Discorso provvisorio di una cometa malinconica a un padre infelice
di Roberto Gerace
Tu che vivi sempre nel chiuso di un corpo come nell’ultima cella di un convento evacuato, scaldando un posto nel freddo, incessante slabbrarsi del cosmo, e hai perduto la tua vita, presta, ti prego, al mio provvisorio spettro il tuo respiro calmo. È facile per te, che te ne vai per le vie già solcate, tanto sicuro, a ogni svolta, di calpestare soltanto i tuoi passi, di trascinarti nient’altro che il tuo itinerario, di aprir la strada solamente alla tua aurea strada; facile per te che, se ti si chiedesse, giureresti di sederti sempre sul tuo fondo schiena, con un natica rigorosamente a destra, l’altra a manca, e addirittura di guardare il tuo sguardo che si guarda attorno, a ogni istante, o volando alto nel cielo nel suo volo, sulle intemperanze dei tetti, le finestre che si fingono balconi, nella velleità dell’aria che vuol farsi fuoco fra stracci di nuvole… Oppure andando per le sottovie dell’essere, le linee di displuvio, i transiti di caverne in caverne, affacciando ai margini di strapiombi silenti, sospirando alle lanugini del mare, mettendosi alle spalle geometrie forsennate di bestie, batteri, rugiade, contravvenire di campanacci, all’aurora, sui campi, allontanarsi di ululati e canti… Facile per te, che credi quasi d’essere il tuo sguardo, di poter governare con l’occhio l’intero reame del mondo. E di giudicare il tuo giudizio, di giocare a modo tuo tutte le mosse del tuo vecchio gioco, di saltare di nuovo il tuo ennesimo salto nel vuoto, quando attraversi, al mattino, ad esempio, sempre gli stessi stretti marciapiedi straziati da escrescenze di fiori, esitazioni di petali, amori linfatici inespressi, umide metamorfosi abbandonate in un vicolo dalla tenaglia cieca del destino; o quando spazzi l’asfalto incrinato e ombroso ai piedi della cattedrale e passi avanti, sudato, con la mente allagata perennemente da chissà che altri, spaiati pensieri. Come se fossi il tuo satellite, la tua candida luna ancorata al soffitto del mondo. Chi se ne fotte di quel che resta alle spalle? È già troppo un istante. Chi se ne fotte delle cattedrali? Sono buie e non hanno il wi-fi. E così non ti accorgi dei loro scheletri inquieti poggiati sul tuorlo delle città come mani sbocciate, coi loro vasti portoni, con tutta la scalmana dei campanili messi lì a cantare il loro osanna, a mo’ di falangi falangine falangette anelanti ai fortunali, alle torsioni degli angeli, alle metastasi dei cieli; e nemmeno dei loro grembi in penombra che si schiudono, all’interno, come alveari, in cripte o quasi fogne di luce, o fondali o fontane di candele, o cicatrici di silenzio in cui sonnecchiano i santi. Facile per te, che crederesti di ascoltare il grido sordo del tuo ascolto, di parlare dentro la tua voce, di intonare l’eco tenue del tuo tono, mentre la tua carne incarna ogni tua fibra in ogni piega e piaga e il tuo pensiero pensa di pensare, e la tua pelle indossa la tua pelle ogni sera come un vestito da sera. Sei mai franato? Hai mai riso? Hai mai provato ad ascoltare il sole quando sorge e irrora? Tu che te ne stai lì e attendi la tua attesa a una fermata qualsiasi del tempo, sotto un cielo più buio del buio e un massacro di stelle, desiderando di desiderare di amare il tuo amore a tal punto da riuscire a immaginare, forse, un giorno chissà quanto lontano, chissà in quale universo chissà quante volte sfiorato da chissà quale utopia di galassie, di immaginare di immaginare di vivere… Vuoi tremare dentro il mio tremore? Vuoi baluginare anche tu? Vuoi sapere da cosa scappano le comete? Tu che instauri in ogni gesto la favola di un gesto, compiendo quotidianamente il rito del tuo rito, dalla mattina alla sera, da mai e da sempre, da quando sei sbucato dal tuo buco e hai pianto, e hai portato la maschera della tua faccia in tutte le occasioni, come una bandiera accordata agli strali del vento, facendo ombra alla tua ombra, firmando quando serve la tua firma a immortalare tutto intero il dolore, l’orrore del cosmo; tu che cachi la tua merda e poi la chiami Storia, tu che baci il tuo bacio di nascosto a te stesso, tu che canti a bassa voce il delirio del tuo canto, tu che fotti e sei fottuto, compri e sei comprato, salvi e sei salvato, chiedi grazia alla bufera della grazia, liberandoti dalla libertà, mancando alla mancanza, inalando il tuo respiro che rimbomba al cuore ogni momento, ogni momento, abbracciando l’intervallo del tuo abbraccio come un tronco cavo, un vuoto vuoto, un teatro, magari mentre sogni nel tuo sogno e dormi per scoprirti addormentato… Io non ho volto, non ho verbo, non ho cuore. Io sono solo ghiaccio e luce; e morte che pian piano muore.
Nella mia trasmigrazione vedi forse il compimento di un mandato, un algoritmo sordo nel mio improvviso miracolo. Dove sei? A che cosa pensi mentre passo? Forse sei spaparanzato sul divano a pancia in su, con la nuca sul cuscino, e guardi il totem del televisore che da opaco, taciturno, sornione, si accende con quel suono di pioggia di pioggia in un bicchiere e una scintilla solenne, tra i segmenti delle tue cosce aperti a compasso, i punti di fuga del soffitto in fuga, le stampe, le tende e – sebbene dalla finestra una fusaiola di nuvole chiami lontano lontano lontano i pensieri – davvero tua figlia ha cambiato cognome? Che tempo fa in California? C’è caldo? C’è vento? Non c’è l’uragano? Esiste al mondo un modo per non impazzire? – il tuo ombelico, scoperto e indifeso, fa da primo, epidermico, spiraliforme scolo catodico, sul quale schegge palpitanti di riflessi riflessi incominciano già a imbizzarrire come escrementi abbandonati, in una rigida notte d’autunno, di ritorno da una cena d’amore, ai mulinelli delle tazze dei cessi; simili a rantolìi o starnuti, a vagiti o nevischi di luce irradiati dallo schermo; tanto minutamente variopinti, entusiasmati, efflorescenti, effimeri: quasi un gioco d’acque di sorgiva che sia giunto spumeggiando alla sua foce, smuovendo sassi su sassi fra spasmi di cefali, fra esantemi oscillanti di canne sul velo del velo dell’onda, di foglie, tra spruzzi, tra anelli d’anelli iridati, e coccinelle avvinghiate alle felci in attesa assonnata dell’alba, e viavai di farfalle dalle ali diviate e nervose, e bachi imperterriti, appesi come gocce, a capofitto nel vuoto del vuoto del vuoto convesso e vibratile, che persistono ad essere ciò che divengono e a divenire ciò che sono… – stramaledetto quel giorno che non le hai dato un bacio sul naso a patata, che hai aggirato oscillando il bordo del vulcano, che non hai saputo nemmeno afferrarle, accarezzarle la mano bambina… – quasi il delta di un fiume regale che sbandi via via dalle anse alle anse agli abissi salmastri, all’impero di alghe, patelle, coralli, arenicole, stelle marine, mormorando ai vezzi di zefiro, rifrangendo teorie di teorie di gabbiani, smettendo il diadema fluviale e ingoiando pian piano, pian piano cullando salsedine (ma quanta ce ne vuole, quanta, perché si chiami finalmente oceano? Quanto bisogna vivere per imparare a morire? Quanta morte occorre per poter risplendere?); tanto disperatamente diafani, mobili, perdutamente lucenti sul tuo ombelico, che finirai per dubitare, forse per il morso d’un attimo, di aver visto davvero oltre i vetri, levando alto lo sguardo, coi tuoi occhi incerti di primate esausto, l’impalcatura del mio corpo imperversare in cielo come una carovana di sogni in naufragio.
Non affacciarti: non faresti in tempo. Sono solo una cometa, ma la mia corsa è più veloce del rimpianto. Sono una coltellata e una ferita rutilante, un tendine bianco nelle budella dell’azzurro. Anch’io morirò presto. La mia chioma sparirà come rugiada al vento del deserto, scantonando tra i pianeti. Non compatirmi. Non trarre auspici dalla curvatura stanca del mio cammino. Pensa a tutte quelle volte che non hai guardato il cielo, che hai creduto di bastarti: tu e la tua testa piantata sul collo; tu e i tuoi piedi sempre incollati a terra per non cadere. Quanta vita c’è in questa sutura tra il protendere e l’agire? Quanti sogni sono morti? Per dove corre questo nastro su cui dormi? A quale orbita rispondi? Se poi mi chiedi, io non so da che scappiamo, noi comete. Per noi la quiete è questa sorta di caduta orfana, senza inciampi.
Bellissimo. Complimenti, Roberto.