in quegli anni ormai morti, da cui riaffiorava la luce compressa dei ricordi e la narrativa di fatti scombinati: un’afasia del tempo. Quei fatti, implosi nella menzogna, li vedeva ora lontanissimi: non arrossiva più nel salutarli, non s’indignava più nel ricordarli: nella memoria galleggiavano vuoti e siderali, senza emozioni, come richiusi in un recesso dove soffiava un vento cattivo e stizzito, uguale a quello che viene giù a gennaio dalle gole del Diavolo. I carabinieri le avevano consigliato di non restare più da sola su quei canaloni aperti, temendo ritorsioni e minacce, come era successo col marito, con il rischio di crepare d’infarto nel trovarsi a quattr’occhi con qualche malintenzionato. Ma Piera aveva risposto serafica: “Qua sono”. E li aveva ringraziati per la premura. Ammassava panni e cianfrusaglie di Miro in un angolo della spianata, li bruciava, come una macabra premonizione, a piccoli mucchi sopra le pietre, sotto lo sguardo curioso dei muratori. A volte cantava per disorientarli, a gola spiegata e melodia ferma, sorpresa che quella voce toccasse, per la tiroidite, toni sempre più bassi.
Cantava anche nell’orto, così teneva lontani, assieme ai pensieri, gazze e piccioni che gli mettevano il verme ai frutti e quegli stramaledetti cinghiali che forzavano la recinzione. Certe mattine, quando toccava il suo turno per irrigare, col buio e l’umido che aggredivano le gambe scoperte, Piera avvertiva inquietudine. Le macchie della nebbia pareva modellassero, tra i rami e i pali dei fagioli, forme arzigogolate e, nel fissare il rivolo lentissimo dell’acqua che scorreva nei solchi, lei credeva che da un momento all’altro, dal nero della terra, spuntasse un ippopotamo o il viso inferocito di qualche bestia pleistocenica. O magari, cosa più facile, uno di quei buzzurri che l’avevano minacciata dopo che lei aveva accampato un suo diritto. Le continue perdite della rete non solo facevano passare la voglia di coltivare (l’Ente Irrigazione razionalizzava le bocchette dell’acquedotto e l’utilizzo delle pompe per ciascun terreno in modo da consentire il livello sufficiente dei serbatoi e non lasciare a secco gli usufruttari. Fornendo i ticket per ciascun consorziato, erogava a orario l’acqua in base alla quota dei terreni: e lei, avendo un piccolo appezzamento, doveva irrigare quei quattro fagioli sempre prima dell’alba e “in orari da galera!” – diceva protestando con Saverio che scappava a sturarle i tubi pieni d’aria nel cuore della notte), ma creavano una tensione allucinante: ore di attesa e litigi continui coi soliti deficienti che le rubavano l’acqua, approfittando del fatto che fosse donna e sola.
La verità è che ultimamente non stava bene e Livia doveva arrivare alla tesi serena: aveva chiesto a Saverio se poteva parlare di nuovo col sindaco. Ormai lui non c’era solo per le commissioni, per portarla dal medico o a fare le analisi: in lui ritrovava quella consolazione e quel calore che le erano mancati, sentiva nascere un affetto. Attendeva i risultati dell’esame citologico alla tiroide con calma e senza un fremito. La spossatezza, le gambe legnose, anche una leggera febbricola, la tenevano in apprensione. Ma ci fumava sopra. Il suo conforto era riposto nella certezza che Saverio, ora che non schiumava più di rabbia, le volesse veramente bene, senza calcolo, senza patemi. Ora che il silenzio che veniva dall’Abisso del Diavolo era tornato impassibile, feroce e simile ai suoi stessi pensieri, quelli che le toglievano il sonno e la facevano alzare di notte a rassettare la casa, a controllare sul calendario il ciclo della luna per tirare dai solchi ortaggi vigorosi, o per regolare le dosi del cortisone. Pensieri, infine, che vincevano ritrosie e timidezze nell’esaltazione di quel corpo di nuovo aggressivo, tonico, rinvigorito dalla terapia ormonale. Dopo un primo esame dei movimenti bancari, il direttore della Banca di Credito, avendo notato picchi di assegni interni, l’aveva contattata per dirle se passava a prendere un caffè. Piera declinò gentilmente, si era sempre tenuta lontana dai pettegolezzi. Il paese continuava a farle paura e Saverio si stava troppo allargando.
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Deglutì e avvertì un dolore forte alla gola ripensando a quella mattina che lui scese per dirle il gran segreto. Mentre rotolavano in cortile nell’ultimo strascico di passione, lei gli chiese solo la cortesia di non fumare (voleva sentire l’odore dei semprevivi che si sfrangevano sotto il peso dei loro corpi) e di montare il clarino. In alto c’era un bel sole e lui l’aveva infine accontentata. Suonava ancora bene, col doppio staccato, senza far fischiare l’ancia. Si sentiva che in montagna si esercitava parecchio. Piera lo aveva afferrato da un braccio, e contenta, civettuola, lo guidava nei passi. Miro sentiva la durezza dei suoi seni sul petto, scheggiò un paio di note per l’eccitazione, lei alzava lo sguardo e gli sorrideva negli occhi, diceva che se lui non avesse avuto l’impiccio dello strumento potevano pure ballare. “Livia è molto più brava!” cantilenava lei, “Nostra figlia è nata per il ballo, per la musica. Lei è brava in tutto! Qualcosa di buono, io e te, l’abbiamo combinato”, continuava incontenibile, in preda a una debolezza.
“Ce la caveremo, vedrai. Tieni botta un altro po’…”, diceva agitato, coi suoi occhi annuvolati.
“Ma tu suona, ti prego. Non ti fermare…”, lei si accoccolava continuando a fischiettare il ballabile nelle orecchie di Miro, mentre una scorza rubina di cielo insisteva fra i rami, nel laconico commiato dell’estate.
“Lascio il paese”, disse a Piera, “ecco la grande novità. Forse mi prende una ditta di posacavi. Ho fatto il colloquio ieri: tutto a posto. Devono potenziare la fibra ottica in Toscana. Tre anni ininterrotti di lavori, indennità di trasferta, vitto e alloggio spesato”. Nel cielo passavano nuvole lente. Sostavano un attimo sopra quei campi sterminati e poi riprendevano, galoppanti a bassa quota, il cammino verso il mare. Piera scuoteva la testa. “Ma io non torno, lo dobbiamo a Livia, è l’ultimo sacrificio che ti chiedo”, diceva mentre imbustava il bucato fresco e riponeva il clarino – sbatacchiando come se, insieme a quelle nuvole, pure lui volesse salutare.
In Toscana Miro Brunetti non arrivò mai; l’ultima volta lo videro risalire il sentiero per le grotte e sostare guardingo in una carbonaia scavata sotto le radici asciutte dei cerri e risistemata alla meglio per riposare. Così annotarono nel rapporto i carabinieri di R.
L’anno dopo il sindaco firmò l’ordinanza che vietava bivacchi e pic-nic in montagna, con il divieto assoluto, a scopo potabile, dell’utilizzo delle fontanelle che sgorgavano dai canaloni e dai muri paralleli all’Abisso del Diavolo. Questo finché l’Istituto Superiore della Sanità non avesse effettuato controlli più accurati. Più di una persona si lasciò andare alla maligna assonanza che le sorgenti fossero infettate per colpa di quel disgraziato di Miro, avendo lui fatto la fine stupida dell’acqua e immaginando la sua carcassa impigliata nello sprofondo di qualche anfratto, piallata da alghe e larve, con la bocca aperta che zampillava come una sorgente.
Il giorno stesso che il sindaco firmò l’ordinanza, la ditta della mensa chiamò Piera a scuola. Uscita dal suo primo turno di lavoro, ad aspettarla, con la macchina in moto e lo stereo acceso, c’era tutto contento e imbolsito Saverio Mannarino.