Opus Lunae (L’abero delle madri in quaternio)

di Valeria Bianchi Mian

La cicatrice ora duole, se con l’indice ne premo i lembi tracciati in rosa antico. È la linea frastagliata di una battaglia che non avrà mai fine. È la nostra comune ferita, la feritoia del differenziarsi nel Tu e nell’Io tra le grandi labbra.

Dalla vagina emerge a tratti una nuova risposta: se solo non avessi dimenticato la domanda di partenza, come novella Parsifal dai seni minuscoli potrei trarre adesso dal testo le dovute conseguenze e, nel contesto della nostra relazione obbligata, saprei tessere giorno dopo giorno l’arazzo delle madri feconde, la storia della dea dalle innumerevoli mammelle. Potrei dirmi soddisfatta del Vaso.

Non sarebbe in tal caso pretestuoso insistere nell’Opus a dispetto dei reiterati fallimenti. Avrei una buona opinione della velleità alchimistica che esprimo a gran voce e non starei qui a cuocere irrequieta, modificando la temperatura in continuazione nell’imbarazzante impegno del convincermi di avere una qualche possibilità di trovare una quadra. Sarei l’abile cuoca che dichiaro di essere. Seduta in posa regale di fronte all’athanor, non avrei più dubbi. Con dovizia di particolari saprei partire dal primo filo plumbeo, senza dover fare a pezzi il mio disegno per ricominciare ogni volta da capo. Sono stanca, mamma. Porto in giro due gambe segnate dai chilometri percorsi nella distanza che risulta analizzando le immagini di me sempre fuori fuoco, quelle che non passano mai l’esame di Saturno.

Ho scritto pagine di sutura nel tracciato familiare fatto a punti – la mia debole eco nel millennio che è un futuro remoto già passato. Per fare un oro che non sia mai del volgo, pur nascendo dalle cloache di un sentire collettivo, occorrerà molto più tempo di quanto io ne abbia ricevuto in dote. Non che mi dia per vinta: nell’alambicco già risplende la cauda pavonis, iridescente prova di tutte le mie migliori intenzioni.

Uno - i colori della bisnonna Maddalena

C’è questa fotografia sbiadita tra le mani di mia madre. Lei mi indica una donna sorridente che se ne sta un poco in disparte, quasi ai margini del foglio. È molto bella, decisamente giunonica. Il suo nome è quello della peccatrice, della prostituta perennemente amante. Mai sposa. Io non credo che la bisnonna eviti il centro della scena per timidezza o per assecondare i pregiudizi dell’epoca nei confronti delle femmine vistose; d’altronde, la gente è accorsa in piazza per la festa e le donne corrono a comprare le sigarette o le cartoline da spedire ai parenti. Sullo sfondo si vedono le montagne, sopra i tetti di Tavernole c’è ancora la neve, ma la trasformazione di Maddalena in regina dell’estate è subitanea ed ecco che lei, procace Demetra, con un mazzo di papaveri e spighe tra le braccia si dirige a passo lesto verso una paziente in preda alle doglie. Forse sono io che mi confondo i sensi, se adesso riconosco nelle mie stesse dita quelle della curandera, ché la bisnonna tirava fuori i bambini dal ventre unico delle madri.

Vaso d’alchimia, Madama Arte con i piedi grandi e le calze di cotone color carne non mi somiglia per niente, in realtà. Io sono sempre stata troppo magra per contenerla tutta, eppure mi muovo nel suo nome in compimento, compongo ogni giorno le mie idee Maddalene in gestazione di progetti, in aborti poetici o, se la fortuna mi assiste, in nuove partenze.

Due – l’errore di Angela

L’infermiera più bella dell’ospedale, dicevano. I medici facevano la fila, e le proposte di matrimonio, e i cuori palpitanti.

Ma lei no.

Lei scelse l’uomo con il fiore all’occhiello e il pollice verde, l’uomo appassionato di costellazioni, quello che costruiva aerei per la ditta Caproni. Quello zoppo, per via della poliomielite.

Angela, occhi di lago montano.

Morta a 45 anni, di colpo.

Neanche il tempo di capire che una vena del suo cervello di donna era scoppiata.

Bum!

Così ti hanno raccontata a me, a me che non ti ho mai conosciuta, se non attraverso il buco nero dell’assenza.

Nel buco nero ho cercato la mano di mia madre, ma lei piangeva troppo.

Nel buco nero ho piantato fiori di sangue.

Dentro il buco mi sono sdraiata e ho provato a morire anch’io, ma la morte mi ha riso in faccia e mi ha regalato una bottiglia di vino.

Ho bevuto il vino ed è nato mio figlio.

Nel buco oggi innaffio una rosa.

Tre – oltre Liliana, mia madre

Nigredo.

Nelle lettere del nome scrivi il giglio, il lavorio incessante sulla materia lunare – eppure del satellite argenteo non hai proprio un bel niente, tu che sei stata il mio Sole comandante colori e servitori. Recuperare l’amore che oggi provo nei confronti di quello che siamo è stata la mia impresa erculea. E allora perché dentro la stanza vuota posso ancora udire il tuo pianto?

Perdonami se, gli occhi serrati, la bocca spalancata nella posa del nordico urlo perenne, non ho saputo cogliere prima l’essenza che ogni figlia dovrebbe emanare – non tirare su col naso, stai composta, dritta con la schiena. Quando premevi il fazzoletto umido sulla mia testa, io facevo finta di avere la febbre per poter rimanere ancora e ancora in attesa di te. Lo so che ti sei preoccupata di tutto, ma è stato proprio questo occuparti di ogni mia paura prima che io stessa potessi percepirla che ancora adesso mi debilita.

Lo so che tua madre, cara madre mia, ti ha lasciata troppo presto. Me lo hai ripetuto miliardi di volte, spargendo i voti senza più alcun desiderio di raggiungermi al di là delle luci, artifici di stelle defunte, uccise sul nascere come le illusioni. Sono consapevole di tutto ma non accetto che il tradimento che hai subito dalla vita diventi per me una giustificazione alla rinuncia. Parlerò arabo e tu mi risponderai in cinese; scriverò in rumeno e tu mi narrerai in spagnolo. Saremo babeliche finché morte non ci separerà, multiformi etnie di senso.

Albedo.

Odio le mollette con le quali ti ostinavi a spostarmi la frangia per togliere una tenda di capelli rossi dai miei occhi. Un gesto offerto a viva forza per plasmare l’idea della figlia a modo. Non eri tu a far lamentazioni della violenza del mondo? Perché allora farne un uso spropositato e senza appello?

C’è una Polaroid dentro la quale sorrido soltanto a metà e guardo oltre l’obiettivo, come se nel novilunio dei nove anni andassi già sviluppando, mio malgrado, la consapevolezza del futuro rapimento, Molti anni dopo, leggendo Colette avrei riconosciuto quell’intuizione come teoria dello strappo, perché la stessa Sido con la verbena tra le mani restava all’erta affinché non comparisse il ladro che avrebbe rubato la sua Core come un fiore dal prato.

Io raccoglievo margherite, vergine sacrificale, ma ti assicuro che l’idea di un amplesso con un Ade qualunque venne in mente a me per prima. Eppure, in qualche modo oscuro, ogni madre che non si rispetti è inesorabilmente “complice del passante”.

Rubedo.

Oggi sono qui e ti guardo mentre partorisco mia nonna, tua madre, dentro il labirinto di specchi. Tento di abbracciare una Valeria più alta e snella di me, poi ci provo con una più carnale e vorticosa, ma non posso che sfiorare le generazioni e riconosco i nostri lineamenti mentre danzo e riavvolgo il filo per uscirne indenne. Le idee mi sbocciano anche in inverno, geneticamente connesse alla cura del tessuto, e non mi fa paura la necessità di un rammendo; non temo l’ennesimo punto croce sulla pelle delle donne che sono stata e che sarò. Desidererei, poiché ambisco ancora alle stelle, che la via non fosse un gran calvario, che la strada d’ora in poi mostrasse volti e voci di pietà per il mio Cristo eternamente errante.

Ho un figlio che non ti somiglia. Non ho saputo partorire una femmina ma non me ne dispiaccio. Nonostante tutto, l’idea di riportare il passato alla luce avrebbe anche potuto funzionare ma il destino ha voluto affibbiarmi un compito diverso.

Quattro – mi chiamo Ave

Il mio Rebis è un nuovo quaderno bianco, tutto da cominciare.

  • immagine realizzata dall’autrice
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