La caduta dei murazzi: Enrico Remmert
Nota
di
Francesco Forlani
(Articolo pubblicato sull’ultimo numero di Focus)
Nella prefazione alle Chroniques pubblicata nel ‘62 Giono entra a gamba tesa sul nouveau roman: “Per sbarazzarsi di Omero, ci dicono, bisognerà raccontare l’Odissea invertendo l’ordine della storia e con voce da balbuziente”. E che due palle, sembra lasciarsi sfuggire l’autore dell’Ussaro sui tetti. Ci sono in italia non pochi narratori, alla Jean Giono, che per questa loro prerogativa, di credere ancora alle storie, di saperle raccontare ma soprattutto ascoltarle, vengono sistematicamente ignorati dalla critica dotta, alta, quella tutta dedita a sparare cànoni anno dopo anno, in nome delle loro cricche e dei loro sodali, a difesa di quell’ultimo baluardo della scrittura che per lo più viene definita letteratura di ricerca. Dall’altra parte non è che poi vada meglio con il regime delle classifiche dei più venduti dove non si capisce se quel venduti sta per libri acquistati o autori venduti alla grande causa della paccottiglia dei generi, in genere poliziesco o fantasy. Di Enrico Remmert possiamo dire una cosa con certezza: a differenza di molti suoi contemporanei che sembrano libro dopo libro, anche due all’anno, scrivere sempre e soltanto della stessa storia, lui ne pubblica uno ogni quattro anni, e non un libro che assomigli all’altro. Nonostante il gran numero di lettori, le traduzioni in molti paesi, perfino alcuni critici italiani si sono concentrati sull’officina letteraria di Remmert, esaltandone la maîtrise delle tecniche narrative, fino ad attribuirgli nella scrittura un grado di consapevolezza, quella gradazione che in molti gli riconosciamo nel difficile campo degli alcolici. Per quanto lusinghiere e giuste esse siano, a mio avviso tali critiche sembrano nonostante tutto perdere di vista la vera vocazione del suo autore: un talento smisurato nel raccontare storie.
À mon avis, celui qui écrit un livre raconte une histoire, un point c’est tout., aveva scritto sempre Jean Giono nei primi anni del dopoguerra, tirando in ballo i cantastorie arabi capaci di tenere banco davanti ai passanti e intrattenerli fino alla fine del racconto. Quanti scrittori dei nostri giorni raccoglierebbero il guanto di sfida gettato dal maestro per mostrarsi capaci di mettersi a raccontare storie, in un angolo di strada qualunque? Enrico Remmert sì e ne ho le prove.
Questa premessa mi è necessaria per far capire perché definire una raccolta di racconti La guerra dei Murazzi, da poco pubblicato da Marsilio, sarebbe fare un torto grandissimo alla natura di quest’opera poiché si tratta di storie. Punto. Otto progetti per la costruzione di una nuvola, Havana 3 a.m, Baal, e la Guerra dei Murazzi, sono quattro storie attraversate da un solo interrogativo formulato dall’autore stesso nella prima di esse, quella che dà il titolo al libro: Perché trovavo che ci fosse qualcosa di magnetico nella violenza, come una droga?
Questo si chiede Manu, barista di uno dei luoghi in cui si sta rifacendo la storia delle notti torinesi, protagonista del primo racconto, ma anche di quell’ incredibile epoca dei murazzi a Torino. Quello che non riusciamo a capire è se la ragazza questa domanda la stia facendo all’io narrante, al proprio creatore e dunque come ascoltatrice o a sé stessa. Certo è che la descrizione nelle prime pagine dello scontro tra hooligans e una banda di quartiere magrebina, superiore per numero ma non addestrata, ti coinvolge nella minuziosa descrizione del campo di battaglia- quei famosi controviali di Torino che nessun italiano al mondo potrà mai capire. E ti immedesimi a a tal punto in quella prospettiva, le due ragazze assistono da un balcone agli eventi, che la visuale da cui tutto si genera si sovrappone all’occhio del lettore come se si fosse dentro a una pagina dell’arte della guerra o di certe riproduzioni della battaglia di Waterloo che si possono vedere al Musée de l’Armée a Parigi. Non aveva forse scritto. Sun Tzu che “Fondamentale in tutte le guerre è lo stratagemma”? Senza voler qui rivelare i dettagli di ogni singola storia dove la trama è un semplice incidente di percorso nello svelamento del senso che il lettore compirà davvero solo alla lettura, quello che colpisce è la leggerezza con cui i giochi si fanno attraverso l’elemento tattico e dunque razionale, in tutte e quattro le storie. Se c’è una traccia che potrebbe servire nella comprensione dell’estetica di Remmert questa va sicuramente trovata tra le lezioni americane di Italo Calvino e in particolare la prima, dedicata alla leggerezza. Come non mettere in relazione infatti questa prima immagine degli hooligans, rapidi, impercettibili, con una delle ultime, l’annegamento nel Po davanti ai Murazzi di Abdellah? Come non scorgervi infatti l’opposizione tra leggerezza dei gesti e delle fughe nel primo, e pesantezza di un corpo che annega in mezzo a una festa in grado di annientare ogni residuo di razionalità, di umanità e permettere ai tanti testimoni di assistere alla morte di un uomo senza coglierne la gravità, il peso, appunto.
“La letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere. » è la formulazione di Calvino che a mio avviso corrisponde a pieno con quanto le quattro storie della Guerra dei Murazzi ci vogliono dire. La scrittura di Enrico Remmert vi opera allora come un crittografo implacabile nel generare storie da dettagli a volte insignificanti, da quadri astratti del vivere comune. C’è una scena particolarmente forte secondo me in cui la protagonista, Manu, descrive i volti nascosti tra le piastrelle del bagno.
“Io e Nenne avevamo un bagno tutto tappezzato di piastrelline azzurre di due centimetri di lato, tipo tessere di un mosaico ma smaltate su varie sfumature e perciò ognuna diversa dall’altra, e quando facevo pipì fissavo il pavimento cercando di trovare in certe singole piastrelline una sagoma che mi ricordasse qualcosa, un po’ come leggere le nuvole ma in scala molto più piccola.” Per ognuno dei personaggi di queste storie possiamo dire che è come se cercassero nella storia dell’altro, quella di un intero paese, Cuba e delle sue leggende, di un cane dai tratti infernali di Cerbero o di un parrucchiere giapponese, la propria indecifrabile storia, la natura stessa del suo esistere.
La parola storia, del resto, ricorre per ben sessantadue volte nel libro a conferma di quanto si legge nella citazione posta ad esergo nella prima pagina.
Ci hanno mandato via perché non conoscono le nostre storie. BELINDA, JOY E FAITH, profughe respinte a Gorino nell’ottobre 2016
Se allora vogliamo che restino, che rimanga davvero qualcosa, alla fine, una sola è la condizione perché ciò accada ed è raccontare storie, conoscerle, ma soprattutto farsele raccontare perfino quando ci verrebbe da dire con Manu:
E sapete quelli che vi raccontano la loro incredibile storia e alla fine vi dicono: ma io non mi sono mai perso d’animo? Ecco, io sono di quegli altri, sono di quelli che invece alla fine si sono persi.
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Forlani qui sopra (il grassetto è mio):
La redazione di Nazione Indiana, alcuni giorni prima:
Non fare agli altri…