Fabio Aguzzi, il male di vivere
di Romano A. Fiocchi
È passato un anno. Dicono che fosse ossessionato dalla luce, dalla possibilità di catturarla e costringerla lì, sulla tela. Obbiettivo ambizioso e stimolante, per un artista. Eppure non sufficiente per sconfiggere il male di vivere: Fabio Aguzzi ha spento quella luce con un colpo di pistola la sera del 31 dicembre 2016, nella sua casa di Vidigulfo, mentre altrove ci si preparava al veglione di San Silvestro. Unici testimoni il suo abituale bicchiere di whisky e l’immancabile sigaro, così l’articolo del quotidiano La Provincia Pavese datato 2 gennaio 2017. Lo stesso giornale, qualche settimana fa, segnalava che l’Art Cafè di Casteggio, ultimo luogo visitato dall’artista, gli dedicherà una piccola mostra antologica.
Non lo conoscevo personalmente ma mi fermavo sempre a osservare le due vetrine del suo studio milanese al numero sedici di via Brera, un paio di edifici prima della sede della storica Accademia di Belle Arti. Dove lui aveva insegnato, tra l’altro, dopo averla frequentata come studente. Ci passo ancora, in via Brera, e ogni volta non posso fare a meno di guardare quelle vetrine. I primi giorni dopo la sua scomparsa erano nascoste da pannelli metallici con modanature che in questo stabile scorrono da sotto in su, alternativa di buon gusto alle anonime saracinesche. Poi, per un po’ di tempo, le vetrine sono tornate visibili e hanno esposto le sue ultime opere con un biglietto: Per informazioni sui dipinti di Fabio Aguzzi (1953-2016) telefonare al 328 4756221. For info tel. 0039 328 4756221. Segno evidente che qualcuno si stava occupando di svuotare i locali. Ecco la cosa che più mi disorienta: sapere che Fabio Aguzzi abbia voluto abbandonare con determinazione assoluta tutto questo, il suo studio, i suoi lavori, le sue vetrine sul mondo. Voglio dire, quando leggo di Van Gogh che si è sparato in mezzo ad un campo di grano con la sola compagnia dei corvi che gli svolazzavano negli occhi e nella mente, oppure di Hemingway che l’ha fatta finita con un colpo di fucile in bocca, oppure di Guido Morselli che chiamava amorevolmente “la mia ragazza dall’occhio nero” la pistola con cui si sarebbe ammazzato, mi sembra quasi di accettare il suicidio come un complemento della loro opera, come l’ultima pagina di un romanzo. Sono personaggi, non più uomini. Poi ti capita di trovartelo lì vicinissimo, un artista suicida, così vero che magari ti è passato accanto qualche volta mentre percorrevi via Brera, o ti ha guardato da dentro lo studio mentre eri fermo davanti alle vetrine con le sue opere. Allora senti il peso di quel gesto estremo, capisci che a compierlo è un uomo come te, forse soltanto più solo e più disperato. E che anche quelli che ti sembrano personaggi sono così, uomini come te, soltanto più soli e più disperati.
Ma chi era Fabio Aguzzi e cosa – non diciamo produceva, ma creava, a quale genere di invenzioni pittoriche dava vita. Nato nel 1953, da sempre divideva la sua vita tra Milano e Vidigulfo, provincia di Pavia. Portato per il disegno sin da bambino, viene indirizzato al liceo artistico e all’Accademia di Belle arti di Brera su suggerimento della stessa insegnante delle scuole elementari. È allievo dello scultore Alik Cavaliere (1926-1998) e del pittore Vincenzo Ferrari (1941-2010), fa da assistente allo studio di Annibale Biglione (1923-1981). A Brera, come ho detto, finirà anche per insegnarvi. Per i suoi dipinti predilige formati di grandi dimensioni, per quanto i soggetti siano spesso piccole cose come tazze, sigari, spazzole, vecchi giocattoli, grappoli d’uva, gusci di uova, noci, strumenti da fabbro e da falegname, e così via.
La tela è lo spazio in cui il piccolo oggetto quotidiano viene ingrandito, analizzato nei dettagli attraverso velature sovrapposte, alla maniera fiamminga. C’è stato anche un periodo di nudi di donna, più recente un periodo di paesaggi, ma è la natura morta resa viva dalla luce che ho sempre visto in quelle due vetrine del suo studio: cesti di frutta, fiori, sedie, vasi di vetro, bicchieri, conchiglie, tutto di gusto verista più che iperrealista. Talvolta sono stato tentato di entrarvi, e mi pento di non averlo mai fatto. Mi fermavo e osservavo, cercavo di leggere le immagini, perché un dipinto che è vero dipinto ti parla comunque, senza bisogno di alcuna audioguida o catalogo introduttivo. E ora, che so come è finita, la lettura di quei dipinti assume tutto un altro tipo di intensità: quella dei sogni, della ricerca di una verità in bilico tra vita e non-vita.
– Ha scelto una fine da artista, – mi ha detto un amico, docente in un liceo artistico, che lo conosceva di persona. Ma io continuo a passare davanti a quelle vetrine, che ora non espongono nemmeno più i suoi ultimi lavori bensì quelli di un altro artista iperrealista, Saverio Polloni. Intanto continuo a pensare a quel whisky abbandonato sul tavolino della sua casa di Vidigulfo, al sigaro spento, e mi chiedo: perché.
Il suo sito è ancora on-line, qui, come una lapide virtuale lasciata a vagare nel ciberspazio. Per il resto, la sensazione è che tutto il lavoro creativo di una vita sia già stato inghiottito – immeritatamente – dall’oblio.