A doppia piazza : Lucio Saviani e Pasquale Panella
Lucio Saviani
AGORETICA
Sulla Piazza
“Prendi niente, fai un cerchio ovunque in mezzo al niente, chiamalo ‘piazza’. E’ quello il centro. Anche del problema, ossia del grande anello tutt’intorno. Che adesso va riempito. Con che? Capisci che non puoi evitarlo, devi farlo. Hai voluto fare un cerchio nel nulla, adesso non puoi accontentarti che di tutto. L’invenzione del cerchio, come quella della ruota, (anzi di più) attiva meccanismi che vanno dalla carrucola ma anche dalla noia tonda tonda di uno stecco sulla sabbia ruotato da te, dal filo d’erba o di metallo intorno al polso, intorno alla caviglia, dalla corona, dall’aureola, fai tu, al disco rigido, liquido, volatile, nebuloso, anche al solito anello di fumo (ma anche oltre, fino a dove non sai dove). Insomma, l’anello va riempito. Di che? (leggo dal libro) ‘…di contenuti sociali: di segni, di funzioni, di attività, di beni’”.
È l’incipit del poema La Piazza di Pasquale Panella. Qual è il libro da cui Panella legge i “contenuti” coi quali va riempito l’anello? Si tratta di Piazze in piazza di Giampiero Castellotti (Spedizioni, Roma, 2016), di cui il poema di Panella costituisce la parte conclusiva. Nella prefazione al volume Giuseppe De Rita individua in un particolare aspetto, che traspare nelle righe del testo, il valore del libro di Castellotti: “La dimensione politica così profondamente scandagliata nel testo, in realtà rinvia alla natura delle relazioni tra le persone nelle varie fasi. Non è la piazza che fa le relazioni, ma viceversa è la natura delle relazioni a fare la piazza; la stessa dimensione politica della piazza dipende da queste relazioni e dal loro senso e contenuto e non viceversa. C’è una quotidianità della piazza che presiede ai tanti usi della stessa, inclusa quella politica”.
Secondo De Rita la ricostruzione storica, l’indagine sulla piazza e sull’evoluzione della sua funzione politica si offrono, all’interno del lavoro di Castellotti (dall’agorà greca e dal foro romano alla piazza rinascimentale, dalla piazza delle rivolte al centro commerciale), come pretesto per una riflessione più ampia. Segnali di rinnovata vitalità delle relazioni e delle nuove piazze in cui esse siano praticate emergono non nella funzione politica della piazza quanto nel ruolo che la piazza ricomincia a svolgere rispetto alla “domanda di relazionalità”.
Le note che seguono intendono muoversi nella direzione di quella riflessione più ampia annunciata dalle pagine introduttive del libro di Castellotti e dall’inizio del poema di Pasquale Panella.
La Piazza è spesso intesa come il luogo della nascita e della vita sociale della città. Eppure, “adombrato” dalla prospettiva filosofica, il concetto di piazza fa venire alla luce l’evento di un’altra, altrettanto fondamentale, nascita.
Lo Stato fa la sua apparizione nel mondo come integrarsi delle differenti, riconosciute volontà individuali nella universalità di un volere comune. Con la nascita dello Stato ha inizio la Storia. La città greca, come è noto, è il luogo, il momento e la modalità della nascita dello Stato, e dunque della Storia. Ma la città greca, allo stesso modo, è il luogo e il momento della nascita di una inedita, nuova, rivoluzionaria, inquieta funzione del pensiero che, nel tempo, avrebbe acquisito il nome di “filosofia”.
La città greca, dunque, a fondamento della comparsa dello Stato, della nascita della storia e dell’inizio della filosofia. La piazza, a sua volta, è un elemento fondamentale nella storia della città occidentale. Sede, di volta in volta, di assemblee pubbliche, fiere e mercati, cerimonie e rappresentazioni religiose, la piazza è stata una componente essenziale nella definizione della forma dell’ambiente collettivo. Nell’antichità, con il nome di agorà e di forum, la piazza concentrava in sé le varie funzioni pubbliche, commerciali e religiose. Agorà, originariamente è “adunanza” e poi “discorso”, da aghèiro, ossia “convoco, raduno” e questo a sua volta da ago, cioè “muovo, vado, mi reco, conduco”, anche “agisco”, nel senso principale di agěre: andare, condurre, spingere. Molto importante per il nostro discorso è, come vedremo, questo legame con l’agire.
Il forum era il luogo centrale della città romana, con i principali edifici pubblici, in cui si teneva il mercato e si facevano affari. Indicativo del suo carattere fondamentale per la città è che il forum si apriva all’incrocio del cardine con il decumano massimo, le due strade cittadine principali.
Alla peculiare complessità che la nascita del Comune assegnò alle funzioni della vita associata, la città medievale corrispose con una moltiplicazione degli spazi pubblici ed un’articolata specializzazione delle funzioni. Nacquero così le piazze civili, dominate dal Palazzo, le piazze del mercato e le piazze religiose, che si aprivano intorno al Duomo. Nel Quattrocento, le piazze civili non ebbero più come riferimento il palazzo comunale bensì il Palazzo del Principe ed ospitarono sempre meno assemblee popolari quanto piuttosto cerimonie di corte e parate militari. Nelle città barocche, il mutamento fu ancora più profondo: da espressione dei valori della comunità la piazza divenne, attraverso il controllo prospettico e l’uniformità delle quinte, l’immagine stessa del potere assoluto, la “scena urbana” in cui il potere si rappresentava e da cui era esclusa ogni partecipazione dello “spettatore”.
Una “scena urbana” che è quasi palcoscenico, come ne Le muse inquietanti di De Chirico in una delle sue celebri “Piazze d’Italia”. Una platea paradossale.
“Piazza” deriva dal latino Platěa, a sua volta dal greco Plateia formatosi su platỳs, “ampio, spazioso” o anche dal latino Plattea, da Plattus, “largo, schiacciato”. La radice più robusta e profonda dunque di questo concetto rimanda ad un luogo piatto, come una spiaggia (plax, plaga), vuoto, aperto, come una radura, ma anche chiuso, racchiuso, circondato. Ci fa insomma pensare alla platea del teatro, detta così perché del teatro è il luogo più basso e ampio, ma anche chiuso e circondato dagli spalti, dalle gallerie, dai loggioni e dal palcoscenico. Tuttavia, la Piazza è una platea in cui si assiste, ma al tempo stesso si dà spettacolo. Si va in piazza a guardare, ma anche a mettersi in mostra: si è attori e spettatori. Ci si accomoda ai lati, ma anche ci si espone.
La filosofia, dicevamo, fa la sua apparizione con la nascita della città greca. Come “pratica sociale”, la filosofia vive nella polis e assume l’agorà come metafora di impegno civile in una scena sociale democratica. Nell’Atene del V secolo a. C. la filosofia inizia il cammino con la sua vocazione di fondo che resterà fino a noi come vocazione politica, o “agoretica”.
La pratica del filosofare è, in questo senso, radicalmente legata alla pratica democratica: esercizio di una cittadinanza democratica ed esercizio sociale della filosofia come due facce di una stessa medaglia. Alla “piazza” la filosofia giunge come “via, strada”: un cammino che si incrocia con altre vie, un incontro che è la sua destinazione più propria. Il dialogo, la condivisione, il confronto, anche il rischio e il pòlemos; insomma, il ritorno che lo schiavo liberatosi dalle catene compie verso la caverna, tra i compagni ancora così incatenati da poterlo mettere a morte.
Lo straniamento della filosofia, come insegnato da Socrate e dal gruppo di suoi amici della verità, è nell’immergersi nell’abitudine, nella piazza, nelle vie della città per tirarne fuori ogni volta quella estraneità che la abita da sempre. Anche nei riguardi della città, nel destino di fare la nostra conoscenza, scopriamo che lo straniero non viene da fuori, ma abita nascosto in noi, e si comporta da padrone di casa.
Praticando la politica più alta, seguendo la vocazione alla vera “legalità”, quello sparuto gruppo di amici della verità e delle leggi mise in subbuglio una città. Lo fecero semplicemente accettando chiunque si sentisse coinvolto, ma accogliendolo in un luogo scomodo, non accomodante, quello della ignoranza consapevole. Non il luogo del potere, delle tecniche, delle pratiche: per quello bastava rivolgersi ai sofisti, maestri di politicanti, di governatori regionali, di segretari cittadini.
L’originaria paradossalità della filosofia risiede nel suo essere riflessione e pratica, azione (agorà, da agěre, come dicevamo), platea paradossale, fondale scenico della caverna ma anche discussione e subbuglio, spiazzamento, déplacement. Di nuovo, questo luogo assume i lineamenti della plateale interiorità della Piazza.
Oggi, nel tempo in cui i centri commerciali – moderne “catene” del mito – vanno delineandosi come le nuove “piazze”, la pratica filosofica si trova a reclamare un diritto di cittadinanza in un mondo assolutamente diverso da quello messo in subbuglio dallo sparuto gruppo di amici della verità. Spesso, purtroppo, senza escludere spettacolarizzazioni della filosofia che svuotano di senso la sua agoreticità, la sua nascita in piazza, proprio organizzando manifestazioni in cui vengono riempite piazze con spettatori di “eventi” filosofici, ovvero di discorsi a cui le migliaia di persone restano nell’impossibilità di prendere parte attiva se non, appunto, come spettatori davanti ad uno schermo o ad una vetrina.
Auspicabile è, invece, il moltiplicarsi di quelle vie attraverso le quali la pratica filosofica oggi cerca di corrispondere all’evento epocale della radicale trasformazione dei mezzi di produzione, elaborazione e comunicazione dei saperi rappresentata dal mondo della Rete, delle sue “piazze virtuali”, comunità di ricerca, gruppi di dialogo, “forum” di riflessione, odierna agorà della filosofia come pratica sociale. Si tratta, in definitiva, della possibilità di un corrispondere autentico della filosofia alla sua nascita “in piazza” e dunque, seguendo l’invito di Platone nella VII Lettera, a “restare fedeli alla filosofia”.
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Sto leggendo in questi giorni Parigi senza passare dal via.
Piacevole e divertente.
Questo articolo non riesco a leggerlo.
Perché?
Forse sono solo stanco…